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Silenzio su Hong Kong

Giulia Pompili

Che imbarazzo, i partiti della Via della Seta. I Cinque stelle fuggono da una questione cruciale per la democrazia. La Lega adesso prova a cavalcarla con una manifestazione all'ambasciata. Troppo poco, troppo tardi

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Roma. Da mercoledì l’autonomia di Hong Kong è ufficialmente finita, annientata dalla nuova legge sulla Sicurezza nazionale imposta da Pechino all’ex colonia inglese. E mentre il resto del mondo reagisce alla decisione cinese, l’imbarazzo di gran parte della politica italiana sulla questione è evidente. Un esempio: mercoledì mattina il profilo Twitter dell’ambasciata italiana in Cina ha pubblicato un comunicato per condannare “ogni forma di violenza e maltrattamento nei confronti degli animali da compagnia”. Quando qualcuno ha fatto notare che il Festival di Yulin – il marginale e contestato, anche internamente, festival della carne di cane – era niente in confronto alla macelleria dello stato di diritto che si sta consumando a Hong Kong, l’ambasciata italiana ha cancellato il tweet. La Cina è uno degli argomenti più delicati per la coalizione al governo. Il Pd si è espresso più volte contro Pechino: a fine maggio ha presentato un’interrogazione al ministro degli Esteri Luigi Di Maio e mercoledì i deputati Pd in commissione Esteri hanno sollecitato il governo a riferire sul “rispetto degli accordi internazionali e la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini di Hong Kong”. Analoghe iniziative sono arrivate anche da Italia Viva e Fratelli d’Italia. Ma a frenare una presa di posizione dell’Italia sulla fine dell’autonomia di Hong Kong è soprattutto il M5s, il partito più vicino a Pechino che attualmente ha in mano la Farnesina. Dopo aver magnificato gli aiuti cinesi all’Italia (che aiuti non erano) durante la pandemia, Di Maio, finora, si è guardato bene dal commentare situazioni più complicate: “Non vogliamo interferire nelle questioni altrui” è la posizione. Rinnovata mercoledì dal suo fedelissimo sottosegretario, Manlio Di Stefano, che ad “Agorà” ha detto in un discorso particolarmente confuso: “C’è un principio di autodeterminazione che va tutelato”. Vuol dire: la Cina può fare quel che vuole di Hong Kong. Ma nel marzo del 2019, quando l’Italia ha fatto il suo ingresso nella Via della Seta cinese, i partiti erano due, e uno dei più attivi nella promozione del “modello Cina” è stato un sottosegretario leghista, Michele Geraci. 

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Roma. Da mercoledì l’autonomia di Hong Kong è ufficialmente finita, annientata dalla nuova legge sulla Sicurezza nazionale imposta da Pechino all’ex colonia inglese. E mentre il resto del mondo reagisce alla decisione cinese, l’imbarazzo di gran parte della politica italiana sulla questione è evidente. Un esempio: mercoledì mattina il profilo Twitter dell’ambasciata italiana in Cina ha pubblicato un comunicato per condannare “ogni forma di violenza e maltrattamento nei confronti degli animali da compagnia”. Quando qualcuno ha fatto notare che il Festival di Yulin – il marginale e contestato, anche internamente, festival della carne di cane – era niente in confronto alla macelleria dello stato di diritto che si sta consumando a Hong Kong, l’ambasciata italiana ha cancellato il tweet. La Cina è uno degli argomenti più delicati per la coalizione al governo. Il Pd si è espresso più volte contro Pechino: a fine maggio ha presentato un’interrogazione al ministro degli Esteri Luigi Di Maio e mercoledì i deputati Pd in commissione Esteri hanno sollecitato il governo a riferire sul “rispetto degli accordi internazionali e la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini di Hong Kong”. Analoghe iniziative sono arrivate anche da Italia Viva e Fratelli d’Italia. Ma a frenare una presa di posizione dell’Italia sulla fine dell’autonomia di Hong Kong è soprattutto il M5s, il partito più vicino a Pechino che attualmente ha in mano la Farnesina. Dopo aver magnificato gli aiuti cinesi all’Italia (che aiuti non erano) durante la pandemia, Di Maio, finora, si è guardato bene dal commentare situazioni più complicate: “Non vogliamo interferire nelle questioni altrui” è la posizione. Rinnovata mercoledì dal suo fedelissimo sottosegretario, Manlio Di Stefano, che ad “Agorà” ha detto in un discorso particolarmente confuso: “C’è un principio di autodeterminazione che va tutelato”. Vuol dire: la Cina può fare quel che vuole di Hong Kong. Ma nel marzo del 2019, quando l’Italia ha fatto il suo ingresso nella Via della Seta cinese, i partiti erano due, e uno dei più attivi nella promozione del “modello Cina” è stato un sottosegretario leghista, Michele Geraci. 

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La Lega di Matteo Salvini, da quando non è più al governo, ha riscoperto un atlantismo trumpiano: celebra Taiwan, vorrebbe una “Norimberga” contro la Cina per la pandemia, eppure il leader del Carroccio è stato particolarmente defilato sulla questione Hong Kong. E’ un segnale di imbarazzo, forse l’incapacità di argomentare questioni che riguardano democrazia e diritti umani, ma è anche il sintomo di una posizione anti cinese poco consapevole, recitata, quasi lo scimmiottamento pedissequo delle posizioni e dei toni di Trump.

 

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E deve essere successo qualcosa, all'interno della Lega, perché i ritardi del Capitano su una questione cruciale come quella di Hong Kong hanno costretto il leader, soltanto il 2 luglio e con quasi due anni di ritardo, a rincorrere l'hashtag #StandwithHongKong su Twitter. Prima ha pubblicato un tweet sulle “Leggi liberticide, centinaia di arresti, violenze, persecuzione delle idee, morte”, e poi, nel pomeriggio, subito dopo un selfie con il sindacato della polizia penitenziaria a Montecitorio, accompagnato da una ventina di persone si è presentato davanti all'Ambasciata cinese di via Bruxelles a Roma con uno striscione: libertà per Hong Kong. E improvvisamente il messaggio fissato in alto nelle pagine social di Salvini è diventato un messaggio in inglese (America, ci senti?), con una foto buia e seria in cui domanda una “risposta chiara e risoluta” al governo. Troppo poco, troppo tardi.

  

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“Negli ultimi decenni, da Deng Xiaoping in poi, in tutti i paesi d’occidente si è cercato di equilibrare, in percentuali variabili, tra interessi economici e diritti umani, con una tendenziale prevalenza dei primi”, dice al Foglio Gianni Sofri, storico e saggista. “Ultimamente è cresciuta una certa preoccupazione per la spregiudicatezza cinese, e i paesi sono diventati più cauti. D’altra parte, sul tema dei diritti umani l’Italia ha una tradizione, come diceva Andreotti, di ‘grande prudenza’. Con Lega e Cinque stelle è ovvio che si percepisca un arretramento ulteriore”. Secondo Sofri, ci sono due fattori che spiegano il silenzio italiano su Hong Kong: “Il primo è l’interesse preciso dell’Italia a legarsi a paesi come la Cina e la Russia. Il neoatlantismo leghista è recente, ma resiste una certa simpatia per Pechino. Quell’incertezza che nel caso dei Cinque stelle non esiste. Per Di Maio l’America è un alleato, ma la Cina è un amico, soprattutto in proiezione futura: sperano che legarsi al carro cinese sia la cosa che entrerà nei libri di storia grazie a loro”. Per Sofri il secondo fattore “è quello più banale: l’ignoranza, il dilettantismo, il piccolo opportunismo”. Per Luigi Manconi, ex senatore del Pd e fondatore di “A Buon Diritto”, dietro al silenzio di Lega e Cinque stelle “c’è una profonda ragione di natura culturale e ideologica. Questi due partiti hanno una componente autoritario-organicistica che li porta a nutrire una sorta di ammirazione reverenziale nei confronti degli stati forti e degli uomini forti. L’idea di un sistema capace di imporre un ordine interno e di sviluppare la propria potenza nel campo delle relazioni sovranazionali, unita a quella di comunità come aggregato coeso, un organismo funzionale che non consente autonomie e autodeterminazioni ma che privilegia l’aspetto corporativo della società. E poi in entrambi i partiti c’è il sospetto verso il dissenso: in quella concezione organicistica la parola dissenso disturba”. L’altro ragionamento è di natura politica, dice Manconi: “Questi due partiti hanno fatto della realpolitik una ideologia assoluta. Il loro atteggiamento è di totale sudditanza psicologica nei confronti delle potenze, le considerano come entità senza storia”. E c’è anche un certo imbarazzo a parlare di questioni legate ai diritti umani: “Uno sguardo serio sulla Cina deve parlare delle minoranze interne che vivono in una situazione di totale asservimento. Ignorare che la Cina è questo è un segno di indifferenza nei confronti di ciò che quello status quo nasconde al suo interno. Hong Kong è il problema che esplode, e quindi tacere oltre che imbelle è anche infame. E’ un’idea di realpolitik che è piuttosto l’immobilità del rigor mortis”, conclude Manconi.

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[Articolo aggiornato il 2 luglio, dopo la manifestazione della Lega di fronte all'Ambasciata cinese a Roma]

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