Come arrivare a “net zero”

Carlo Stagnaro e Chicco Testa

La transizione energetica non è un pranzo di gala. La cooperazione internazionale che serve, le tecnologie da trovare, il rischio della pressione sui prezzi. E la via maestra di far pagare le emissioni. Una roadmap

La transizione energetica non sarà un pranzo di gala. Il problema lo ha posto, da ultimo, l’Economist, che nel numero di questa settimana dedica ampio spazio ai problemi economici, finanziari, sociali e politici sottostanti alla trasformazione dei nostri sistemi energetici. Per dirne una, nell’ultimo anno il costo di un paniere di materiali necessari alla manifattura delle auto elettriche e delle reti di trasmissione della corrente è lievitato del 139 per cento. E anche gli stati ci mettono del loro, complicando la realizzazione delle opere con procedure autorizzative bizantine e, non di rado, nascondendo sotto le finalità “verdi” obiettivi di tutt’altro segno. Anche per questo il rapporto “Net Zero by 2050” dell’Agenzia internazionale dell’energia, i cui contenuti abbiamo commentato in un lungo articolo sul Foglio del 26 maggio, va preso terribilmente sul serio. Come ha scritto il direttore esecutivo dell’Agenzia, Fatih Birol, “la nostra roadmap è stata sviluppata… per consentire ai policy makers di comprendere le implicazioni delle loro azioni – e dell’inazione. La nostra roadmap mostra una strada verso net zero nel 2050. Non è l’unica strada”. 


Per questo ci ha stupito che, tra le tante reazioni che abbiamo raccolto, alcuni abbiano respinto il nostro pezzo sulla base del principio per cui qualsiasi ragionamento intorno alle difficoltà della transizione sarebbe la spia di un atteggiamento “negazionista”. Parola peraltro orribile in questo contesto. Secondo alcuni nostri critici bisognerebbe essere sordi e ciechi di fronte alle difficoltà e come martiri del bene assoluto assaltare le mura di Gerusalemme, cercando la bella morte. Questo atteggiamento non aiuta per niente a capire come andrebbe condotta la transizione e anzi corre il rischio di innescare due tipi di reazioni, entrambe avverse. Una è la ribellione dei penalizzati da molte delle azioni previste: è bastata la proposta di un leggero aumento dell’accisa sul gasolio in Francia per scatenare mesi di proteste, che hanno messo in seria difficoltà Macron, mentre la minaccia del cambiamento da operare nei sistemi energetici ha portato a Trump il consenso di ampie parti delle classi lavoratrici. Non è un mistero, per chi studia le implicazioni economiche del riscaldamento globale, che a fare le spese sia dei rischi climatici (nel lungo termine), sia di molte politiche per scongiurarli (nel breve) siano i ceti e le società più povere, che non hanno le risorse necessarie per affrontare il cambiamento. Oltre a questo bisognerebbe fare i conti con la frustrazione per la divaricazione che continua da 30 anni, dai primi vertici internazionali sulla questione, fra come vanno le cose e come dovrebbero andare. E cercare di capire perché. Ricordavamo, sul Foglio, che la quantità di gas serra immessi in atmosfera dal 1990 a oggi è stata pari a quella rilasciata in tutti i secoli precedenti, mentre il mondo intero chiacchierava di riscaldamento globale. E a parte periodi legati a crisi molto forti il trend di crescita non si interrompe. Eppure queste difficoltà non sono certamente nascoste dall’Aie che le richiama più volte. 


Facciamo altri esempi. Serve una forte e completa cooperazione internazionale perché nessuno si sfili da questo impegno e approfitti per ricavarsi posizioni di rendita. Visti i diversi punti di partenza delle economie mondiali e le differenti responsabilità nell’avere determinato e nel determinare la presente situazione, scommettere sul fatto che tutti si adeguino alle direttive dell’Aie ci sembra onestamente un azzardo. Suddividere le responsabilità è tutt’altro che banale. Se guardiamo alle emissioni storiche, dovremmo prendercela con Usa, Ue e Giappone, che col 17 per cento della popolazione mondiale hanno prodotto più della metà della CO2 accumulata in atmosfera. Se però guardiamo alle emissioni future, il quadro cambia: i tre paesi citati hanno rilasciato, nel 2018, 9,57 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio. La Cina, da sola, 9,75. Ma, su base pro capite, i ruoli si rovesciano ancora: mentre un cittadino italiano emette 5,6 tonnellate di CO2 in un anno, poco meno di un cinese con 7,1, il giapponese, il tedesco e l’americano ne emettono, rispettivamente, 8,7, 8,4 e 16,1. Ma il reddito pro capite è profondamente diverso: la capacità degli occidentali di farsi carico dei costi della transizione è decisamente maggiore, ma gran parte dei tagli presenti e soprattutto futuri dovranno sempre più concentrarsi nell’altra metà del mondo. 


La seconda difficoltà ricordata dall’Aie riguarda la disponibilità di tecnologie adeguate. Alcune di esse, le fonti rinnovabili, sono mature e disponibili, almeno per alcuni utilizzi, ma in altre, altrettanto necessarie, si può solo sperare. Fra di esse occupano un ruolo centrale i sistemi di accumulo per compensare l’intermittenza delle rinnovabili con una capacità almeno decuplicata rispetto agli attuali, le tecnologie di cattura della CO2 di scala completamente diversa (inclusa la cattura diretta dell’anidride carbonica dall’aria) e la capacità di produrre idrogeno senza emissioni (verde da rinnovabili o viola da nucleare) a costi 5/10 volte inferiori rispetto all’oggi. Per aver posto questi problemi, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è stato letteralmente linciato: ma come possiamo pensare di scalare una montagna se neghiamo l’esistenza dei pendii?


Attenzione. I nostri crociati sembrano non volere capire che non solo tutte queste tecnologie servono, compreso secondo l’Aie un nucleare rinnovato e a basso costo, ma che esse vanno applicate e rese disponibili non (solo) a Milano o a Londra, ma là dove vivono in immense megalopoli spesso prive di elettricità e di reti affidabili i quattro quinti dell’umanità. Un compito immane e per il quale quei paesi, pensiamo all’Africa, all’India e a molte altre parti dell’Asia, certamente non dispongono delle necessarie risorse umane e finanziarie. 
Il rischio di fare errori gravi esiste e va considerato. Pensiamo al petrolio. Come ha osservato Massimo Nicolazzi, ciò che ne guida il consumo è la domanda, più che l’offerta. La quale dopo il rallentamento conseguente all’esplosione del Covid è ripresa a crescere tornando intorno ai 100 milioni di barili/giorno e la stessa Aie ne prevede un ulteriore incremento. Vista l’impetuosa crescita economica post Covid, in primo luogo di Stati Uniti e Cina, è facile che la previsione si avveri. L’Aie, nel suo rapporto, consiglia di fermare qualsiasi ulteriore investimento aggiuntivo. Le compagnie occidentali messe sotto pressione da governi e investitori è possibile che siano costrette ad adeguarsi. La sentenza olandese contro Shell, accusata di non essersi impegnata abbastanza a tagliare le emissioni pur non avendo violato alcuna norma, ne è la manifestazione più recente e più clamorosa. Ma se il consumo non diminuisce, le conseguenze possono essere due: potrebbe crescere la quota di mercato delle imprese statali di paesi non democratici oppure potremmo trovarci in una situazione di penuria, con conseguente impatto sui prezzi. Tutti rischi da cui mette in guardia la stessa Aie nei suoi consueti report sul petrolio. Se così fosse avremmo semplicemente trasferito potere e denari in quantità gigantesche verso le élite politiche o le imprese statali di paesi come la Russia e la Cina. 


Se invece la domanda dovesse calare radicalmente, avremmo intere economie petrolifere (quali Algeria, Angola, Nigeria, Mozambico, Russia, Indonesia, Iraq, Iran, Venezuela) che dovrebbero fronteggiare cali di pil pro-capite fino e oltre il 50 per cento a secondo del loro livello di dipendenza dal petrolio. E’ una situazione accettabile? Quali sono le alternative se non un generico richiamo alla necessità di trovare nuove fonti di reddito? Ed è pensabile che la povertà energetica di buona parte del mondo, miliardi di persone prive di energia elettrica o che utilizzano biomasse povere per cucinare e riscaldarsi, sia risolta solo da un’introduzione massiccia di fonti rinnovabili? Ci sono casi in cui questo è possibile e auspicabile: fotovoltaico e batterie sono già competitivi nelle aree remote non raggiunte dalle reti. Ma in tante altre circostanze la situazione, come si usa dire, è più complessa. 


L’altro quadrante di rischio riguarda la pressione sui prezzi al consumo che può esercitarsi sui ceti più esposti anche in Occidente. Imposte per finanziare la transizione, dazi alle frontiere per impedire il dumping ambientale dall’Asia, incremento del costo della CO2, aumento dei prezzi del petrolio e più in generale prodotti più costosi. Tutti effetti regressivi che metteranno a dura prova la pazienza dei consumatori ed elettori, come ha sottolineato il Financial Times martedì scorso. Insomma: non solo il cambiamento climatico ha delle conseguenze, ma anche le politiche per contrastarlo le hanno. La Relazione annuale della Banca d’Italia, presentata il 31 maggio, contiene un interessante capitolo sui rischi climatici. Ebbene, quello che emerge è che il 27,7 per cento delle banche italiane sono esposte al rischio fisico del global warming, mentre il 50,6 per cento è esposto al rischio della transizione. Cioè alle conseguenze delle scelte politiche che oggi, anche a livello europeo e nazionale, vengono effettuate. Lo diciamo in modo esplicito a scanso di equivoci: questo non è un argomento contro la decarbonizzazione, ma un invito a prenderne sul serio le implicazioni e a tenere in debita considerazione sia i loro effetti, sia le possibili strade alternative per raggiungere l’obiettivo di net zero (che non è in discussione). 


D’altronde, i metodi per coniugare il raggiungimento della neutralità climatica con la salvaguardia dei ceti più fragili e la promozione della crescita economica e sociale esistono e sono noti. L’Aie non discute quali siano gli strumenti di policy migliori per arrivare al risultato; si limita a proporre un possibile scenario tecnologico compatibile con l’obiettivo di net zero. Ma il come (dal punto di vista della politica energetica ed economica) ha molto a che fare sia con l’individuazione del mix tecnologico ottimale, sia con le modalità per “scoprirlo” (attraverso una decisione dall’alto oppure dal basso), sia con l’accettabilità sociale della transizione. Tra gli economisti c’è un consenso pressoché unanime sul fatto che il carbon pricing, cioè far pagare le emissioni, è la via maestra per indurre cambi del comportamento, innovazione tecnologica e una allocazione delle risorse più rispettosa dell’ambiente. Per mitigarne l’impatto regressivo, è imperativo utilizzare il gettito delle imposte ambientali e degli altri balzelli (come i permessi di emissione) per ridurre le tasse sui redditi medio-bassi. In tal modo, si preserva il segnale di prezzo (consumate di meno e consumate meglio!) senza intaccare il potere d’acquisto complessivo dei salari. Ma ciò è incompatibile con la pretesa di usare quegli stessi soldi per elargire fondi alle tecnologie preferite con la postura dello Stato imprenditore. Se si vogliono proteggere le categorie più esposte, bisogna rinunciare alla politica industriale: come ha scritto Max Roser, il fondatore del popolare sito “Our World in Data”, “dare un prezzo alle emissioni è un’alternativa tanto efficace perché non presuppone di affidarsi a un pianificatore centrale onnisciente…  Al contrario incoraggia tutti a ridurre le emissioni, perché in tal modo risparmiano soldi, e quindi distribuisce gli sforzi tra tutti i produttori, gli investitori, i consumatori”.


Infine l’Europa deve seriamente interrogarsi sul suo destino industriale. Rendersi completamente dipendenti dalle importazioni per prodotti essenziali come l’acciaio e il cemento, oltre che per il petrolio, non depone a favore del suo futuro economico. E neanche di quello ambientale: le emissioni generate per produrre una tonnellata di acciaio in Europa sono molto inferiori a quelle necessarie a fabbricare e trasportare la stessa tonnellata dalla Cina. Per questo l’Europa si è da tempo dotata di misure per prevenire il cosiddetto “carbon leakage”, la delocalizzazione delle emissioni (oltre che del lavoro) causata da politiche miopi. 


Elencare queste difficoltà costituisce un atto di realismo o il rifiuto dell’idea di una possibile transizione? Per noi non solo è vera la prima ipotesi: ma addirittura porsi questi problemi è l’unico modo serio per affrontare l’intera questione. Bisognerebbe allora dotarsi di un approccio più realistico. Continuare ad aumentare i target di riduzione accorciando il tempo per raggiungerli forse serve al consenso politico (almeno finché la gente non ne percepisce il costo) ma non elimina le difficoltà e crea frustrazione per la distanza fra obbiettivi e realtà. In secondo luogo è evidente che nessun risultato potrà essere raggiunto se non con un gigantesco trasferimento di risorse da Ovest a Est e da Nord a Sud. Questo probabilmente intende l’Aie quando parla di cooperazione rafforzata. 


Infine, solo destinando ingenti risorse alla ricerca in grado di farci fare veri e propri salti tecnologici possiamo ridurre il tempo della transizione. Ciò richiede di accettare alcune scomode verità: non è vero che “basta volerlo” e il gioco è fatto. Non possiamo illuderci di avere la soluzione in tasca né che tutto sia a portata di mano. Servono risorse e servono conoscenze e tecnologie che in gran parte ancora non abbiamo. Essere coscienti del gap è il primo passo per colmarlo.

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