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Il futuro di Ilva, tra il “sogno” a idrogeno e l’incognita magistratura

Annarita Digiorgio

Il grande 'what if' di un governo Draghi iniziato qualche mese fa: la storia dell'acciaieria italiana avrebbe potuto essere un'altra, ora invece tocca gestire un progetto tutto da costruire ma già firmato

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Chissà cosa sarebbe accaduto a Ilva se il governo Conte fosse caduto l’anno scorso, e Mario Draghi fosse arrivato prima. Chissà se sarebbe stata nazionalizzata, come hanno deciso Pd e M5s, senza un vero dibattito sulla statalizzazione della più importante fabbrica manifatturiera d’Italia. L’alternativa c’era ed è quella portata avanti dal 2012, quando per otto anni lo sforzo di tutti i governi è stato sempre quello di risanare l’azienda finanziariamente e ambientalmente per portarla sul mercato competitiva e attrattiva per una vendita che fosse remunerativa per lo stato, strategica per l’industria italiana, responsabile verso il territorio, indispensabile per l’occupazione, autonoma per l’economia e innovativa per lo sviluppo.

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Chissà cosa sarebbe accaduto a Ilva se il governo Conte fosse caduto l’anno scorso, e Mario Draghi fosse arrivato prima. Chissà se sarebbe stata nazionalizzata, come hanno deciso Pd e M5s, senza un vero dibattito sulla statalizzazione della più importante fabbrica manifatturiera d’Italia. L’alternativa c’era ed è quella portata avanti dal 2012, quando per otto anni lo sforzo di tutti i governi è stato sempre quello di risanare l’azienda finanziariamente e ambientalmente per portarla sul mercato competitiva e attrattiva per una vendita che fosse remunerativa per lo stato, strategica per l’industria italiana, responsabile verso il territorio, indispensabile per l’occupazione, autonoma per l’economia e innovativa per lo sviluppo.

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Per arrivare a renderla tale lo stato l’ha mantenuta per 6 anni con cifre di cui non conosce l’entità. A seguito di una gara europea nel 2016 fu trovato l’acquirente leader mondiale nel settore. Poi lo scudo penale tolto, il contratto modificato unilateralmente, la “causa del secolo” contro gli i Mittal e infine la nazionalizzazione, attraverso Invitalia, per non farli scappare e diventare soci. Sarebbe bastato che Draghi fosse arrivato un paio di mesi prima, e avrebbe forse potuto cambiarne le sorti, anziché ritrovarsi oggi come primo dossier sul tavolo un progetto tutto da costruire ma già firmato. Un contratto ancora segreto, ma che da note ministeriali prevede l’ingresso di Invitalia nel capitale sociale di AmInvestCo attraverso un investimento di 400 milioni nel 2021, e 680 nel 2022. A questo si aggiungono 1,8 miliardi per gli investimenti, i fondi per gli stipendi e la cassa in deroga, il fitto che non verrà riscosso, e i debiti nel frattempo acquisiti verso i fornitori.

 

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Il tutto con un grande punto interrogativo: la magistratura. E non per modo di dire. Il contratto prevede delle sospensive: la modifica del piano ambientale esistente per tenere conto del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri; e l’assenza di misure restrittive nell’ambito dei procedimenti penali in cui Ilva è imputata. Insomma dovesse esserci oggi il closing, la vendita potrebbe non concludersi: tutta l’area a caldo è sotto sequestro dal 2012, e il pm ne ha appena chiesto la completa confisca.

 

Riuscirà la magistratura a sbloccarla entro maggio 2022? Gli indizi non depongono a favore. E se non si attivano i togati, ci sono i politici locali. Una tegola pende al Consiglio di stato su un’ordinanza di chiusura del sindaco di Taranto a seguito di eventi odorigeni, che le stesse autorità ministeriali di controllo ambientale non hanno connesso al siderurgico. Dodici decreti che  hanno imposto la continuità produttiva di un impianto di interesse strategico nazionale  non avevano considerato la possibilità di ordinanze sindacali contingibili e urgenti, di cui a distanza di oltre un anno si è ormai persa sia contingibilità che urgenza. Dall’altra parte il presidente della regione Puglia Michele Emiliano che ha più volte ribadito di volerne la chiusura. Capito che la sua è una battaglia persa, ha bisogno di raccontare che ha vinto. Quindi tira fuori, insieme al Pd, le paroline magiche: decarbonizzazione, idrogeno e acciaio verde.

 

Il Recovery plan non può mettere un euro su Ilva. Ma può farlo su altri impianti. Così il governo Conte si era inventato una produzione parallela, attraverso nuove filiere, fuori dal perimetro societario e fisico Ilva, per realizzare Dri: un semilavorato col minerale di ferro che alimenta i forni elettrici. L’idea è creare un impianto di Dri a Taranto e un forno elettrico. Parallelamente si riaccende l’altoforno 5, vero core buisness dell’acciaieria. Il giorno dopo la fiducia a Draghi, le aziende Leonardo, Saipem e Danieli hanno firmato la società per realizzare il Dri. Nel frattempo Eni, che ha a Taranto una grande raffineria e stocca il petrolio che arriva dalla Basilicata con Tempa Rossa, ha firmato un accordo con Tecnimont per produrre idrogeno. “Il polo dell’idrogeno: il sogno della comunità di Taranto”, ha detto ieri Emiliano dopo l’incontro con il ministro Giancarlo Giorgetti. Resta la grande incognita. Che fare con Ilva, con l’acciaio italiano, e con 10 mila lavoratori.

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