Perché anche Toyota è stata contagiata dalla crisi dei chip

Antonio Sileo

La casa automobilistica un piano di scorte che finora l'ha tenuta lontana dai problemi legati alla scarsità di semiconduttori. Ora però il Covid insidia le fabbriche delle economie emergenti rallentando la produzione. E se in Giappone piangono, nel resto del mondo le cose vanno anche peggio

Alla fine la crisi dei microchip e dei semiconduttori ha colpito in pieno anche Toyota. Fino ad ora il primo produttore di automobili al mondo aveva contenuto al minimo le ricadute della dilagante carenza di offerta dei preziosi componenti elettronici ormai indispensabili nelle auto odierne. Un’eccezione nel panorama globale dovuta a un'accorta gestione delle scorte nei magazzini e anche agli stretti rapporti con Renesas, il maggiore produttore di semiconduttori per l’automotive, anch’esso giapponese. 

 

Mentre le altre case automobilistiche sono andate forse un po’ troppo oltre il motto di Henry Ford degli anni ’20 del secolo scorso - "dock to factory floor", vale a dire "dalla banchina (di ricezione) direttamente sul pavimento del reparto di produzione" e del più noto e recente modello just-in-time proprio di Toyota, affidandosi a magazzini sempre più snelli - il colosso del Sol Levante faceva tesoro dell’esperienza del terremoto di Fukushima, dell’11 marzo 2011. Già allora, infatti, erano state interrotte le catene di approvvigionamento facendo emergere come i tempi di consegna dei semiconduttori erano troppo lunghi per far fronte a shock devastanti, come calamità naturali o qualche altro disastro raro, ma non impossibile, come una pandemia.

 

È stato perciò elaborato uno specifico piano di continuità aziendale che richiedeva ai fornitori di immagazzinare ovunque da due a sei mesi di scorte di microchip e semiconduttori, a seconda del tempo necessario dall'ordine alla consegna.

 

Finora il piano ha funzionato, ma il diffondersi di nuovi casi di Covid-19 nelle economie emergenti (in particolare in Vietnam), la mancanza di forniture stabili e costanti e il deterioramento delle catene logistiche, con prezzi altissimi dei noli marittimi per mancanza di navi e container, hanno portato tra la fine luglio e inizio agosto al fermo delle linee produttive di alcune fabbriche giapponesi, compreso lo stabilimento di Tahara, il più computerizzato e robotizzato al mondo, e all’annuncio di ieri: taglio del 40 per cento dei programmi produttivi previsti per il mese di settembre. Quattordici gli impianti interessati, 360.000 mila gli autoveicoli che non verranno prodotti, di cui 140 mila nelle fabbriche giapponesi e 220 mila nel resto del modo: Stati Uniti, Europa, Cina e altri paesi asiatici. 

 

Toyota, tuttavia, confida ancora di raggiungere gli obiettivi di vendita e produzione per il 2021: 9,3 milioni di veicoli prodotti nell’anno fiscale e 8,7 milioni le automobili vendute. 

 

Se in Giappone piangono nel resto del mondo le cose vanno anche peggio. I produttori statunitensi sono stati i più penalizzati: Ford costretta a sospendere la produzione dell’F-150, il pick up e il veicolo da sempre più venduto negli Usa, nello stabilimento di Kansas City per la carenza di semiconduttori provenienti dalle Malesia, dove l’epidemia corre. General Motors ha annunciato una o due settimane di fermo in sette impianti tra Usa e Messico, compreso lo stabilimento di vetture elettriche di Orion, nel Michigan, fino ad oggi privilegiato.

 

Male anche in Europa, con Volkswagen che nella grande fabbrica di Wolfsburg riprenderà le attività dopo la pausa estiva con un solo turno lavorativi, e con possibili ulteriori riduzioni (già previsto il rinvio della versione base dell’elettrica ID.3). Ferie prolungate in Audi con tagli della produzione a Ingolstadt e Neckarsulm, con un nuovo ricorso alla Kurzarbeit; la cassa integrazione adottata anche da Ford nello stabilimento di Colonia, dove la produzione della Fiesta sarà sospesa per almeno cinque giorni. Mentre Stellantis fermerà e rallenterà di nuovo le produzioni degli stabilimenti francesi di Rennes e Sochaux.

 

In assenza di non facili e non brevi rimedi strutturali i titoli automobilistici flettono in borsa, mentre è difficile (assurdo in verità) ipotizzare una diminuzione dei prezzi delle autovetture nuove: di questo passo c’è il rischio che il contagio raggiunga anche il mercato dell’usato, come già avvenuto negli Stati Uniti.

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