Un’immagine satellitare del 28 marzo scorso di Planet Labs che mostra la nave da carico MV Ever Given bloccata nel Canale di Suez (Planet Labs Inc. via Ap) 

il foglio del weekend

Mari tempestosi

Stefano Cingolani

Non solo Suez. Il commercio globale è da sempre fatto di stretti, canali e passaggi: dominarli significa gestire l’influenza globale

Narra Plutarco che il primo blocco del canale che allora collegava il Nilo al Mar Rosso fu colpa di Cleopatra, nel 30 avanti Cristo. Per sottrarre il tesoro al vincitore Ottaviano la regina fece caricare le sue navi e le mandò sulla sottile striscia d’acqua tracciata dal faraone Nekao sei secoli prima e trasformata in percorso navigabile dal persiano Dario dopo la sua conquista dell’Egitto. Fu un totale disastro, gran parte del percorso era ormai coperto di sabbia e in mano a tribù ribelli; fallì anche il tentativo di far scivolare i vascelli su un sistema di tronchi. Due millenni dopo, nel 1956, Gamal Abd el-Nasser, presi i pieni poteri al Cairo, nazionalizzò l’istmo espropriando la compagnia franco-inglese che lo controllava da quasi un secolo. Scoppiò un conflitto armato: l’Unione sovietica al fianco dell’Egitto contro Francia, Gran Bretagna e Israele. Gli Usa si schierarono con l’Urss imponendo agli europei di ritirarsi soffocando così gli ultimi vagiti coloniali. Nel 1967, durante la guerra dei sei giorni, gli israeliani occuparono il Sinai e la sponda orientale del canale che venne chiuso dagli egiziani: 15 navi da carico (la Yellow Fleet) rimasero intrappolate per otto anni.

Oggi il tappo, cioè il gigantesco cargo taiwanese Ever Given, è stato tolto in pochi giorni. La reazione a catena sul trasporto merci durerà a lungo e anche questo incidente contribuirà ad alimentare il fascino di Suez. Nasceranno altre leggende come quella dell’Aida. L’opera non fu composta per l’inaugurazione del canale. Giuseppe Verdi rifiutò sdegnosamente l’offerta di Ismail pascià chedivè d’Egitto in occasione dell’apertura solenne nel 1869. “Non lavoro su commissione”, rispose il compositore italiano. Accettò Johann Strauss figlio e scrisse una marcetta vagamente arabeggiante, la Egyptischer Marsch, che accompagnò le navi a bordo delle quali viaggiavano i potenti d’Europa: Francesco Giuseppe imperatore d’Austria e l’imperatrice Eugenia inviata da Napoleone III a rappresentare la Francia. Il viceré ottomano, ammiratore di Verdi, tornò alla carica e due anni dopo ebbe l’Aida con ben altra marcia trionfale. Il “cigno di Busseto” aveva respinto 80 mila franchi per l’inno, ne ottenne 150 mila per l’opera completa.

Altro che globalizzazione, il gioco degli scambi è antico quanto la civiltà e il mare è sempre stato lo scenario privilegiato, sulle sue acque navigano sogni e denaro, potenza e avventura, scienza e mito, ragione e superstizione. Ancor oggi gli equilibri del mondo si consumano tra le onde. Mediterraneo, Baltico, Mar della Cina, Golfo Persico: chi li controlla ha in tasca le chiavi del potere, in questi specchi d’acqua tra isole e continenti si svolge più che mai la grande partita di questo secolo. I protagonisti sono Stati Uniti, Russia, Cina, una Europa tremebonda e un modo islamico in subbuglio. Se vogliamo capire chi possiede le carte migliori dobbiamo seguire le flotte, quelle militari naturalmente, ma ancor prima i giganteschi bastimenti carichi fino all’inverosimile: sono loro a indicarci il tragitto del futuro. 

 

Il 90 per cento dei prodotti, dalle materie prime ai manufatti, viaggia su navi. Oggi un singolo vascello trasporta 100 volte più merci rispetto a un secolo fa. Sono oltre un milione le navi che solcano le autostrade del mare. Si è passati da mezzo miliardo di tonnellate trasportate negli anni ’50 a circa 11 miliardi nel 2017, distribuiti come segue: 40 per cento di prodotti sfusi, principalmente minerali e cereali, 32 per cento di idrocarburi e 27 per cento tutto il resto. I colossi dei mari parlano danese come Maersk, numero uno al mondo nel trasporto mercantile fondato a Copenaghen nel 1904 dal capitano Petere Maersk Moeller e parlano italiano come la Msc (Mediterranean Shipping Company) nata a Napoli nel 1970 dal capitano Gianluigi Aponte, che insegue al secondo posto. Poi c’è la francese CMA-CGM di Marsiglia, la China Ocean Shipping Company di Pechino e la taiwanese Evergreen Marine, quella della nave incagliata. Ci sono i greci tornati ai vertici soprattutto nel petrolio, c’è la Hapag-Lloyd di Amburgo. Si è ritagliato uno spazio di tutto rilievo un altro gruppo italiano che fa capo alla famiglia Grimaldi, numero uno al mondo nel trasporto di automobili. 

Un tempo si usava distinguere tra potenze di mare e di terra. Da una parte gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Olanda, la Spagna, l’Italia e, nel Novecento, il Giappone; dall’altra la Russia, la Germania, la Cina. Questa divisione era valida (forse) un secolo fa. Oggi, dei primi 15 maggiori porti commerciali ben 9 sono cinesi e proprio Pechino, che storicamente aveva una flotta adatta solo a navigare nei mari di casa, ha cambiato stazza: i suoi cantieri navali sfornano mega cargo ad alta tecnologia incalzando la Corea del Sud diventata numero uno al mondo. Ma la svolta più importante è il potenziamento della Marina militare. La Cina è ancora lontanissima non solo dagli Stati Uniti, ma anche dalla Russia. Lo scorso anno ha varato la sua terza portaerei, la Shandong, anch’essa un riadattamento della Kuznetsov (progetto sovietico degli anni ’80) e continua a investire per ammodernare i navigli con gli apparati elettronici decisivi nelle guerre moderne. Per il Dragone  è essenziale controllare i colli di bottiglia là dove le navi non possono fare a meno di transitare: Malacca, Hormutz e Suez sono i tre passaggi chiave per la potenza commerciale (e militare) cinese. 

Lo stretto di Malacca che divide Indonesia e Malesia ha come perno Singapore, la città stato sotto controllo britannico dal 1819 quando arrivò Thomas Raffles; nel 1965 s’è separata anche dalla Malesia e ha conquistato la completa indipendenza. Snodo multiculturale e cosmopolita, fa del tutto per mantenere il suo legame con l’Occidente e nello stesso tempo uno stretto rapporto con Pechino (cinese è da sempre la sua classe dirigente). Un equilibrismo non facile, se si rompesse, le conseguenze sarebbero altrettanto pesanti che una eventuale invasione di Taiwan. Hormuz collega la Cina al Golfo Persico, se ne contendono il controllo l’Arabia Saudita che resta sotto l’ombrello americano e l’Iran che ha raggiunto un accordo di cooperazione strategica per 25 anni con Pechino. Suez, naturalmente, è il legame con il Mediterraneo cioè con l’Europa, il Medio oriente e la Turchia diventata “corridoio di mezzo” nella nuova via della seta. L’ingresso dall’Oceano Indiano al Mar Rosso attraversa lo stretto di Bab el-Mandeb, tra Gibuti e lo Yemen. Largo solo 30 chilometri è teatro di tensioni a causa degli scontri tra i ribelli Huthi, sostenuti Teheran, e il governo yemenita appoggiato da Riad e dai separatisti del sud. Sull’altra sponda c’è il corno d’Africa con la Somalia paese senza stato, in mano ai signori della guerra e rifugio dei pirati, come i Caraibi e l’isola di Tortuga tra il XVII e il XVII secolo quando Spagna, Inghilterra e Francia si contendevano l’Oceano Atlantico. Cerca di approfittare di questa instabilità il piccolo stato africano di Gibuti che ha offerto a più paesi di insediare basi militari: America, Francia, Italia (con una base di supporto), Cina e Giappone non si sono fatti sfuggire l’occasione.

 

E Panama? Resta fondamentale per il traffico tra l’Atlantico e il Pacifico. Il transito di beni da e per gli Stati Uniti rappresenta ben il 60 per cento del totale attraverso il Canale, e la tutela a stelle e strisce non è mai finita. Nel 1901 venne approvato il Trattato di neutralità: prevedeva che gli Stati Uniti avessero il diritto permanente di difendere il canale da ogni minaccia che potesse interferire con la sua accessibilità, continuata e neutrale, alle navi di tutte le nazioni. Due anni dopo il presidente Teddy Roosevelt ottenne l’affitto permanente dal governo di Panama repubblica indipendente sotto la tutela a stelle e strisce. Dal 31 dicembre 1999 la gestione è passata alla Panama Canal Authority che ha deciso di allargare il passaggio dell’istmo. 

Alle rotte del sud si aggiunge ormai stabilmente quella dell’estremo nord. Attraversare il Circolo polare accorcia di un terzo il percorso tra Shanghai e Rotterdam, i due punti estremi del grande gioco dello scambio, ed è fondamentale per la Russia. La navigazione è difficile, passa per acque poco profonde, tuttavia la tensione per il controllo dell’Artico tra i paesi “polari” (Usa, Russia, Canada, Danimarca, Norvegia) non riguarda solo la ricerca di nuove risorse minerarie (soprattutto petrolio e gas), ma anche il controllo delle rotte marittime. La Russia ha presentato per prima alla Commissione per i Limiti della Piattaforma Continentale una richiesta di ampliare la propria Zona economica esclusiva, in base all’argomento che la dorsale appartenga alla propria piattaforma continentale. Cent’anni fa il passaggio a Nord Ovest era per gli americani un luogo simbolico da quando nel 1850 la via marina venne aperta dall’irlandese Robert McClure. Oggi il passaggio a Nord Est ha per i russi la stessa pregnanza.

Il Mediterraneo è rimasto per secoli in secondo piano. Le potenze cristiane avevano debellato l’insidia saracena e poi ottomana che durava da otto secoli (la battaglia di Lepanto nel 1571 assume un valore di spartiacque) e aveva dissanguato le repubbliche marinare italiane, persino Genova e Venezia. La Spagna nel frattempo si era lanciata nella corsa all’oro e all’argento delle Americhe in competizione con Francia e Inghilterra. La Serenissima non aveva più la forza per armare una flotta oceanica. Le vele e i cannoni, come scrisse Carlo Maria Cipolla, che conquistarono l’egemonia sull’Atlantico e poi sul Pacifico avevano dietro monarchie assolute e mondialiste. Questa marginalità è durata ancora per tutto il Novecento, interrotta solo dalle guerre napoleoniche o dal secondo conflitto mondiale; la globalizzazione ha cambiato i termini di scambio e le regole del gioco. La ricca Europa è diventato lo sbocco fondamentale del capital-comunismo di Pechino, un mercato meno ostile sul piano politico, debole militarmente e più aperto al libero commercio di quello americano. Shanghai, Singapore, l’Italia e la Spagna attraverso Suez, Gibilterra e le colonne d’Ercole, infine Rotterdam: ecco il percorso dei cargo che arrivano dall’Estremo oriente. Senza dimenticare approdi importanti come il Pireo, il porto di Atene rivitalizzato dai cinesi che ne hanno preso il controllo da quando la Grecia fece fallimento nel 2010. 

 

Il revival del Mediterraneo non è stato sfruttato dall’Italia, non a sufficienza. E’ vero, i porti sono stati potenziati e ristrutturati per scopi sia mercantili sia turistici, si pensi a Civitavecchia un tempo piccolo terminale dei traffici con la Sardegna e oggi uno dei maggiori scali italiani. Anche Trieste è stato ampliato e fa gola ai cinesi, mentre Genova soffre la debolezza della rete infrastrutturale alle sue spalle. Tuttavia non esiste un vero sistema portuale e soprattutto manca la lucidità per capire il potenziale che possono avere gli approdi meridionali come Gioia Tauro o Augusta. Senza autostrade e senza ponti (si pensi allo Stretto di Messina) non si va da nessuna parte. Un ruolo nuovo dell’Italia nel Mediterraneo non è campato in aria nemmeno sul piano militare. Le capacità operative non sono inferiori a quelle francesi se si esclude naturalmente la force de frappe nucleare. Nel momento in cui nella Ue riprenderà il negoziato sulla sicurezza e su un esercito europeo sarà gioco forza pensare a una sorta di divisione geopolitica del lavoro con la Germania a guardia dell’est e l’Italia a guardia del fianco sud insieme alla Francia. Roma e Parigi dovranno superare le reciproche divergenze, non sarà facile rompere la crosta di sfiducia e superare le ruggini del passato. 

La Brexit ha separato l’altra potenza atomica europea, cioè il Regno Unito, spinto sempre più nella sua dimensione atlantica. Tuttavia non si può certo snobbare Londra. Nella nostra rassegna abbiamo lasciato alla fine il canale per antonomasia, The Channel come lo chiamano gli inglesi, la Manica per noi continentali. Eppure proprio da lì passano le navi dirette a Rotterdam, quindi resta essenziale tenere aperte le rotte e sotto stretto controllo occidentale. Il Regno Unito non potrà mai staccarsi davvero dal suo destino europeo, la storia smentisce i sogni strampalati dei Brexiters e anche la propaganda sul nuovo Commonwealth o sulla Global Britannia. Senza dimenticare che la Gran Bretagna continua a esercitare un ruolo importante nella Nato. La difesa comune non può fare a meno degli inglesi e finirà per agganciarli in un modo o nell’altro. In attesa che il mare, questo immenso campo di battaglia, diventi lo scenario di un altro gioco nel quale le grandi potenze collaborino e ogni nave possa salpare di porto in porto verso il proprio futuro, possiamo intanto tenere aperti gli stretti, i canali, i ponti, tutto ciò che consente all’uomo di scambiare con gli altri uomini merci, idee, valori. Non c’è fortezza, piramide o tomba che possa fermare “l’alme erranti”, per loro “si schiude il ciel e volano al raggio dell’eterno dì”, come cantano Aida e Radames.

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