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il report

Lo sblocco dei licenziamenti non è stato una catastrofe. Dati

Alberto Chiumento

Le aziende hanno licenziato ma in modo ridotto, e sempre per difficoltà ed esuberi presenti prima della pandemia. Il mercato del lavoro italiano nel 2021 ha iniziato a recuperare, ma restano alti i livelli di disoccupazione dei giovani

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Lunedì mattina il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la Banca d’Italia e l’Anpal hanno pubblicato un report di analisi del mercato del lavoro italiano che, utilizzando i dati delle comunicazioni obbligatorie di tutto il 2021, permette di osservare alcune delle principali tendenze in corso nel mondo lavorativo.

 

Tra queste, la principale riguarda gli effetti della fine del blocco dei licenziamenti, decisione che tanto aveva fatto discutere il governo a fine giugno. Nello studio si legge che “i licenziamenti sono rimasti su livelli mediamente modesti (27 mila contratti cessati ogni mese in media nel 2021, circa il 40 per cento in meno rispetto al 2019)”, dato prevedibile visto che il divieto prevedeva alcune eccezioni. Per questo è ancora più significativo che “gli incrementi registrati nei mesi immediatamente successivi alla rimozione dei vari blocchi (30 giugno per l’industria, ad eccezione del comparto tessile e dell’abbigliamento; 31 ottobre per tutti gli altri comparti) appaiono avere natura temporanea e verosimilmente riflettono esuberi già previsti nei mesi precedenti”.

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Dunque le aziende hanno licenziato appena è tornato possibile farlo, ma non si sono verificati i numeri catastrofici che molti sindacati avevano annunciato durante le trattative con il governo. Inoltre queste cessazioni di lavoro, secondo quanto scritto nel report, non hanno come causa le difficoltà legate alla pandemia, ma erano condizioni già presenti. Generalmente quindi il sistema economico ha tenuto e non ha risentito negativamente della fine della misura.

 

Il divieto di licenziare era stato introdotto allo scoppio della pandemia ed è una norma moto rara: in passato era stata utilizzata subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra agosto 1945 e aprile 1946, pur ammettendo delle eccezioni proprio come in questo caso.

 

Tuttavia, la finalità del blocco è stata molto discussa per la contemporanea presenza della cassa integrazione come strumento di sostegno economico per i lavoratori. In Europa l’Italia è stato l’unico paese ad usare entrambe le misure. Diverse istituzioni sono intervenute per sottolineare la possibilità per l’Italia di ridurre la durata del blocco, essendo già attivo un sussidio ai redditi. Sia la Banca d’Italia sia la Commissione europea hanno rimarcato che un utilizzo esteso del divieto ai licenziamenti avrebbe potuto ostacolare il naturale adeguamento della forza lavoro alla nuova realtà ritardando così l’ingresso dei giovani lavoratori e il reinserimento dei disoccupati.

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Indicazioni del genere si sono scontrate però con le volontà della politica. Il Partito Democratico, Liberi e Uguali e il Movimento 5 Stelle desideravano prolungare la misura oltre il 30 giugno 2021, mentre Italia Viva e Lega chiedevano al governo Draghi di terminare il blocco. Alla fine si è trovato un compromesso scegliendo di eliminare il blocco in modo graduale a partire dal 30 giugno: per i settori del tessile, del calzaturiero e della moda infatti il vincolo è stato prorogato fino alla fine di ottobre.

 

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A livello generale il report descrive un mercato del lavoro in crescita dopo le difficoltà del 2020, anche se i divari di genere alimentati dalla pandemia non si sono ancora assorbiti. Le attivazioni nette totali, ovvero la differenza tra attivazioni lorde e le cessazioni dei contratti di lavoro, sono state 597 mila, un netto incremento rispetto alla 2020, quando il numero era addirittura negativo: -38 mila. Anche il confronto con il 2019, anno con coinvolto nella pandemia, è positivo perchè le attivazioni nette erano state minori, 282 mila. Tuttavia, nel 2019 il numero degli occupati era superiore a quello del 2021.

 

Questa dinamicità di rimbalzo è trainata soprattutto dai contratti a tempo determinato, indici del fatto che un consolidamento del mercato del lavoro deve ancora arrivare. Essi sono largamente i contratti più utilizzati, se confrontati con i contratti a tempo indeterminato e gli apprendistato. Delle 597 mila attivazioni nette più della metà (364 mila) sono legati a contratti a termine, mentre i contratti indeterminati si fermano a 277 mila. Gli apprendistato giocano un ruolo negativo, presentato un saldo inferiore a zero (-43 mila).

 

Un ricorso così ampio ai contratti a tempo determinato è anche stato favorito dalle modifiche fatte a luglio al decreto dignità, che ha reso più lasche le modalità con cui le imprese possono usare questo tipo di contratto, fornendo al mercato del lavoro un ulteriore livello di flessibilità in un momento piuttosto complesso.

 

La sfida per il 2022 sarà quindi quella di confermare i contratti a termine (molti sono scaduti con la fine del 2021) e di trasformarli in assunzioni a tempo indeterminato. Il modo principale per raggiungere questo obiettivo è proseguire nella campagna di vaccinazione, raggiungendo anche quella piccola percentuale di cittadini che ancora non ha deciso di vaccinarsi, e completare le riforme ancora aperte, tra cui quella del fisco. Il recupero del mondo del lavoro non è assolutamente completato: secondo Istat, il tasso di disoccupazione a novembre (ultimo dato disponibile) è pari al 9,2 per cento ma sale al 28 per cento se si considerano solo i giovani.

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