Il bla bla bla dei grandi del mondo spiegato a Greta

Claudio Cerasa

Le alluvioni siciliane e la Cop26 suggeriscono alcune domande non scontate su ciò che il mondo sta facendo sul “climate change”. I tabù non affrontati dall’Onu e tre ragioni per essere ottimisti

Le immagini mostruose arrivate ieri pomeriggio del nubifragio di Catania, dove un uomo è stato travolto per strada da una valanga di acqua a seguito dell’esondazione del fiume Simeto, costringono molti osservatori a chiedersi ancora una volta se tutto quello che i grandi paesi del mondo stanno facendo sul terreno del cambiamento climatico sia qualcosa in più di una semplice chiacchiera politicistica.

 

La domanda è legittima non solo per tutto ciò che è successo ieri in Sicilia ma anche per tutto ciò che succederà la prossima settimana durante la Cop26 sul clima, organizzata dal Regno Unito insieme con l’Italia. Tema numero uno: si può essere ottimisti rispetto al futuro del clima? Tema numero due: si può discutere di clima senza trasformare il dibattito sul climate change in un dibattito religioso? Tema numero tre: ha ragione Greta a sostenere che i grandi governi del mondo, quando ragionano sul clima, altro non fanno se non comportarsi da professionisti del bla bla? Le risposte a queste domande sono , e no e per capire perché vale la pena ripescare alcuni spunti utili sparpagliati in questi giorni sui giornali internazionali.

 

Il primo è quello offerto da un articolo del New York Times, giornale solitamente molto prudente quando si parla di clima, che due giorni fa ha costruito un dossier interessante per rispondere indirettamente a Greta Thunberg. Nel 2014, scrive il Nyt, prima dell’accordo sul clima di Parigi, il mondo era sulla buona strada per riscaldarsi di quasi 4 gradi Celsius entro la fine del secolo. Oggi, grazie alla rapida espansione dell’energia pulita, l’umanità ha iniziato a piegare la curva delle emissioni e se le promesse sottoscritte dai grandi governi del mondo verranno realizzate, il mondo potrebbe limitare il riscaldamento totale a 2 o al massimo 2,4 gradi Celsius entro il 2100. Un livello che, nonostante le dichiarazioni apocalittiche delle Nazioni Unite, non è così lontano da quello che è considerato lo standard ideale, che è pari a 1,5 gradi Celsius. E il tutto sta succedendo anche grazie al bla bla bla dei grandi paesi del mondo, che pur muovendosi su base volontaria (l’accordo di Parigi sul clima tra 195 nazioni non è vincolante) negli ultimi anni sono riusciti a raggiungere risultati importanti: l’Unione europea ha inasprito i limiti alle emissioni industriali, Cina e India hanno aumentato le energie rinnovabili, l’Egitto ha ridotto i sussidi per i combustibili fossili, l’Indonesia ha iniziato a reprimere la deforestazione illegale. Tanto è vero che, come raccontato sul Foglio da Chicco Testa e Carlo Stagnaro, l’Agenzia internazionale per l’energia prevede che le emissioni globali di anidride carbonica potrebbero raggiungere il picco entro la metà del 2025, per poi iniziare a diminuire gradualmente.  

 

Il secondo spunto interessante è quello offerto dal Point, che in occasione della Cop26 ha rispolverato una formidabile intervista a Roger Pielke, docente all’Università del Colorado, autore del saggio The Climate Fix: What Scientists and Politicians Won’t Tell You About Global Warming, in cui il prof. americano spiegava con parole semplici perché ogni istinto anticapitalista applicato al tema del climate change è controproducente. “Sì, è stato detto che l’attenzione per l’ambiente è un bene di lusso, a noi accessibile solo oltre un certo tenore di vita. Ma c’è anche un aspetto più pratico: più diventiamo ricchi, più efficiente è la nostra gestione delle risorse. E’ controintuitivo, ma più le nostre società diventano ricche, meglio è per l’ambiente”. Pielke offre poi un altro spunto che ci conduce a un ulteriore tema rimosso nel dibattito sul clima. “I paesi interessati al climate change devono essere aperti alla possibilità di utilizzare tutte le tecnologie a nostra disposizione, senza giudicarle in anticipo”. Aperti, dice Pielke, a sperimentare sistemi di cattura della CO2. Ma aperti, continua lo studioso, a non avere pregiudizi anche rispetto a tecnologie come il nucleare. “Dobbiamo decidere cosa ci spaventa di più tra il cambiamento climatico e l’energia nucleare. D’altra parte, occorre sapere che rifiutando l’energia nucleare a livello globale, sarà molto più difficile arrivare a zero emissioni nette di CO2. Il consumo di energia continuerà a esplodere, in Cina, India, sud-est asiatico, infine nel continente africano. E sarà necessario produrre questa energia. Forse il progresso tecnologico consentirà l’avvento di una nuova generazione di centrali nucleari che faranno meno paura alla gente. Tuttavia, è chiaro che se rifiutiamo le soluzioni energetiche offerte dalle nuove tecnologie, ci ritroviamo solo con combustibili fossili. Non potremo fingere di essere sorpresi osservando che il mondo continua a bruciare gas e carbone se non si adotta l’energia nucleare!”.

 

Scegliere cosa ci spaventa di più tra il cambiamento climatico e l’energia nucleare – lo stesso discorso in Italia dovrebbe valere per i termovalorizzatori – è un tema cruciale con cui finalmente l’Europa ha scelto di fare i conti anche grazie a una presa di posizione coraggiosa da parte del presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che giusto la scorsa settimana ha detto che il nucleare può aiutare a dare maggiore “indipendenza energetica all’Europa”. Le Nazioni Unite ieri, con tono come sempre apocalittico, hanno rimproverato i grandi paesi del mondo di essere troppo distanti “da ciò che è necessario per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi”, affermando che gli stati che hanno sottoscritto l’accordo di Parigi dovrebbero moltiplicare per sette le proprie ambizioni per arrivare a una crescita pari a 1,5 gradi Celsius. Eppure l’allarme dell’Onu è lì che ci mostra il bicchiere solo nella sua metà vuota. “C’è stato un vero cambiamento nell’ultimo decennio – ha affermato al Nyt Niklas Höhne, climatologo tedesco e partner fondatore del NewClimate Institute, che ha creato il Climate Action Tracker – e si può dire che i progressi sono stati troppo lenti, che non sono ancora abbastanza, ma il movimento c’è”.

 

Meno fideismo, meno catastrofismo, meno paura del capitalismo, più pragmatismo, più fiducia nell’innovazione. L’anti bla bla bla passa anche da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.