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Non è solo l’homo sovieticus

Massimo Boffa

Obiezioni a Masha Gessen e alla sua lettura radicale della nuova Russia. I conti col passato

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Giuliano Ferrara mi ha invitato a leggere il libro di Masha Gessen (“Il futuro è storia”, Sellerio) e di riferire le mie impressioni per i lettori del Foglio. Lo faccio volentieri, anche se il libro precedente dell’autrice, un ritratto di Vladimir Putin (“L’uomo senza volto”, Bompiani 2012), mi aveva poco convinto, animato com’era da un partito preso e da un impeto di denuncia che spesso si traducevano in giudizi sommari, a volte accuratamente documentati a volte no. La tesi era tutta concentrata sulla presentazione della figura di Putin come un mediocre colonnello del Kgb, senza qualità oltre che senza volto, che fin dai primi anni di governo avrebbe perseguito l’obiettivo di spegnere la nascente democrazia russa e di restaurare, nelle mutate circostanze, un sistema di dominio simile a quello dell’Unione sovietica, con tanto di simboli e inno nazionale.

 

Questa volta Masha Gessen ha scelto un diverso impianto narrativo, molto più efficace, che non può lasciare il lettore indifferente. Racconta le storie di quattro giovani, nati negli anni Ottanta e cresciuti in un ambiente post sovietico: Žanna, la figlia del leader dell’opposizione Boris Nemtsov, Maša, giornalista vicina al collettivo delle Pussy Riot, Serëža, figlio di Aleksandr Jakovlev, braccio destro di Michail Gorbaciov, e Lëša, sociologo, gay, cofondatore dell’Istituto demoscopico Levada, appassionato di ricerche sulle minoranze sessuali. Nessuno di loro aveva la vocazione del dissidente, diventeranno “dissidenti riluttanti” a mano a mano che le vicende del paese, un sistema politico bloccato, gli arbitri della polizia e dell’apparato giudiziario, un’atmosfera di bigotta avversione nei confronti dei sessualmente diversi li spingeranno a sentirsi stranieri in patria. Gessen è però anche convinta che queste quattro microstorie non parlino da sé, non siano sufficienti a dare conto dell’immenso sentimento di spaesamento provocato dal crollo dell’Urss e introduce, per offrire un più ampio quadro concettuale, altri tre personaggi: la psicoanalista Marina Arutjunjan, che giungerà alla conclusione che “forse” la Russia è affetta da “pulsione di morte”, il sociologo Lev Gudkov, sempre più convinto della permanenza, anche nella società odierna, di un immarcescibile Homo Sovieticus, intimamente “totalitario”, e l’ideologo Aleksandr Dugin, che sogna la riscossa di una Russia euroasiatica nemica dei valori decadenti dell’occidente.

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E’ impossibile non rimanere toccati dalle storie umane e dalle piccole e grandi tragedie che il libro racconta. Le pagine di Masha Gessen sono percorse da passione e compassione militante. Ma è proprio questa passione che induce l’autrice a scegliere dati, episodi che avvalorano la sua narrazione, ignorando o lasciando sullo sfondo tutto ciò che potrebbe offrire al lettore un’immagine più problematica, più chiaroscura. Ne risulta una narrazione a senso unico, che non si differenzia, nella sostanza, dall’opinione comune più diffusa: e cioè che, dopo le fragili speranze degli anni Novanta, la presidenza Putin – con la guerra in Cecenia, il controllo governativo sulle principali reti televisive, la galera per il ribelle Chodorkovskij, il giro di vite dopo le grandi manifestazioni del 2011-2012, la legge contro la “propaganda gay”, l’annessione della Crimea – avrebbe instaurato un regime tirannico verso l’interno e aggressivo verso l’esterno.

 

Masha Gessen, tuttavia, non commette l’errore, tipico di tanti suoi colleghi, di sottovalutare l’ampio consenso di cui ha goduto e gode Putin in patria, periodicamente confermato proprio dai sondaggi dell’Istituto Levada. Le teorie di Gudkov sulla permanenza dell’Homo Sovieticus e delle sue pulsioni totalitarie le forniscono una spiegazione di questo fenomeno. Ma esistono altre spiegazioni, a mio avviso più convincenti, che hanno a che fare con l’esperienza traumatica vissuta dalla società russa nel caos degli anni Novanta e con la svolta che Putin ha impresso. La popolarità di cui ha goduto e gode il presidente è infatti legata all’energia con cui ha reagito alla deriva anarchica degli anni eltsiniani, consolidando i poteri centrali del nuovo Stato succeduto al crollo dell’Urss. Aveva ereditato un paese stremato, lacerato da spinte centrifughe, umiliato dallo strapotere degli oligarchi, un paese diventato irrilevante sulla scena internazionale, e ha invertito, anche con metodi spregiudicati, questa tendenza.

 

La mia idea sulla nuova Russia (per quel che vale) me la sono fatta soprattutto negli anni 2009-2012, quando seguivo per i lettori del Foglio quel che vi accadeva. Una delle prime immagini che mi colpì fu la permanenza di molti simboli e monumenti del passato sovietico, accanto alle tante chiese tornate al loro splendore e alle vestigia rimesse a nuovo dell’epoca zarista. So bene che alcuni (anche Masha Gessen) avrebbero preferito una più radicale dannazione dell’esperienza comunista, magari con tanto di epurazioni e statue abbattute. A me quella permanenza parve invece, e pare tuttora, uno dei tratti più positivi dello spirito pubblico della nuova Russia, perché per un grande paese un rapporto pacificato con la propria storia, con tutte le sue pagine (quelle più atroci e quelle più luminose) è un potente fattore di concordia civile.

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Poi vidi come vivevano i russi in quel periodo e il confronto, sia con l’epoca sovietica sia con gli anni Novanta, mi apparve schiacciante. Era nata una classe media vivace e intraprendente, istruita, informata, benestante, perfino gaudente. E la considerazione che mi venne da fare, in controtendenza con le immagini stereotipate che circolavano, era che mai, nella loro storia plurisecolare, i russi avessero goduto di tanto benessere e libertà come in quegli anni. Naturalmente era un giudizio storico, cioè relativo, ma pensavo, e penso tuttora, che sia sbagliato paragonare Mosca a Londra o a Parigi, ma che abbia senso piuttosto paragonare la Mosca di oggi con quella di ieri e dell’altroieri. In fin dei conti, anche da noi c’è voluto tempo perché si affermassero certe sensibilità che oggi ci paiono assodate. E anche la Russia ha bisogno di tempo, non di condanne sommarie.

 

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Naturalmente mi capitò di assistere alle grandi manifestazioni di protesta del 2011-2012, che tanta parte hanno nel racconto di Masha Gessen. E provavo simpatia per quei giovani in piazza, alcuni dei quali erano anche miei amici. Ma avevo amici anche tra chi guardava a quelle manifestazioni con inquietudine: educati al senso del tragico, gran parte dei russi sentivano che l’unico sbocco di un movimento che restava pur sempre minoritario nel paese non poteva che essere una “rivoluzione”, cioè caos e sangue. E non mi sono stupito che alle elezioni presidenziali di marzo (elezioni monitorate da osservatori di tutto il mondo) Putin abbia stravinto con i due terzi dei voti, una dinamica che mi fece tornare alla mente, tra l’altro, la vittoria di De Gaulle dopo il Maggio francese.

 

Quando mi capita di confrontare la Russia di oggi con quella di ieri e dell’altroieri, non posso fare a meno, inoltre, di pensare a un tema che purtroppo non ha molto spazio nei nostri giornali: la questione ebraica. Parliamo di una nazione in cui tradizionalmente l’antisemitismo aveva trovato un assai fertile terreno e in cui, anche durante l’epoca sovietica, ogni identificazione culturale e religiosa con l’ebraismo era stata mortificata. Ebbene, il rabbino capo Berel Lazar dichiara che “la Russia di oggi è uno dei luoghi migliori al mondo per lo sviluppo di una vita comunitaria ebraica” e che “tutto ciò, in larga misura, è merito dell’attuale dirigenza russa”. E il presidente del World Jewish Congress, Ronald Lauder, nel 2016 ha potuto introdurre la sua relazione con queste parole: “Mentre vediamo l’impatto dell’intolleranza e dell’odio in ogni continente, qui in Russia la comunità ebraica prospera” (il Foglio, 15 maggio 2018). Certo, episodi di teppismo antisemita esistono in Russia come ovunque, ma vengono repressi dalle autorità. E’ una circostanza davvero notevole: fa dire al rabbino Lazar che per la prima volta nella storia russa lo stato, tradizionalmente ostile, ha un rapporto protettivo verso la comunità ebraica, come verso le altre tre religioni ufficialmente riconosciute (cristianesimo ortodosso, islam e buddismo). A me sembra una novità enorme, e faccio fatica a trattenermi dall’usare il brutto aggettivo “epocale”.

 

Ecco, a me pare che il non vedere e non valorizzare la complessità della nuova Russia sia il limite delle posizioni più radicali, come quelle della Gessen, un limite che le consegna a un ruolo di denuncia, nobile fin che si vuole, ma minoritario. Certo, anche io sono allarmato ogni volta che un giornalista investigativo che indaga sulla corruzione, come è appena successo, viene arrestato con accuse pretestuose; oppure quando, stupidamente, il distributore russo del film su Elton John fa tagliare la scena del bacio omosessuale; così come penso che oggi la Russia meriterebbe una maggiore articolazione pluralista del suo sistema politico. E ho fiducia (come l’esito del caso di Ivan Golunov lascia sperare) che migliori condizioni, soprattutto internazionali, consentano l’evoluzione del paese verso più ampi spazi di libertà civili e individuali.

 

A questo punto l’articolo sta diventando lungo e non mi inoltrerò a parlare diffusamente di ciò che, dal punto di vista dei russi, resta pur sempre il problema principale, vale a dire l’idea corrente che la sicurezza e l’integrità della Russia siano messe in pericolo dalle iniziative di avversari geopolitici potenti. Masha Gessen liquida questa preoccupazione come una “visione del mondo paranoica”. Credo invece che con questa percezione si debbano fare i conti e considerarla più seriamente di quanto non si faccia. Tanto più che il sentimento di accerchiamento dei russi viene alimentato da esperienze e dati di fatto – come l’espansione a Est della Nato, le rivoluzioni colorate, il rovesciamento nel 2014 del governo di Kiev – che nutrono una narrazione uguale e contraria a quella dell’occidente. Solo se si invertiranno queste dinamiche catastrofiche e si imbriglieranno, in un campo come nell’altro, le tendenze che spingono – anche con le narrazioni a senso unico – verso una nuova forma di Guerra fredda, e si guarderà alla Russia non come a un avversario ma come a un partner degno di rispetto, si potrà contribuire a disinnescare una situazione internazionale sempre più pericolosa e anche a favorire una diversa e più positiva evoluzione all’interno dello spazio ex sovietico.

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