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L'embargo al petrolio russo è un'occasione per l'industria americana. Che però ha altri problemi

Alberto Chiumento

Capacità produttiva, volatilità dei prezzi e colli di bottiglia nel commercio mondiale limitano la risposta delle società petrolifere degli Stati Uniti. Le richieste di Biden e le prospettive del mercato 

Il possibile embargo sul petrolio russo, proposto mercoledì dalla Commissione europea, obbliga i leader europei a trovare fornitori alternativi a Mosca. In questa crociata, il principale alleato di Bruxelles sono gli Stati Uniti, ovvero il paese che produce la maggiore quantità di petrolio e di prodotti derivati. Nel 2020, la produzione americana è stata di circa 18 milioni di barili di petrolio al giorno, pari al 20 per cento della quota mondiale, mentre Arabia Saudita e Russia si sono fermate al 12 e all’11 per cento. L’attivismo americano nel mercato energetico coinvolge anche il gas naturale liquefatto. In Europa ne verranno inviati, nel solo 2022, 18 miliardi di metri cubi aggiuntivi per sostenere il tentativo di liberarsi dal gas russo. Visti anche gli alti prezzi del petrolio, intorno ai 105 dollari al barile, sembra molto conveniente per gli Stati Uniti approfittare di questa occasione. Tuttavia, non è così semplice.

Il primo motivo riguarda la capacità produttiva. Attualmente gli Usa producono ogni giorno circa 12 miliardi di petrolio greggio e sono già molto vicini al loro livello massimo, pari a 13 milioni raggiunto a marzo 2020. Allo stato attuale, non c’è quindi molto spazio affinché un aumento della produzione risolva le richieste europee, che sono circa di 3-4 milioni di barili al giorno.

Allo stesso tempo le società petrolifere americane potrebbero non essere disposte ad aumentare la produzione per varie ragioni. L’ampia volatilità, tipica del mercato del petrolio, ha portato vari osservatori a pensare che già entro la fine dell’anno ci possa essere una caduta del prezzo. Il timore che i prezzi restino alti solo per poco tempo scoraggia dunque gli investimenti. La cautela è anche dovuta alla grossa crisi che il settore petrolifero ha vissuto nei primi mesi della pandemia e che ora sta recuperando grazie ai prezzi elevati. Ad aprile 2020 il prezzo del petrolio texano, il WTI, era diminuito in breve tempo toccando addirittura valori negativi. Le conseguenze di un evento così particolare e la presenza di prolungate limitazioni ai movimenti hanno causato il fallimento di molte aziende del settore. 

Non spingono ad aumentare la produzione nemmeno gli sviluppi incerti di molti eventi come il prolungarsi della guerra in Ucraina, i possibili nuovi lockdown e il procedere a singhiozzo delle industrie cinesi. Un esempio di incertezza viene da British Petroleum, che nei suoi ultimi conti trimestrali ha iscritto a bilancio una perdita di 24 miliardi di dollari per essersi liberata delle azioni di Rosneft, la principale società petrolifera russa di cui deteneva circa il 20 per cento delle azioni.

C’è inoltre il tema politico. Tra il presidente americano Joe Biden e le compagnie petrolifere non c’è un buon rapporto. In diverse occasioni Biden ha detto che il ricorso alle fonti fossili deve essere ridotto, salvo poi domandare, recentemente, alle stesse società di aumentare la produzione di petrolio per cercare di contenere il prezzo dell’energia, la cui crescita lo ha spinto a ricorrere per due volte alle riserve petrolifere nazionali. Le società petrolifere non hanno fretta di muoversi: un po’ si godono gli elevati profitti dopo mesi difficili e un po’ cercano di aumentare il proprio potere negoziale di fronte al presidente, che temono possa tornare sulla propria posizione iniziale una volta terminata l’emergenza. Per queste aziende sta diventando più complesso anche trovare potenziali investitori per via di una maggiore attenzione all’ambiente e alla sostenibilità.

Infine, vi sono anche motivi più pratici che inducono a non aumentare la produzione. La bassissima disoccupazione nel mercato del lavoro americano (3,6 per cento ad aprile) rende complesso e spesso costoso trovare nuovi lavoratori, in un settore che poco prima si era liberato di molte persone. La non completa ripresa della supply chain e l’elevata inflazione complicano il recupero di alcuni materiali. Questo è particolarmente vero nella produzione dello shale oil, in cui la compressione idraulica con cui si colpiscono le pietre rende necessario l’utilizzo di moltissima quantità d’acqua e di sabbia.

Di fronte a questo quadro, alcuni stati europei hanno già avviato una diversificazione dalla Russia, che nel 2019 ha fornito all'Ue il 26 per cento del petrolio importato. La Germania ha ridotto in poco più di un anno la sua dipendenza, passando dal 35 al 12 per cento e raggiungendo così una quota simile a quella italiana (11 per cento), altri come la Slovacchia o la Bulgaria hanno un percorso maggiormente complesso. Ad ogni modo, senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa rischia di trovarsi con lo stesso problema avuto sul gas: rimpiazzare la dipendenza da un paese autarchico con rifornimenti da altri paesi non democratici.

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