Putin in difficoltà

La Russia riduce la produzione di petrolio e lo vende a sconto. Le sanzioni stanno funzionando

Ugo Bertone

Mosca di questi tempi è diventato un cliente scomodo e potrebbe essere costretta a rinunciare a 3 milioni di barili di greggio al giorno

Troppo rischio, basta così. Russel Hardy che da Ginevra guida le sorti di Vitol, il più grande trader indipendente di greggio del mondo, ha detto che intende interrompere del tutto le transazioni con il petrolio in arrivo dalla Russia entro la fine di quest’anno. Un vero e proprio colpo di scena perché la boutique ginevrina, al pari dei rivali di Trefigura, da sempre fa da ponte finanziario tra Mosca e i compratori finali garantendo la liquidità necessaria. Ma sotto i cieli della guerra i margini di garanzia chiesti dalle banche sono cresciuti a dismisura: per un contratto di vendita sul gas naturale da 97 dollari al megawatt mi sono sentito chiedere un anticipo di 85 dollari, si è lamentato Hardy in un convegno del Financial Times. 


Insomma, la scommessa finanziaria fa tremare le spalle più solide. Mosca di questi tempi è diventato un cliente scomodo. La notizia trova un’indiretta conferma nelle ultime previsioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia: a partire da maggio, si legge nel report, la Russia potrebbe essere costretta a rinunciare a 3 milioni di barili di greggio al giorno tagliando così a soli 9 milioni di barili la produzione giornaliera. Colpa dei mancati acquisti a Ovest, solo in modesta misura compensati da Cina e India. I forti aumenti dei prezzi dell’energia seguiti all’invasione dell’Ucraina hanno mascherato in parte la situazione (12,1 miliardi di dollari incassati a marzo con il solo petrolio). Ma la realtà è che le raffinerie russe sembrano aver ridotto l’attività ai minimi: il 70 per cento in meno della media stagionale, secondo Richard Joswick di S&P, pari a 1,7 milioni di barili il che, secondo indiscrezioni, ha già portato alla chiusura di alcuni impianti come quello denominato TAIF-NK in Tatarstan. 


Intanto il quotidiano russo Kommersant riferisce che il ceo di Lukoil, Vagit Alekperov, ha chiesto al vicepremier Aleksandr Novak di usare il carburante per alimentare le centrali liberando spazio nei depositi.  Un’analisi precisa è impossibile, perché molti depositi sono sottoterra, lontano dall’occhio di satelliti e droni, ma la realtà filtra anche dai dati ufficiali: ad aprile le vendite di greggio, in discesa a marzo da 11,1 a 10,6 milioni di barili al giorno, dovrebbero tornare ai livelli dell’estate scorsa, prima degli aumenti concordati in sede Opec+. La sensazione, insomma, è che le sanzioni comincino a portare risultati, grazie alla combinazione tra finanza, logistica (l’esclusione di Mosca dalle rotte di Msc, Maersk e degli altri campioni del trasporto via mare e cielo) e il contributo delle riserve strategiche Usa. 


Mosca sta cercando di trovare in tempi brevi nuovi sbocchi per il suo petrolio (5 milioni di barili al giorno l’export prima della guerra). Ma l’impresa non è semplice, nonostante i forti sconti sui listini (non più di 85 dollari al barile contro i 100-105 ufficiali). L’India non ha le basi logistiche per fare il pieno: mancano le strutture portuali per sostenere un forte aumento dell’import e, ancor più importanti, le raffinerie non sono attrezzate per lavorare il greggio Ural. Va meglio con la Cina, ma anche qui i numeri suggeriscono prudenza: prima della crisi Pechino non ha mai importato più di 500 mila barili di Ural. Come pensare che in un colpo solo il Drago possa assorbire i 2,7 milioni di barili necessari per far marciare a regime l’industria più strategica della Russia di Putin, che nel 2021 ha garantito il 45 per cento delle entrate statali e richiede costanti iniezioni di tecnologia dal partner occidentali? Certo, meglio diffidare delle letture troppo semplici di una realtà in costante ebollizione. Dall’isola di Sakhalin, riferisce il Wall Street Journal, è partito un carico di Sokol, altro tipo di greggio, destinato a un compratore giapponese che si è appoggiato a una raffineria coreana per rifornire ditte indiane. Ma Sakhalin I è una joint venture storica tra Rosneft ed Exxon Mobil che, imbarazzata, ha detto che non poteva sottrarsi ad accordi precedenti alle sanzioni che, tra l’altro, prevedono ancora dieci spedizioni a maggio. La partita, dunque, è in corso. A giudicare dai numeri le sanzioni stanno facendo il loro dovere. E l’embargo potrebbe dare il colpo di grazia all’industria più importante del regime. Senza, tra l’altro, dover inseguire i carichi di greggio in giro per i mari. Sarebbe sufficiente chiudere il rubinetto dell’oleodotto di Druzhba che fin dai tempi dell’Unione Sovietica trasporta ogni giorno 800 mila barili di greggio Ural verso le raffinerie tedesche. E’ la prossima mossa? Chissà. 

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