Lode al bla bla bla che ci fa fare progressi nella lotta al riscaldamento globale

Carlo Stagnaro

Anche a Glasgow solo parole sul clima? No, perché è proprio grazie a questi fiumi di parole che, dalla svolta di Parigi in poi, continuiamo in realtà a fare passi avanti. È la rivincita della politica sugli slogan. Fatti, totem e tabù di una sfida globale

Venerdì prossimo si concluderà la Cop26 di Glasgow. Sarà un successo. Lo sarà nonostante “trent’anni di bla bla bla”, per citare il giudizio un po’ sommario di Greta Thunberg. O, per essere precisi, lo sarà proprio grazie a trent’anni di bla bla bla. Quando il percorso che ci ha portati qui ebbe inizio – nel 1992 a Rio de Janeiro – le conoscenze scientifiche erano meno precise, lo scontro politico ed economico più violento, l’obiettivo meno chiaro e il traguardo più lontano. Se oggi le cose sono molto diverse lo dobbiamo a Madama Tecnologia, Messere Mercato e alla svolta di Parigi. Da cosa nasce l’ottimismo? Una cinquantina di paesi hanno già fatto propri gli obiettivi di neutralità climatica. L’Unione europea, gli Stati Uniti e gran parte del mondo industrializzato hanno fissato l’asticella al 2050. La Cina, che col 26 per cento delle emissioni globali è oggi il principale emettitore di gas serra, punta al 2060. E proprio nella giornata inaugurale di Glasgow, l’India (7 per cento delle emissioni totali, poco meno dell’Ue) ha annunciato l’azzeramento delle emissioni nette nel 2070: può sembrare un rinvio ma, se si tiene conto che le emissioni pro capite sono meno di un terzo delle nostre e il pil pro capite un settimo, si capisce che si tratta invece di una mossa coraggiosa. Perfino i paesi più restii – come l’Arabia Saudita e altre nazioni ricche di petrolio, che hanno sistemi energetici estremamente inefficienti – hanno fatto delle aperture.

 

Inoltre, da Glasgow usciranno accordi vincolanti per combattere la deforestazione e, soprattutto, per tagliare in misura drastica le emissioni “fuggitive” di metano, un potente gas serra. Oltre quaranta nazioni, tra cui la Polonia (ma non gli Usa), hanno accettato di programmare l’abbandono del carbone negli anni Trenta del Duemila. Altri venti hanno promesso di cancellare i finanziamenti pubblici ai progetti per l’estrazione di combustibili fossili all’estero in assenza di adeguate misure di mitigazione delle emissioni. Insomma: il bicchiere è mezzo pieno.

    
Il medesimo bicchiere è mezzo vuoto: gli impegni assunti finora non basteranno a garantire che le temperature non superino l’asticella di 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali, e neppure quella dei 2 gradi. È comunque probabile che, se rispettati, il termometro di fermerà tra 2,1 e 2,3 gradi: ben lontano, insomma, dagli scenari più allarmisti, che prevedono un riscaldamento dell’ordine di 4-5 gradi e spesso si basano su scenari emissivi inverosimili. Tra l’altro, gli ultimi dati rivelano che abbiamo pesantemente sottostimato gli assorbimenti di CO2 da parte del suolo. Tenendo conto delle informazioni più recenti, si scopre che le emissioni complessive negli ultimi dieci anni non sono cresciute. È ancora presto per trarne conclusioni definitive, visto che le incertezze sono tante, ma certo questo dà fiato a quegli studiosi che da tempo mettono in guardia contro assunzioni troppo pessimistiche sull’andamento delle emissioni future. È il caso di Zeke Hausfather e Glen Peters su Nature e il team della Banca d’Italia che si occupa di economia del clima (si veda “Banche centrali, rischi climatici e finanza sostenibile”, marzo 2021). Non solo: il capoeconomista dell’Agenzia internazionale dell’energia, Fatih Birol, ha mostrato che – tenendo conto del nuovo pacchetto che sta emergendo da Glasgow – lo scenario più probabile punta verso un riscaldamento di 1,8 gradi. Lo stesso G20 di Roma, pur adottando una dichiarazione (inevitabilmente) vaga, ha ulteriormente sottolineato la necessità di prendere sul serio la decarbonizzazione.

    
Parole parole parole? Forse. Eppure, è proprio grazie a questi fiumi di parole se, anno dopo anno, continuiamo a fare progressi: sono cresciute le ambizioni, è aumentato il pragmatismo. E le due cose dipendono l’una dall’altra. Verrebbe da parlare di una nuova rivoluzione francese: il cambio di passo è stato nel 2015 a Parigi. In quel momento, il mondo era spaesato, perché pochi anni prima, nel 2009, il vertice di Copenhagen era stato un fallimento. Lo spirito di Kyoto sembrava essersi del tutto esaurito. Ne seguì un periodo di intenso lavoro negoziale, che portò a un autentico cambio di paradigma. Fino ad allora, il tentativo era stato quello di procedere per obiettivi e tabelle di marcia vincolanti, stabiliti a livello centrale e amministrati dalle Nazioni Unite. Questo approccio un po’ massimalista, un po’ idealista, non faceva i conti né con la legittima volontà dei paesi di mantenere il controllo su un tema tanto critico, né coi costi e gli impatti redistributivi.

  

L’ambientalismo dei risultati. Tenere conto di tutte le tecnologie disponibili, e usare il capitalismo per aggiustare il clima. Altra cosa è l’ambientalismo della rivoluzione, che prende a pretesto il clima per affossare il capitalismo

     

Tant’è che il protocollo di Kyoto – secondo cui i paesi sviluppati avrebbero dovuto tagliare le emissioni del 5,2 per cento al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2008-12 – di fatto si ridusse a una scelta unilaterale dell’Unione europea, o poco più. Gran parte dei paesi ratificanti non avevano alcun impegno di fatto; e gli Stati Uniti, che con la loro partecipazione avrebbero scritto una storia diversa, se ne tennero ben lontani. Nel 1997, il Senato americano aveva votato addirittura all’unanimità una risoluzione bipartisan che invitava l’amministrazione Clinton-Gore a rigettare qualunque accordo internazionale sui gas serra che contenesse obiettivi vincolanti stabiliti da fuori.

  
La risoluzione non era, in sé, contraria alla decarbonizzazione: era contraria alle imposizioni dall’esterno. L’accordo del 2015 è rivoluzionario perché passa da questo sistema a uno di responsabilità decentralizzate: nella logica di Parigi ogni paese è chiamato ad assumere target volontari (ma vincolanti). Sarà poi la pressione dei pari – e dell’opinione pubblica – a pretenderne il rispetto e a spingere, se necessario, a rivederli verso l’alto, come in effetti sta accadendo. Sicché oggi ci troviamo in una situazione assai diversa, con impegni ancora insufficienti ma molto più vicini a quanto sarebbe desiderabile. Rispetto al passato, abbiamo a disposizione tecnologie e strumenti di policy migliori e più efficaci. Non che la tentazione del massimalismo sia esorcizzata: è ancora ben presente nel dibattito pubblico e tra i partiti politici, come l’ostracismo per il nucleare evidenzia. Solo che, più il mondo prende sul serio la sfida, più si impone l’esigenza di muoversi con saggezza. 

 
Questo comporta una duplice revisione delle prassi seguite finora. In primo luogo, è necessario tenere conto di tutte le tecnologie potenzialmente disponibili. Se è vero che quella climatica è la più grande sfida collettiva che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare, allora sarebbe imperdonabile rinunciare a strumenti potenzialmente utili solo perché contraddicono qualche pregiudizio ideologico. Secondariamente, bisogna distinguere tra l’ambientalismo della rivoluzione e l’ambientalismo dei risultati. L’uno vede la questione climatica come un pretesto per sovvertire il sistema capitalistico e costruire un altro ordine mondiale. Per esempio, Mariana Mazzucato ha scritto che “i leader globali si trovano di fronte a una semplice scelta: continuare a sostenere un sistema economico fallimentare, oppure rottamare il Washington Consensus per un nuovo contratto sociale internazionale”. Peccato che il “sistema economico fallimentare” di cui parla sia quello che ha consentito la più straordinaria esplosione di benessere diffuso che si sia mai vista durante l’intera storia umana, e che oggi ci sta mettendo a disposizione la cassetta degli attrezzi di cui abbiamo bisogno. Ecco: l’ambientalismo dei risultati significa usare il capitalismo per aggiustare il clima, anziché usare il clima per affossare il capitalismo. 

 
Madama tecnologia

 
Tra il 1990 e il 2019 il pil globale è cresciuto, in termini reali, del 75 per cento. Le emissioni di CO2 sono aumentate solo del 10 per cento. Nelle aree più ricche del globo, gli Usa e l’Unione europea, il reddito nazionale è incrementato all’incirca del 55 per cento. Nello stesso periodo di tempo, le emissioni pro capite nel ricco Occidente sono addirittura diminuite, con un calo del 31 per cento in Europa e del 21 per cento in America, dove tuttavia restano due volte e mezzo più alte che nel Vecchio Continente. Nel paese del miracolo economico, la Cina post-maoista, il pil pro capite si è moltiplicato per dieci, passando da meno di 1.500 dollari a oltre 16.000, mentre le emissioni sono sì salite, ma solo di tre volte, raggiungendo grossomodo il livello europeo.

  
Dietro questo straordinario fenomeno di graduale ma sistematico disaccoppiamento tra crescita economica ed emissioni c’è, ovviamente, una forte spinta della politica. Ma c’è, soprattutto, un enorme progresso tecnologico. Una buona rappresentazione concettuale di questo processo sta nella cosiddetta “identità di Kaya”, dal nome dell’economista giapponese Yoichi Kaya che, assieme al collega Keiichi Yokobori, la propose nel 1993. L’idea è semplice: le emissioni totali (C) sono uguali al prodotto tra la popolazione (P), il pil pro capite (G/P), l’intensità energetica del pil (E/G) e per l’intensità carbonica dei consumi energetici (C/E). In formula: C = P * G/P * E/G * C/E. Quindi, per ridurre C si può intervenire su ciascuna di queste leve. Due di esse non sono, nei fatti, accessibili: è vero che potremmo ridurre le emissioni (a parità di altre condizioni) tagliando la popolazione globale oppure il pil pro capite (come è accaduto nel 2020, anno del Covid, quando le emissioni hanno perso il 6 per cento, il pil il 4 per cento). Tuttavia, non è né facile né desiderabile farlo. Occorre concentrarsi sull’intensità energetica del pil (cioè usare l’energia in modo più efficiente) e sull’impronta carbonica dell’energia (cioè utilizzare forme di energia più pulite). 

  
È proprio quello che abbiamo fatto negli ultimi trent’anni ed è, soprattutto, ciò che dovremo fare nei prossimi decenni. In questa prospettiva, è un bene che i negoziati climatici si concentrino sugli obiettivi (tagliare le emissioni) e lascino agli Stati il compito di individuare i mezzi. Non esiste una soluzione buona per tutti e, soprattutto, per trovare la soluzione sarà necessario che ciascuno faccia tentativi ed errori, producendo conoscenza da cui il resto del mondo può trarre vantaggio. Ma è altrettanto importante mettere da parte ogni preconcetto. Certo, le fonti rinnovabili saranno il pivot della transizione energetica. Secondo il World Energy Outlook dell’Agenzia internazionale dell’energia, per arrivare a net zero la generazione di energia eolica e fotovoltaica dovrà passare dagli attuali poco più di 2.000 TWh annui a 12.000; e anche nello scenario più pessimista arriverà a circa 8.000 TWh. Sarebbe però ingenuo illudersi che possiamo cavarcela affidandoci solo alle rinnovabili e all’elettrificazione (il Foglio, 15 ottobre 2021). E, se anche così fosse, sarebbe comunque opportuno avere un “piano B”. Come ha detto Mario Draghi a Glasgow, “nel lungo periodo le energie rinnovabili possono avere dei limiti, e quindi occorre investire in tecnologie innovative in grado di catturare il carbonio”. 

  
Il premier ha, in tal modo, rotto un tabù: l’utilizzo delle tecnologie per la cattura, lo stoccaggio e l’utilizzazione della CO2 (Ccs&u). La Ccs&u rappresenta una delle frontiere più importanti per almeno due ragioni distinte: una di breve, una di lungo periodo. Nel breve periodo, essa può contribuire a rendere (più) sostenibile l’utilizzo dei combustibili fossili, specie nei settori industriali nei quali essi sono tecnicamente o economicamente difficili da sostituire (il cemento, la siderurgia, il vetro…). In quegli ambiti, l’impronta carbonica può essere ridotta sia direttamente, catturando le emissioni di CO2 (e di metano) quando vengono generate, sia indirettamente, sostituendo il gas naturale con l’idrogeno.

  
L’importanza delle tecnologie per la cattura, lo stoccaggio e l’utilizzo della CO2. Venire a patti col gas come combustibile per la transizione. Il tabù del nucleare. Come rendere competitive le fonti di energia rinnovabili. La politica degli incentivi e quella del “carbon pricing”. La necessità dell’innovazione

  

In quest’ultimo caso, il sequestro della CO2 può rendere sostenibile il principale processo attraverso cui l’idrogeno viene prodotto, cioè lo steam reforming del metano (mentre non è necessario, ovviamente, se esso deriva dall’elettrolisi dell’acqua alimentata da rinnovabili o nucleare). Nel lungo periodo lo stoccaggio e l’utilizzazione della CO2 (da cui possono essere ricavati, per esempio, materiali per l’edilizia) potrebbero essere accoppiati con tecnologie, attualmente in fase sperimentale, di cattura diretta dell’anidride carbonica dall’aria, con l’obiettivo non solo di arrivare a emissioni nulle, ma addirittura negative. 

  
Questo ci porta al secondo tabù: quanto più siamo seri nell’intento di eliminare il carbone, tanto più dobbiamo venire a patti col gas come combustibile per la transizione. Il gas serve anche a offrire flessibilità ai sistemi elettrici, che ne hanno tanto più bisogno ai fini del bilanciamento quanto più le rinnovabili guadagnano rilevanza. Infatti, la stessa Agenzia internazionale dell’energia prevede una riduzione della domanda di gas nel 2050, solo dopo che essa avrà conosciuto un periodo di ulteriore espansione rispetto ai livelli attuali. Se vogliamo continuare a usare il gas, dobbiamo realizzare infrastrutture adeguate per trasportarlo e magari accettare pure di produrlo dove ce n’è la disponibilità, incluso in Europa. E’ del tutto incoerente pretendere di usare il gas come ponte verso la neutralità carbonica, e poi rifiutarsi di estrarre le risorse dell’Alto Adriatico (come fa l’Italia) oppure assistere inermi al declino delle attività estrattive in Europa senza interrogarsi su come rimpiazzarle. Lo stesso vale per il petrolio, che in molti utilizzi resta difficile da sostituire, almeno nel breve termine. Tra oggi e il 2025 i piani di investimento delle maggiori oil company quotate prevedono una spesa annua pari a un quinto di quella registrata nel decennio precedente. Va benissimo invocare il disinvestimento dai fossili, ma poi c’è poco da stupirsi se, di fronte a un’offerta stagnante e una domanda in crescita, i prezzi vanno alle stelle, obbligando i governi europei a correre ai ripari. 

   
Il terzo tabù riguarda il più radicato pregiudizio energetico di molti europei: il rigetto del nucleare. L’energia atomica ha un ruolo fondamentale nella transizione energetica, che piaccia o no. Non solo perché, in giro per il mondo, sono in costruzione una cinquantina di nuovi reattori (soprattutto in Cina, Corea del Sud, India, Russia e negli Emirati Arabi) che si andranno ad aggiungere ai 442 già in esercizio in 33 paesi. Ma, soprattutto, perché l’età media degli impianti esistenti è elevata: 189 hanno più di 30 anni e 81 addirittura più di 40. Prima ancora di immaginare un’espansione di questa fonte di energia, allora, bisognerebbe interrogarsi su se e come preservarne il contributo. Ogni stato è libero di agire altrimenti, ma ciò implica inevitabilmente un incremento delle emissioni perché, allo stato attuale della tecnologia, è assai improbabile (e comunque molto costoso) rimpiazzarlo interamente con le fonti rinnovabili: per esempio, uno studio degli economisti Stephen Jarvis, Olivier Deschenes e Akshaya Jha ha mostrato che la chiusura anticipata del nucleare in Germania ha causato costi esterni per 12 miliardi di euro l’anno, in gran parte dovuti agli effetti ambientali e sanitari dell’utilizzo dei combustibili fossili al posto dell’atomo. 

  
Tuttavia, non si tratta di una scommessa semplice. Se in Occidente, e in particolare in Europa, da anni si fa fatica a costruire nuovi impianti è soprattutto perché, anche a causa di una regolamentazione sempre più stringente, l’atomo non sempre è economicamente competitivo. Anzi: la sua struttura dei costi, dominata dai costi fissi, rende assai rischioso per un investitore sostenere un’iniziativa che offre ritorni incerti e lontani nel tempo. Le poche centrali in costruzione nel Vecchio Continente con la tecnologia francese dell’Epr – a Flamanville in Francia, Olkiluoto in Finlandia e Hinkley Point nel Regno Unito – hanno inoltre avuto continui allungamenti dei tempi di costruzione e aumenti spropositati dei costi. L’incertezza sull’inclusione del nucleare (e del gas) nella tassonomia europea degli investimenti sostenibili pesa sui costi di finanziamento, variabile cruciale per l’avvio o meno di un progetto. Ora sembra che, scossa dai rincari dell’energia, la Commissione abbia preso una posizione meno timorosa: speriamo che sia la volta buona. 

  
Il principale test sul futuro del nucleare in Europa si gioca comunque in Francia. Emmanuel Macron ha varato un programma di investimenti che prevede sia l’installazione di reattori sia tradizionali (Epr), sia di nuova concezione e di piccole dimensioni. Facendo leva sull’abbondante energia atomica, Macron vorrebbe poi incoraggiare la produzione di idrogeno per decarbonizzare l’industria. E’ un piano internamente coerente ma non privo di incognite: merita pertanto di essere osservato con attenzione. Anche perché i mercati elettrici europei sono ormai fortemente integrati, e ancora di più dovranno esserlo in futuro, quindi è utile e opportuno che ogni paese persegua la sua specializzazione: chi nel nucleare, chi nelle rinnovabili. 

 

Messere mercato

In ogni caso, le tecnologie di per sé servono a poco se si collocano al di fuori del contesto sociale ed economico in cui vengono calate. Come ampliarne il novero? Come distinguere le tecnologie realmente utili da quelle inefficaci o inefficienti? Come favorirne la diffusione? Sta qui il cuore della scelta politica che da Glasgow rimbalza nei paesi partecipanti.

 
Molti pensano che sia arrivato (o tornato) il tempo dello stato imprenditore, con i governi che dovrebbero individuare le tecnologie preferite e promuoverne direttamente l’adozione. E’, in buona misura, la strategia seguita dall’Unione europea con le fonti rinnovabili. L’Italia, per esempio, spende oltre 12 miliardi di euro l’anno per effetto degli incentivi impegnati anni fa, il cui ciclo continuerà ancora a lungo, per un totale cumulato stimabile in 200 miliardi di euro. A livello europeo, la spesa annua per gli incentivi alle fonti rinnovabili è all’incirca di 60 miliardi di euro, corrispondenti a un costo implicito attorno ai 100 euro / tonnellata di CO2 abbattuta. I sostenitori di questa politica argomentano che è solo grazie all’enorme impegno finanziario europeo (e, in misura minore, di altri paesi) se oggi le rinnovabili sono (quasi) competitive. Per esempio, negli ultimi dieci anni il costo dei pannelli fotovoltaici è sceso dell’82 per cento. Resta la domanda: il gioco è valso la candela? In Europa abbiamo un meccanismo di scambio delle quote di emissione, che serve ad allocare l’onere dei tagli là dove essi sono meno costosi. Il prezzo medio di un certificato, nel periodo 2010-2020, si è aggirato nel range 10-20 euro / ton CO2. Significa che, a parità di spesa, per ogni tonnellata di emissioni evitate grazie ai sussidi avremmo potuto tagliarne dieci in altri ambiti. Perfino oggi, che i certificati hanno raggiunto livelli record di 60 euro e più, i sussidi creano arbitraggi, ottimi guadagni per alcuni, ma, collettivamente, un pessimo affare per l’ambiente. 

 
Va detto che, negli ultimi anni, il fabbisogno per l’incentivazione delle rinnovabili è andata calando di pari passo col costo delle tecnologie. In Italia, potrebbe essere ancora inferiore se non ci fosse un assurdo collo di bottiglia burocratico che impedisce di autorizzare molti progetti di per sé meritevoli (citofonare Dario Franceschini). Va anche aggiunto che non tutte le opposizioni sono infondate: come ha scritto Jacopo Giliberto sul Sole 24 Ore, accanto a un ambientalismo che vuole più rinnovabili per combattere il climate change, c’è un altro ambientalismo che vuole preservare il paesaggio: trovare una sintesi tra queste due anime, entrambe legittime ma confliggenti, è una delle sfide più grandi non solo per l’Italia, ma per tutta Europa, e sottovalutarne l’importanza sarebbe ingenuo e fallimentare. Va infine sottolineato che, agli attuali costi del gas, le rinnovabili possono essere competitive anche senza incentivi: quindi impegnare più capitale politico nello snellimento delle procedure e meno capitale finanziario nell’incentivazione sarebbe un utile cambio di passo.

 
Questo ci porta a un’ultima domanda: esiste un altro sentiero? La risposta è fortunatamente affermativa. L’intuizione di molti economisti, tra cui il Premio Nobel William Nordhaus, è questa: invece di sostenere le tecnologie pulite, bisogna scoraggiare l’impiego di quelle “sporche”, in misura proporzionale al danno che esse producono al clima  (il cosiddetto carbon pricing). Non bisogna scegliere i vincitori, ma fare in modo che chi inquina paghi. In tal modo, si creerebbe una pressione a favore di tutte quelle tecnologie che consentono di evitare o abbattere il rilascio di gas serra. Per esempio, le fonti rinnovabili, le batterie, l’idrogeno verde o blu, la cattura e stoccaggio del carbonio, e così via. In pratica, si tratterebbe di costruire – o, meglio, di sviluppare – un mercato delle tecnologie pulite, che sia mosso dai relativi meriti (costi, performance, ecc.) anziché dalla capacità di intercettare il favore di qualche politico. Naturalmente, si darebbe anche una grande spinta all’innovazione che, come ha scritto Bill Gates e come ribadisce sempre il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è l’unica vera forza dalla quale possiamo aspettarci gli strumenti per risolvere la crisi climatica senza compromettere il progresso economico e sociale.

 
Rispetto alle precedenti conferenze delle parti, quella di Glasgow ha una peculiarità: si svolge in una fase congiunturale di alti prezzi dell’energia. Proprio questa congiuntura apre una finestra di opportunità. In primo luogo, rende evidente a tutti che la tassazione delle emissioni di CO2 non può essere vista come fonte di gettito addizionale da usare per alimentare qualche altro rivolo di una spesa pubblica già elefantiaca, almeno in Europa. Al contrario, il gettito dovrebbe essere interamente restituito ai consumatori – famiglie e imprese – come in parte sta facendo il governo Draghi coi denari derivanti dalle aste per i permessi di emissione. Secondariamente, il caro-energia impone di fare i conti col costo delle fughe in avanti: è facile invocare lo stop all’estrazione dei combustibili fossili, ma poi bisogna sostenerne le conseguenze. Come ha scritto Derek Brower sul Financial Times, “abbiamo deciso che vogliamo smettere di investire nelle fonti fossili, ma ci siamo dimenticati di dirlo ai consumatori”. Si arriva così al paradosso di Joe Biden, che dentro al vertice dell’Onu chiede di abbandonare il petrolio, ma poi esce e fa la voce grossa coi paesi produttori perché aumentino l’offerta. Ironia nell’ironia: mentre l’ultimo vertice Opec+ ha risposto facendo spallucce, i dati raccontano un’altra storia. L’Arabia Saudita è ormai tornata ai livelli pre-Covid e la Russia li sta per raggiungere: chi manca all’appello è proprio il più grande produttore petrolifero al mondo, cioè gli Stati Uniti. Insomma, anche al di là delle comprensibili e forse necessarie ipocrisie, ancora una volta uno sguardo più terra-terra aiuta a ottenere una prospettiva migliore sui fatti. 

 
D’altronde, i meeting internazionali non servono a lanciare (o raccogliere) slogan, ma a costruire un ordine, per quanto imperfetto, che aiuti a risolvere i problemi. I rapporti come il World Energy Outlook o la roadmap Net Zero by 2050 dell’Agenzia internazionale dell’energia evidenziano la distanza tra il “dover essere” degli scenari e l’“essere” della realtà. La conferenza delle parti è il luogo nel quale si tenta di ridurre questa distanza. E’ un lavoro lento, faticoso e spesso incompreso, che induce chi osserva da fuori a gridare al fallimento e a denunciare l’inutile bla bla bla. Ma è anche l’unico tipo di lavoro che può generare effetti duraturi. Chiamatela, se volete, politica.

 

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