soundcheck

Sempre la stessa narrazione, senza proposte. Il bla bla di Greta è populismo climatico

Lorenzo Borga

Nessuna maturazione dell'attivista svedese rispetto ai primi tempi del suo attivismo a favore del clima. Eppure la transizione ecologica non sarà un pranzo di gala

Una ragazza svedese di 18 anni, Greta Thunberg, riesce da qualche anno a questa parte a far parlare e discutere di cambiamento climatico più di quanto non fosse mai accaduto prima. E questo è un gran bene, vista la fretta che dobbiamo avere, secondo la stragrande maggioranza dei climatologi, nel combattere l’innalzamento della temperatura media globale. D’altra parte però questa ragazza da tre anni a questa parte ripete sempre lo stesso discorso, più o meno, senza offrire soluzioni all’impellente problema che denuncia. Era comprensibile che Greta, all’età di 15 anni e all’inizio del suo percorso quando manifestava da sola a Stoccolma, non si preoccupasse di contribuire con proposte concrete. Ora che invece è una leader mondiale, al centro del dibattito pubblico, guida il movimento Fridays for Future ed è la paladina di milioni di giovani e giovanissimi, è un gran peccato che ancora si astenga. Per sé stessa e il suo movimento, ma in fondo anche per noi.


Nel suo discorso alla Youth4Climate Pre-COP26 di Milano Thunberg si è scagliata contro i leader politici che non fanno abbastanza. Ha definito “bla bla” gli slogan sul clima di Macron e Biden, ma anche gli intenti di creare posti di lavoro green dalla transizione climatica ed energetica. Greta si è detta convinta che non possiamo non valutare le responsabilità storiche di produzione delle emissioni di gas serra – che incolpano l’Occidente – e che la crisi climatica è intrinsecamente legata alla diseguaglianza del nostro sistema sociale. Parole che però ignorano la complessità del problema. Da anni ormai le emissioni dei paesi occidentali stanno rallentando se non diminuendo. In Unione europea hanno raggiunto il loro picco nel 1979, negli Stati Uniti nel 2007. Non basta, certo, perché i livelli continuano a essere insostenibili, soprattutto poiché le emissioni già liberate in atmosfera nei decenni scorsi rimangono in gran parte lì, causando un effetto-accumulo pericoloso. Non si comprende davvero quindi come faccia Greta, quando accusa i leader globali perché “le emissioni stanno ancora aumentando”, a non citare neanche una volta Cina e India, che da anni superano ripetutamente i propri record negativi di inquinamento. Per di più citando come causa del cambiamento climatico le diseguaglianze che attanagliano la nostra società e il colonialismo occidentale che “sfrutta e rube le terre e le risorse altrui”. Ma la realtà sembra opposta: l’enorme crescita delle emissioni dei paesi in via di sviluppo è proprio l’effetto della loro persistente crescita economica delle negli ultimi anni che sta portando a ridurre le diseguaglianze globali con l’Occidente. Dopo Cina e India, il prossimo gigante che muoverà i propri passi nel progresso – che, con la tecnologia attuale, richiede purtroppo ancora emissioni di CO2 – sarà la Nigeria, che entro il 2050 dovrebbe diventare il terzo paese più popoloso del mondo (oggi è il settimo). Altro che colonialismo occidentale.


Tutto ciò non esenta dalle responsabilità storiche i paesi industrializzati (che ancora non riescono a versare i 100 miliardi di dollari all’anno promessi ai paesi in via di sviluppo per le politiche climatiche, promessi nell’accordo di Parigi) ma fa dedurre come il clima sia un bene pubblico globale. Come è la sicurezza in uno stato nazionale: nessun cittadino preso singolarmente sarebbe disposto a pagare volontariamente un servizio di sicurezza privato per rendere sicure le strade, perché un tale servizio – che pagherebbe il singolo – andrebbe a beneficio di tutta la collettività. Lo stesso per il clima: nessuno stato – o continente – da solo può e vorrebbe sobbarcarsi l’intero sforzo di combattere il cambiamento climatico, perché la sua azione andrebbe a beneficio di tutto il globo. E dunque, senza un coordinamento globale, l’atteggiamento naturale di tutti gli stati è attendere che siano gli altri a fare il primo passo.


Il secondo problema di Greta è poi l’assenza di proposte. Quando si ascolta il suo intervento a Milano, lo si potrebbe tranquillamente scambiare con uno dei suoi primi discorsi pubblici del 2018. Non ha apportato particolari cambiamenti alla sua narrazione, che comunque evidentemente rimane efficace. Ma da una leader globale ci si attenderebbero idee, anche utopiche, anche alla frontiera, anche impossibili da realizzare nel concreto. Un’elaborazione collettiva che possa far comprendere agli attivisti (alcuni lo hanno capito e hanno lanciato proposte anche dal palco dello Youth4Climate) che la transizione climatica non è un pranzo di gala, ci saranno persone che si faranno male, che perderanno il lavoro e un mucchio di soldi (meno comunque rispetto a quanto accadrebbe se non facessimo nulla). Queste persone dunque vanno convinte, nei processi collettivi della democrazia (il bla bla), oltre che protette con reti sociali di welfare, pagate sempre dagli stessi contribuenti. Mentre Greta continua a proporre solo populismo climatico, prendendo per buona la definizione di Jan-Werner Müller: quando Thunberg afferma che “noi, il popolo, non possiamo lasciare alle persone al potere [elette democraticamente, ndr] la scelta di cosa è politicamente sostenibile” non può che essere tacciata di populismo. Purtroppo.