Stare in bilico sul baratro
Ci vuole altro per sconfiggere la grandezza americana, la prudenza e l’incoscienza, e quella immensa capacità, quel lusso di sbagliare. Il posto del very best e del very worst. Anche questa è libertà
Giuliano Ferrara ha chiuso ieri il suo articolo su Donald Trump, “nemico giurato, sfarzoso e improbabile dell’America e dell’Occidente”, con un lungo respiro, con una grande rassicurazione: ci vuole ben altro, ha scritto, per sfigurare quel puttanone che si chiama Statua della libertà. Ci vuole altro – è il pensiero necessario – per sconfiggere la grandezza americana, i suoi anticorpi, la sua prudenza e incoscienza insieme, la sua immensa capacità di sbagliare e anche il nostro amore, la fiducia, l’ammirazione per la migliore democrazia del mondo: specchio di quello che siamo, di quello che vorremmo essere, di quello che non saremo e di quello che non ci piace, contenitore e anche esaltatore del meglio e del peggio di ognuno di noi.
Lì dentro Donald Trump ha avuto la fortuna di crescere, lui e i suoi capelli e la sua forza, e poi è cresciuta anche la nostra incredulità di fronte a quella forza, infine lo sgomento di chi, come Philip Roth, definisce Trump “un genio della truffa” e di chi, come Richard Ford, credeva che per fargli perdere le elezioni bastasse dire che con uno come Trump lui non sarebbe mai andato a mangiare il merluzzo nel suo ristorante preferito di Parigi, e neanche a pesca su un lago dorato.
La libertà americana è così grande che arriva sull’orlo del baratro, arriva fino a negarsi (a sospendere per novanta giorni) la libertà fondamentale sopra cui è fondata la sua storia di immigrati, ma ci vuole altro per sfigurare la Statua della libertà, e quindi questo è un passaggio: è, come ha scritto Andrew Sullivan sul New York Magazine, in una lettera d’amore al suo paese (“America is still the future”) il paese del very best e del very worst, il posto delle grandi opportunità e dei terribili errori, dove il futuro viene continuamente modificato e dove ci si ritrova da un momento all’altro insieme a difendere una grandezza che non può svanire, un sogno che non finisce. Sullivan è diventato americano e nel giuramento ha detto “senza riserve mentali”. Un nuovo cittadino giura di difendere non un presidente ma la Costituzione. Questo è ciò che farà l’America, anche chi come Lena Dunham aveva con frivolezza minacciato di lasciare il paese (“Se vince Trump vado a Vancouver”), e poi con serietà ha cambiato idea. Governa Trump e, scrive Sullivan, “resto qui, come chiunque altro”. In un posto così eccezionale da potersi permettere di stare in bilico sul baratro, con Trump.