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quale reshoring

Perché il rientro nel nostro paese di certe produzioni deve essere una priorità

Andrea Silvestri e Andrea Tavecchio

In che modo possiamo far rientare da noi alcune catene produttive strategiche? Idee per privilegiaere occupazione e innovazione

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L’analisi più lucida della situazione attuale europea l’ha fatta chi diceva a proposito della Germania – ma vale per molti altri paesi – che la visione di comprare a basso costo materie prime come il gas o il petrolio russo e produrre a basso costo in Cina ha subito un brusco bagno di realtà e non può più funzionare come una volta. E’ finito un mondo, prima per il Covid e adesso con la guerra in Ucraina, la cui durata appare sempre più incerta. Questo duplice cigno nero trasformerà anche le forme della globalizzazione: non sarà un processo repentino, ma molto è destinato a cambiare.

 

Un crescente numero di imprese del mondo occidentale sta scoprendo il valore di avere autonomia strategica sulle tecnologie chiave e di poter contare su fonti di approvvigionamento diversificate e sicure, anche sotto il profilo geopolitico, di materie prime e beni intermedi. Molte catene di fornitura e sub fornitura si faranno più corte, più tracciate, più governabili. Autonomia e sicurezza faranno premio su considerazioni basate sul basso costo dei fattori nell’allocazione degli investimenti produttivi. In questo contesto un paese come l’Italia, dal cuore manifatturiero ancora vivo e pulsante, fra le tante minacce può cogliere qualche importante opportunità.

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Il tema dell’attrazione di investimenti produttivi e del reshoring – cioè di rientro in Italia di attività localizzate in paesi a basso costo del lavoro – è destinato ad assumere un valore ancor più strategico. Il segretario al Tesoro americano Janet Yellen l’ha definito recentemente in modo perfetto: friend-shoring, fare affari tra amici “like-minded”, cioè che condividono gli stessi valori. Un cambiamento epocale rispetto al mondo che è durato fino a ieri, in cui si pensava che il business globalizzato portasse comunque con sé una naturale spinta verso una società liberale e democratica.

 

Per l’Italia diventa quindi una priorità capire cosa fare per stimolare le imprese a trasferire in Italia attività produttive che in precedenza venivano svolte in stati extra Ue. Peraltro mai come in questo momento si registra grande interesse da parte di numerose multinazionali a localizzare in Italia significativi investimenti produttivi spesso a elevato contenuto tecnologico. Interesse però non significa di per sé scelta di investimento, perché questa viene adottata solo dopo una valutazione comparativa tra vari paesi, tra cui il nostro. Il tema dell’attrattività dell’Italia resta dunque centrale.

 

Per uscire dal generico e ipotizzare policy pro reshoring  – se ne è scritto già sul Foglio –  si potrebbe pensare a una aliquota ridotta sul reddito imponibile riferibile alle attività d’impresa oggetto di rimpatrio, almeno per qualche anno. Sarebbe una norma di incentivo fiscale, peraltro a costo zero o addirittura con incremento di gettito, perché sarebbero svolte in Italia attività che prima erano all’estero. Sarebbe anche un modo di determinare ricadute positive sull’occupazione diretta e indotta, sugli ecosistemi di innovazione oltre che sul gettito fiscale. Per rendere ancora più competitivo il sistema-Italia bisognerebbe poi accompagnare questa norma con il rafforzamento dell’interpello sui nuovi investimenti, che si sta dimostrando uno strumento utile per attrarre business in Italia.

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Un secondo blocco di norme potrebbe riguardare l’incentivo alla patrimonializzazione e alla crescita dimensionale delle imprese. L’emergenza Covid prima e la guerra in Ucraina oggi hanno dimostrato come la dimensione sia una componente fondamentale per stare sul mercato. Bisogna quindi favorire le aggregazioni tra imprese. L’idea di policy in questo caso potrebbe essere una agevolazione che consista nell’esclusione da imposizione per alcuni anni di un importo determinato in via forfetaria per tenere conto delle sinergie ottenute per effetto delle aggregazioni aziendali.

 

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Bisognerebbe poi, da ultimo ma non per ultimo, avere il coraggio di ragionare su meccanismi volti a garantire la stabilità del sistema tributario nel tempo e, in tal modo, a favorire gli investimenti e la crescita economica del paese. Veri e propri “accordi di stabilità” per assicurare l’applicazione di una certa normativa fiscale per un determinato periodo di tempo e in questo modo per garantire pro futuro i “nuovi” contribuenti che danno fiducia al “doing business in Italy”. In tempi di friend-shoring “affidabilità” sarà la parola magica nel grande gioco sulla riallocazione delle catene del valore e sulla scelta della localizzazione dei nuovi investimenti. E l’Italia può e deve giocare al meglio questa partita.

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