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Niente catastrofismi

Quel sano realismo climatico che ci manca per evitare delusioni

Antonio Pascale

Abbiamo conquistato il benessere, che si fonda su quattro colonne: plastica, acciaio, cemento e ammoniaca. Il problema è che questo sistema dipende ancora dai combustibili fossili

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Qualche anno fa, nel 2017, il New York Magazine pubblicò un articolo del giornalista David Wallace-Wells che descriveva in dettaglio i potenziali impatti del cambiamento climatico, quelli che ci pioveranno in testa se non verrà intrapresa alcuna azione per ridurre le emissioni di gas serra. Gran parte dell’articolo esplorava con molti dettagli (solo) gli scenari del “caso peggiore”: impatti davvero nefasti, quindi addio talk televisivi, giornate al mare con la settimana enigmistica e la dolce brezza pomeridiana, addio all’agricoltura e al cibo che conosciamo. Aggiungiamo anche l’accelerato scioglimento dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari e il moltiplicarsi delle inondazioni lungo le coste, migrazioni repentine e globali, insomma capite bene che la lettura fu per me scoraggiante. Lo scenario era orrifico e i rimedi si sa sono facili a dirsi in un libro, ma nella realtà il tempo è poco, gli interessi in gioco giganteschi e globali e la vita non è poi così lunga. Non tanto per programmare nemmeno una cena la settimana prossima, figuratevi a un radicale cambio di vita. L’articolo poi, raccogliendo alcune critiche mosse a David Wallace-Wells, è stato ampliato e trasformato in un libro nel quale l’autore, precisando che lui è un americano come tanti e ama gli hamburger, da una parte rilancia e infatti il libro si intitola: La Terra inabitabile. Una storia del futuro (Mondadori). 
 

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Qualche anno fa, nel 2017, il New York Magazine pubblicò un articolo del giornalista David Wallace-Wells che descriveva in dettaglio i potenziali impatti del cambiamento climatico, quelli che ci pioveranno in testa se non verrà intrapresa alcuna azione per ridurre le emissioni di gas serra. Gran parte dell’articolo esplorava con molti dettagli (solo) gli scenari del “caso peggiore”: impatti davvero nefasti, quindi addio talk televisivi, giornate al mare con la settimana enigmistica e la dolce brezza pomeridiana, addio all’agricoltura e al cibo che conosciamo. Aggiungiamo anche l’accelerato scioglimento dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari e il moltiplicarsi delle inondazioni lungo le coste, migrazioni repentine e globali, insomma capite bene che la lettura fu per me scoraggiante. Lo scenario era orrifico e i rimedi si sa sono facili a dirsi in un libro, ma nella realtà il tempo è poco, gli interessi in gioco giganteschi e globali e la vita non è poi così lunga. Non tanto per programmare nemmeno una cena la settimana prossima, figuratevi a un radicale cambio di vita. L’articolo poi, raccogliendo alcune critiche mosse a David Wallace-Wells, è stato ampliato e trasformato in un libro nel quale l’autore, precisando che lui è un americano come tanti e ama gli hamburger, da una parte rilancia e infatti il libro si intitola: La Terra inabitabile. Una storia del futuro (Mondadori). 
 

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A me questo fatto che a lui piacciano gli hamburger e si considera un americano come tanti mi ha portato nel cuore nel dilemma climatico, diciamo così. Dilemma che non riusciamo a sciogliere e questo crea narrazioni esagerate e promesse non realistiche. Proviamo a fare un ripasso delle cose che sappiamo? La quantità di CO2 presente nell’atmosfera è quasi raddoppiata. Ovviamente, la CO2 non è un inquinante “classico”, nocivo per la salute umana come la diossina o l’amianto. Tra l’altro è benzina per le piante, che grazie all’anidride carbonica e ai fotoni, insomma, per la nota reazione fotosintetica producono amido e due sostanze di scarto, ossigeno e acqua. Quindi la CO2 non è un inquinate classico, e serve pure per produrre ossigeno. La CO2 diventa tossica alla concentrazione di circa il 5 per cento, attualmente siamo intorno allo 0,040 per cento (400 ppm, parti per milione equivalenti a 400 grammi di CO2 per tonnellata di aria) e prima dell’industrializzazione – nel 1750 – era meno dello 0,03 per cento. Vero che il sistema climatico è molto complesso – se guardate i grafici che mostrano le previsioni da qui a 7 giorni vi troverete nel mare magno della complessità: cioè i grafici divergono e vattelapesca – tuttavia, quello che siamo in grado di dire è che le attività economiche hanno effetto sulle emissioni di CO2, che tali emissioni hanno effetto sulla concentrazione di CO2 nell’atmosfera e che questa concentrazione ha effetto sul clima. Bene, anche se ognuno di questi passaggi non avviene in modo diretto e lineare, siamo già in presenza di una condizione necessaria e sufficiente per dire: limitiamo le emissioni! E infatti lo diciamo. Però evitiamo di affrontare il dilemma tragico. 
 

A partire dalla rivoluzione industriale, fatti i conti abbiamo prodotto un mondo migliore sotto molti punti di vista. Alcuni parametri sono lì a testimonianza. Sì certo,  ci sono gli hamburger, ma si mangia meglio, si muore di meno, il Pil è aumentato di non so quante volte, la mortalità infantile è bassissima, abbiamo diritti che nemmeno nei più fantasiosi voli pindarici avevamo immaginato. Abbiamo sconfitto la fame, le malattie, le carestie e la morte prematura. I bambini non muoiono più, arrivano all’età adulta, e difatti la popolazione è raddoppiata nel giro di 50 anni, siamo 8 miliardi, arriveremo a 10. Quella del XX secolo, nonostante gli hamburger è una storia di successo che ha prodotto, appunto, un dilemma tragico. Eravamo pochi e malnutriti. Morivamo di più e impattavamo di meno, ora siamo tanti e quasi tutti ben nutriti, viviamo a lungo e impattiamo di più.  Questi 8 miliardi di persone hanno gli stessi miei vizi: vogliono lavorare, guadagnare, viaggiare, consumare, godersi la vita, postare foto sui social per dire a tutti: guardatemi, sono bellissimo. Di un mondo che arretra e sprofonda nelle guerre non se ne parla, e meno male, anzi vogliamo mantenere o aumentare il benessere e quelli che ancora non ce l’hanno e lo vogliono avere al più presto, e giustamente. 
 

Questo benessere costa. Costa perché è fondato su quattro colonne che (scusate la ripetizione) costano emissioni di CO2. Lo dice Vaclav Smil nel suo libro How the World Really Works: The Science Behind How We Got Here and Where We’re Going. Le quattro colonne sono: plastica, acciaio, cemento e ammoniaca (senza azoto non concimi, senza concimi le produzioni non salgono, la gente non mangia, meno energia, meno cemento, meno acciaio, meno plastica). Il fatto è che la gran parte di queste colonne si reggono ancora sui combustibili fossili. Quindi, ci ricorda Smil: “Dovremmo ridurre le nostre emissioni di anidride carbonica del 45 per cento entro il 2030? Ebbene, mancano solo otto anni e le emissioni sono ancora in aumento”. 
 

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Dal dilemma al rischio, spaventati corriamo verso la salvezza, ma nel percorso le persone non hanno modo di apprezzare e ragionare sull’entità del compito e infatti corriamo in pompa magna verso scadenze artificiali non realistiche. Realistico significa riflettere seriamente sulla portata e sulla complessità del problema: è il cuore del dilemma. Come mantenere in vita il mondo e aumentare il benessere analizzando costi e benefici e limiti temporali utili a cambiare il modo di produrre plastica (è chiaro che non stiamo parlando di bicchieri buttati dagli incivili di turno nei fiumi o nei boschi), acciaio, cemento e ammoniaca per 8-10 miliardi di persone? Bisogna ragionare in maniera realistica, insiste Smil sul New York Times: “L’obiettivo ufficiale negli Stati Uniti è la completa decarbonizzazione della produzione di elettricità entro il 2035. Questo è il programma di Biden: elettricità a zero emissioni di carbonio nel 2035. Il paese non ha una rete nazionale! Come decarbonizzare e gestire il paese con l’energia eolica e solare senza una rete nazionale? E quanto ci vorrà per costruire una rete nazionale in una società nimby come gli Stati Uniti?” E ancora: “Il paese aggiunge, ogni anno, gigawatt di nuova energia a carbone. Questo mondo non ha ancora finito con i combustibili fossili. La Germania, dopo quasi mezzo trilione di dollari, in 20 anni è passata dall’ottenere l’84 per cento della propria energia primaria dai combustibili fossili come farà a passare a zero entro il 2030, 2035? Mi dispiace, la realtà è quella che è”. La verità è così facendo ci abituiamo a promesse che realisticamente non verranno mantenute, poi frustrati e delusi come saremo potremmo decidere di non far niente: io ci ho provato ma è impossibile, quel che fatto è fatto, godiamoci la vita che ci resta, tanto si deve morire. Dopo una serie di fallimenti, ci vuole un attimo a ragionare così, poi la vita diventerà assurda e la terra davvero inabitabile.

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