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Il buono, il Rutte il cattivo

Claudio Cerasa

L’europeismo visionario di Merkel, il saggio pragmatismo del premier olandese, il cialtrosovranismo mostrato da Wilders. No, i soldi senza condizioni non esistono. Perché l’Europa del futuro ha messo in mutande i vecchi e i nuovi populismi

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È possibile che alla fine andrà tutto in vacca. È possibile che l’Europa non ci darà nulla di quanto promesso. È possibile che i sovranismi vinceranno la loro partita. È possibile che gli europeisti dovranno battere in ritirata. Ma è possibile invece che, alla fine di questa lunga fase di gestazione, i vari volti offerti in questi giorni dall’Europa possano permettere di osservare il mondo con occhi diversi e possano aiutare a inquadrare con esattezza le tre formidabili categorie politiche emerse negli ultimi giorni all’interno del dibattito pubblico europeo.

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È possibile che alla fine andrà tutto in vacca. È possibile che l’Europa non ci darà nulla di quanto promesso. È possibile che i sovranismi vinceranno la loro partita. È possibile che gli europeisti dovranno battere in ritirata. Ma è possibile invece che, alla fine di questa lunga fase di gestazione, i vari volti offerti in questi giorni dall’Europa possano permettere di osservare il mondo con occhi diversi e possano aiutare a inquadrare con esattezza le tre formidabili categorie politiche emerse negli ultimi giorni all’interno del dibattito pubblico europeo.

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La prima categoria è quella splendida comparsa ieri pomeriggio al castello barocco di Meseberg, a nord di Berlino, e ha a che fare con il volto che oggi meglio di tutti rappresenta l’europeismo pragmatico, tenace e visionario. Il volto in questione ovviamente è quello di Angela Merkel, ieri a colloquio per un’ora con il presidente Giuseppe Conte, nell’ambito di una serie di incontri organizzati dai capi di stato e di governo in vista del Consiglio europeo del 17 e 18 luglio a Bruxelles, e in questa fase la cancelliera tedesca, forse persino più di Emmanuel Macron, ha scelto di trasformare a tutti gli effetti la Germania nella locomotiva dell’Europa del futuro non dal punto di vista economico ma dal punto di vista istituzionale.

 

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E mai come oggi il paese guidato da Merkel si trova a indossare almeno tre abiti in un colpo solo: paese guida, paese mediatore, paese innovatore. Anche ieri, al termine del colloquio con Conte, Merkel ha dimostrato di essere intenzionata a lavorare fino in fondo a quello che un giorno verrà forse considerato come il suo grande lascito politico, la riunificazione politica tra l’Europa del nord e quella del sud, e lo ha detto in modo che più chiaro non si può: per superare le conseguenze della pandemia l’Europa deve agire “in maniera solidale”, per poter guardare al futuro occorre convincersi che “occorre superare assieme tanto il disastro umanitario quanto le conseguenze economiche”, per poter far ripartire l’economia ogni paese, in primis la Germania, ha interesse a che “il mercato unico funzioni, perché se le catene di valore non funzionano, ne paghiamo tutti le conseguenze”.

 

Se volessimo osservare le scene registrate in questi giorni in Europa utilizzando le musiche di Ennio Morricone e la regia di Sergio Leone, la parte del Buono sarebbe certamente assegnata ad Angela Merkel, mentre la parte del Brutto verrebbe probabilmente assegnata al leader europeo meno amato in questo momento dal nostro paese: il conservatore Mark Rutte. Ieri il premier olandese, a margine di un colloquio con il suo omologo spagnolo Pedro Sánchez, ha ribadito ciò che aveva già detto pochi giorni fa dopo aver incontrato il premier Conte e ha sostenuto che “non sarà facile” raggiungere un accordo per il fondo europeo di ricostruzione post pandemia del nuovo coronavirus.

 

Il Financial Times, in un duro editoriale dedicato al tema, ieri ha mollato qualche sonoro ceffone al premier olandese e lo ha rimproverato di avere un atteggiamento “profondamente antidemocratico” e “controproducente” per aver scelto di politicizzare il processo che porterà l’Europa ad avere il suo Recovery fund. “Rutte – ha scritto il Financial Times – presta grande attenzione all’idea di un’Europa più forte, ma non è disposto ad accettare il prezzo che ne deriva”. Il Financial Times ha le sue buone ragioni per criticare Rutte, quantomeno nei modi scelti per affrontare il negoziato, ma lo stesso quotidiano della City, dimostrando perché il premier olandese si trova più dalla parte dei brutti che dalla parte dei cattivi, è costretto ad ammettere che le “riforme” richieste dai frugali “sono necessarie” e qui entra in ballo il grande non detto che riguarda il futuro Recovery fund: le famose condizionalità.

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Le parole usate da Rutte per inquadrare i limiti della posizione italiana nel negoziato sul Recovery fund – sintesi estrema: non vorremmo creare debito europeo per finanziare riforme come quota 100 che con il post Covid onestamente non c’entrano nulla – possono essere considerate sgradevoli ma sono in realtà concetti ai quali si dovranno abituare i governi che lavorano per la costruzione del Recovery fund. Perché per quanto possano essere a fondo perduto buona parte dei soldi che l’Italia potrebbe ricevere con questo strumento dall’Europa (se il budget previsto per il nostro paese dovesse essere di 172 miliardi, 82 di questi sarebbero a fondo perduto) i paesi che richiederanno quei fondi dovranno usarli non per spenderli come meglio credono ma legandoli al raggiungimento degli obiettivi contenuti nelle raccomandazioni della Commissione (e non a caso ieri Conte ha ribadito che sul Recovery fund l’errore non sarebbe inserire condizionalità, che ci saranno, ma inserirne di “proibitive”).

 

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Rutte, in modo spigoloso, non fa altro dunque che ricordare una piccola verità – la condivisione del debito ha un senso se c’è anche una condivisione degli obiettivi relativamente a ciò che il debito deve finanziare – ed è una posizione diametralmente opposta a quella incarnata dal terzo protagonista della storia, che corrisponde al profilo del Cattivo, magnificamente interpretato da un altro olandese di nome Geert Wilders.

  

La storia di Geert Wilders, leader nazionalista a capo del Partito per la libertà e alleato di Matteo Salvini, è una storia formidabile perché con una sola immagine Wilders è riuscito ad alzare il velo su una delle delle grandi balle politiche degli ultimi anni: l’esistenza in Europa di un’internazionale sovranista disposta a unire le forze per creare un’Europa diversa. Wilders, con il suo cartello esposto pochi giorni fa davanti al Palazzo Binnenhof, dove il premier Mark Rutte aveva appena incontrato il presidente del Consiglio, ha chiesto al suo paese di non dare un euro all’Italia, “Non un centesimo all’Italia”, e nel farlo ha ricordato a tutti la ragione vera per cui il sovranismo soffre di fronte a un’Unione europea che, anche grazie al Recovery fund, potrebbe fare uno scatto decisivo in avanti. E il problema è evidente: il guaio dei nazionalisti non è l’Europa che non fa nulla ma è l’Europa che ha trovato una sua identità forte incompatibile con chi ha fatto della distruzione del progetto europeo il proprio tratto principale identitario. Il lascito politico di Merkel, in fondo, è tutto qui. Viva Angela, viva il Recovery, viva le raccomandazioni, viva l’Europa!

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