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Ci vorrebbe un Clint Eastwood per permettere all’Italia di combattere senza nascondere la mano

Il punto è semplice e purtroppo elementare: la guerra contro il terrorismo è una guerra che si vince mettendo in campo una violenza incomparabilmente superiore a quella messa in campo dall’avversario.
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Negli Stati Uniti se ne parla e ci si divide, si discute e ci si scazza, ci si confronta e ci si manda a quel paese e lo stivale pieno di fango – che questo giornale ha scelto qualche giorno fa per sintetizzare l’unica risposta possibile che l’occidente dovrebbe dare per combattere il fondamentalismo islamista per distruggerlo e non solo per contenerlo – è uno degli elementi centrali nel dibattito strategico, politico e culturale legato al giusto mezzo da adottare per annientare lo Stato Islamico.
 
Il punto è semplice e purtroppo elementare: la guerra contro il terrorismo è una guerra che si vince mettendo in campo una violenza incomparabilmente superiore a quella messa in campo dall’avversario e fino a che la strategia dell’occidente continuerà a essere quella dell’infruttuoso intervento spezzatino non dovremo stupirci se le 80 mila unità dello Stato Islamico continueranno a farsi largo senza troppi problemi in Siria, in Iraq e in Libia – proseguendo tra le altre cose l’opera di sterminio sistematico portato avanti contro i cristiani del medio oriente.
 
Sul Foglio di venerdì, la nostra Paola Peduzzi ha messo insieme alcuni pezzi da novanta americani che da tempo suggeriscono al testone duro di Barack Obama di promuovere un “surge” contro lo Stato Islamico e il succo della discussione lo possiamo sintetizzare con le parole offerte da Peter Mansoor, gran consigliere di David Petraeus proprio ai tempi del “surge” in Iraq: “I droni e gli attacchi aerei sono strumenti di guerra, ma non sono una strategia: la distruzione dello Stato Islamico richiede forze di terra capaci di combattere”. Nulla di tutto questo, purtroppo, accade invece nel nostro paese, dove la dialettica tra interventisti e non interventisti si gioca lungo un confine grottesco fatto di parole smozzicate e di dichiarazioni castrate, in cui la discussione tra “soldati sul campo” oppure “droni” viene sostituita da chiacchiere surreali tra chi ha il coraggio di usare la parola “guerra” e chi invece no e chi ha il coraggio di usare l’aggettivo “islamista” accanto al sostantivo terrorista e chi invece no. Livelli altissimi.
 
Nella settimana che si apre, con Hollande che incontrerà Cameron, Obama, Merkel e Putin per discutere di terrorismo, stupisce fino a un certo punto che in Europa l’Italia sia considerata sì un paese affidabile dal punto di vista militare ma non sufficientemente attrezzato strategicamente e politicamente per aiutare l’occidente a trovare una risposta alla domanda delle domande, perfettamente sintetizzata la scorsa settimana sul Telegraph dalla columnist Julia Hartley-Brewer: “That choice is stark: kill or be killed. So which one is it going to be?”.
 
Abbiamo già affrontato su queste colonne il tema della difficoltà renziana di usare la parola guerra e la parola islam, difficoltà invece sorprendentemente superate dal presidente Sergio Mattarella, che sabato scorso ha offerto al nostro giornale un contributo significativo per dichiarare una lotta senza quartiere al fondamentalismo islamista. Ma oltre alla titubanza evidente del presidente del Consiglio di infilare metaforicamente al nostro paese gli stivali pieni di fango esiste un problema più grande che si lega a una straordinaria ipocrisia italiana che forse solo un Clint Eastwood potrebbe aiutarci a risolvere. Ci vorrebbe un American Sniper, o meglio, un Italian Sniper, in Italia, ovvero un cecchino spietato e specializzato nell’interpretare in modo perfetto il senso moderno della guerra (per portare la pace a volte l’unico modo è portare la guerra). Ci vorrebbe un Italian Sniper, si diceva, non solo per rendere onore a un grande esercito come il nostro ma anche per affermare una volta per tutte un principio che invece viene strozzato da un politicamente corretto che ci porta a fare la guerra senza dirlo. Che ci porta a trascinare fuori dai nostri confini migliaia di militari culturalmente disarmati. Che ci porta a considerare legittimo l’uso della forza militare solo se la forza militare non fa uso della forza. Che ci porta a considerare giusta una guerra solo se la si combatte senza esagerare. Senza farsi del male, senza usare il grilletto, mandando giù al fronte magari qualche aereo ma stando sempre attenti a far premere il grilletto a qualcun altro, per carità (persino l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, destra pura e dura, in nome del politicamente corretto mandò in Afghanistan degli Amx, aerei monomotore da attacco e ricognizione, disarmati).
 
Ci vorrebbe un Italian Sniper oggi per rendere onore ai 4.700 militari impegnati in missioni all’estero ma anche per superare una zona grigia entro la quale sguazza il cialtronismo grillino: la consapevolezza che dire difesa, guerra, non significa necessariamente “morte”, “distruzione”, “orrore”, ma significa, più semplicemente, che senza difesa non esiste un paese – e che senza difenderci non esiste democrazia, non esiste convivenza civile, non esiste sicurezza e non esisterebbe neppure quella libertà che oggi ci permette di aprire blog con i quali insultare ogni giorno i propri avversari.
 
[**Video_box_2**]Per questo, servirebbe con urgenza un bravo regista capace di spingere i nostri parlamentari a sottrarre qualche minuto del loro tempo per discutere non solo di Italicum ma anche di stivali e di strategia militare. Per questo servirebbe con urgenza un Clint Eastwood, non necessariamente per farci amare la guerra, ma per convincerci che è necessario considerare l’opzione militare semplicemente come una carta possibile, in un mondo dove spesso ci troviamo in quella condizione sgradevole: kill or be killed.
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