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Una costi e benefici con la Cina

Sandro Trento

L’Europa non ci ha aiutato con Pechino, ma muoversi da soli ci metterà nei guai. Ecco perché

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Il grande progetto cinese di una nuova moderna via della seta, la cosiddetta “Belt and Road initiative” (BRI) ha dimensioni colossali, coinvolge oltre 65 paesi, vale a dire tre quarti della popolazione mondiale pari ad oltre il 40 per cento del pil mondiale.

 

Sorprende che l’Italia, che è uno dei paesi terminali di questa vasta e ambiziosa rete di trasporto, ragioni sulla proposta in termini molto astratti, senza avere una propria posizione ponderata e, una volta tanto, fondata su una seria analisi costi-benefici.

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Con il taglio dei costi di trasporto, cresce la forza di attrazione della Cina come sede di localizzazione dell’industria manifatturiera

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Il pericolo è che muoversi da soli comporti oggi un eccessivo squilibrio negoziale tra Italia e Cina. Siamo troppo piccoli per dettare condizioni

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Al momento gran parte del commercio estero cinese viene effettuato per via marittima, gli scambi con l’Unione Europea, ad esempio, avvengono per il 92,3 per cento via mare. Questo significa che i tempi e i costi che gravano sulle merci da e per la Cina sono appesantiti da costi di trasporto rilevanti.

 

Costruire nuove strade, nuove ferrovie, nuovi aeroporti, nuovi porti e infrastrutture tra Cina e Unione Europea vuol dire abbattere i costi di trasporto in modo significativo e questo dovrebbe avere una serie di effetti economici. Soffermiamoci solo su alcuni punti.

 

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Italia e Unione Europea

E’ giusto pensare che l’Italia debba coordinarsi con l’Unione Europea ma va osservato che finora la politica di apertura alla Cina seguita dall’Unione Europea ha inflitto all’Italia un costo molto elevato. Bruxelles non ha prestato attenzione ai richiami italiani sul fatto che le imprese cinesi, spesso sussidiate dal governo e favorite da bassi costi di produzione, sottraessero quote di mercato soprattutto ai nostri settori produttivi. Data la nostra specializzazione settoriale siamo stati esposti alla concorrenza cinese molto più dei nostri partner europei. Abbiamo perso migliaia di posti di lavoro senza che l’Unione Europea muovesse un dito. Troppe volte ci è stato detto che era colpa nostra, che il nostro modello industriale era sbagliato, che toccava a noi riposizionarci. Ma allora qual è la funzione dell’Unione Europea? Non si può pensare che l’Europa non abbia una politica industriale e commerciale che tuteli il secondo paese manifatturiero europeo (Italia) e che sia guidata invece dalla Germania e dai paesi del nord che hanno una diversa specializzazione, più favorevole. E così l’Italia oggi si muove da sola forse perché troppe volte ha trovato interlocutori sordi a Bruxelles.

 

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Il pericolo però è che muoversi da soli comporti oggi un eccessivo squilibrio negoziale tra Italia e Cina. Siamo troppo piccoli per dettare le nostre condizioni. Va posta in Europa con forza l’esigenza di una politica industriale e commerciale che tuteli tutti.

 

Trade effect (effetto sul commercio estero)

I minori costi di trasporto derivanti dagli investimenti e dalle infrastrutture della Belt and Road initiative faciliteranno gli scambi tra Cina ed Europa e consentiranno di accrescere il volume dell’interscambio. Le imprese delle due regioni esporteranno di più e un numero maggiore di imprese parteciperà a questi scambi. L’Unione Europea nel 2017 ha registrato un deficit commerciale con la Cina pari a 177 miliardi di euro. Con l’eccezione della Germania, gran parte dei paesi europei ha un disavanzo negli scambi con la Cina. Pensiamo all’Italia. I dati Tec-Ocse ci dicono che le imprese italiane che esportano in Cina oggi sono 16.801. Mentre le imprese tedesche che esportano in Cina sono 21.981, non così tante di più, ma esportano volumi che hanno un valore molto più elevato rispetto a quanto esportano le imprese italiane.

 

In questo contesto va però tenuta presente anche la strategia cinese di acquisizioni mirate. Le imprese cinesi, sostenute da risorse statali praticamente illimitate, procedono da tempo a politiche di acquisizioni di intere filiere e comparti europei. Come si può pensare di mantenere il nostro vantaggio competitivo se i cinesi acquistano senza limiti la nostra tecnologia, le nostre infrastrutture, i nostri canali di accesso ai mercati? Anche il nostro riposizionamento settoriale è in pericolo se i cinesi acquisiscono aziende europee importanti nei settori più avanzati. L’agenda “Made In China 2025” è, ad esempio, un piano che mira a far diventare la Cina uno dei principali concorrenti nel settore elettrico; nelle ferrovie, nella cantieristica navale, nell’industria aeronautica, nelle energie rinnovabili, nella meccanica, nel biotech, nell’avionica e nella meccanica avanzata.

 

I minori costi di trasporto ovviamente consentiranno un maggiore interscambio, ma è ingenuo pensare che questo basti alle nostre imprese per diventare più competitive. I minori costi accresceranno anche la competitività delle merci cinesi sui nostri mercati e sui mercati terzi. Le politiche industriali adottate da Pechino spingono verso maggiore presenza anche in settori nuovi con conseguenze negative per le nostre imprese meccaniche, ferroviarie, aeronautiche. Va fatto un ragionamento sulla disparità tra le imprese di proprietà privata italiane ed europee e le imprese cinesi sussidiate o addirittura di proprietà statale.

 

Effetto gravitazionale

La riduzione dei costi di transazione potrà avere un effetto sull’area che ha maggiore “forza gravitazionale”. Tenuto conto che ci sono elevate economie di scala in moltissime produzioni e tenuto conto della dimensione del settore produttivo nelle diverse regioni, l’abbattimento dei costi di trasporto renderà (ancora) più conveniente (de)localizzare le attività produttive in una determinata area e servire (esportare) da lì le altre regioni visto che la nuova rete infrastrutturale riduce le distanze e i costi.

 

Siamo di fronte a una situazione in cui un paese gigantesco, con una popolazione tre volte più grande dell’Unione Europea, con un settore manifatturiero altrettanto enorme, con costi del lavoro più bassi si integra (grazie alla nuova Via della Seta) con l’Unione Europea, che rappresenta un grande mercato di sbocco, ma ha costi di produzione più alti e minori economie di agglomerazione. Il rischio è che tenuto conto della riduzione dei costi di trasporto sempre più imprese estere (e quindi anche europee) decidano di trasferirsi in Cina e di usare la Cina come base per rifornire tre quarti della popolazione mondiale. La forza di attrazione gravitazionale della Cina come sede di localizzazione dell’industria manifatturiera cresce di molto, con il taglio ai costi di transazione.

 

La nuova Via della Seta della Cina sembra del resto riproporre un modello di crescita cinese incentrato sull’export e non sulla domanda interna e questo dovrebbe farci preoccupare. Pechino non può comportarsi come un piccolo paese esportatore che si fa trascinare dal resto del mondo. Non può essere questo il modello cinese che fa del bene all’economia mondiale. La Cina che ambisce a diventare grande potenza leader deve diventare locomotiva globale e quindi ridurre il proprio avanzo commerciale.

 

Sandro Trento è economista all'Università di Trento

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