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La condanna ai leader catalani è un altro colpo per la politica spagnola

Eugenio Cau

Dura o moderata che sia, la sentenza rende più difficile la riconciliazione tra Madrid e Barcellona. In un paese frammentato politicamente e in campagna elettorale per la quarta volta in quattro anni

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Milano. Oggi centinaia di manifestanti indipendentisti hanno bloccato alcune arterie della viabilità in Catalogna, tra cui i binari dei treni ad alta velocità e l’aeroporto di Barcellona El Prat, per protestare contro la condanna dei leader indipendentisti catalani da parte della Corte suprema spagnola. L’aeroporto di Barcellona è stato occupato in stile Hong Kong, anche se i manifestanti erano molti meno, e i Mossos d’Esquadra, la polizia locale catalana, hanno fatto una piccola carica per cercare di riaprire il terminal. Nel capoluogo catalano i manifestanti sono scesi in piazza a migliaia per protestare contro la sentenza. La Corte suprema ha condannato i nove leader indipendentisti – che avevano avuto ruoli di rilievo nell’organizzazione del referendum secessionista dell’ottobre 2017 e che si trovavano in custodia cautelare da quasi due anni – a pene detentive tra i 13 e i 9 anni. Tutti sono stati condannati per il reato di sedizione, e quattro degli imputati sono stati condannati anche per malversazione. Oriol Junqueras, ex vicegovernatore della Catalogna, ha ricevuto la pena più dura, 13 anni.

 

La sentenza è stata vista fuori dalla Spagna come draconiana. I media internazionali si sono concentrati sulla lunghezza delle pene detentive, considerate abnormi per reati dal forte impatto simbolico ma che tuttavia non hanno generato violenza. All’interno del paese, invece, la sentenza è stata giudicata come un compromesso moderato. Il País, giornale di centrosinistra, ha scritto che è stata “la sconfitta dei falchi e il trionfo delle colombe”; il Mundo, di centrodestra, ha titolato su “una sentenza che non piace a nessuno”, spiegando come più durezza sarebbe stata gradita. Il fatto è che la Corte suprema ha rigettato per tutti i nove imputati l’accusa di ribellione, che era stata avanzata dalla procura e che era molto più grave della sedizione. La Corte ha anche rigettato la richiesta dei procuratori di porre dei limiti alla possibilità per i condannati di chiedere misure alternative alla detenzione. Dopo aver scontato un quarto della pena, i leader indipendentisti potranno chiedere la libertà condizionata, e questo significa che chi è stato condannato a nove anni potrebbe uscire di prigione già verso Natale, contando i due anni già scontati come misura cautelare.

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Dura o moderata che sia, la sentenza rende più difficile la riconciliazione tra Madrid e Barcellona. Non soltanto perché ciascuno cercherà di manipolare la volontà del tribunale a proprio vantaggio, ma anche perché il giudizio è arrivato in un momento delicato per la democrazia spagnola. Il paese è frammentato politicamente ed è in campagna elettorale per la quarta volta in quattro anni. L’economia non è più la locomotiva inarrestabile di una volta e la questione catalana è il più importante dei temi identitari che sono entrati nell’agenda politica: pochi giorni fa sempre la Corte suprema ha consentito l’esumazione delle spoglie di Francisco Franco dal gigantesco mausoleo che si era fatto costruire fuori Madrid, tra gli applausi delle forze di sinistra e gli ululati di quelle di destra.

 

Pedro Sánchez, leader socialista e presidente del governo facente funzioni, dopo la sentenza sui leader catalani ha cercato di mostrarsi istituzionale e costituzionalista, e ha detto che i condannati dovranno scontare la pena “per intero” – dice così perché i suoi avversari a destra lo accusano di voler concedere l’indulto ai secessionisti. Sánchez sa che il riaccendersi della crisi catalana favorisce i nazionalisti, e da uomo del dialogo cerca di trasformarsi nell’uomo della Costituzione. Ma i sondaggi lo danno in calo, mentre crescono le destre, specie quella neofranchista di Vox.

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