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Siamo tutti Alitalia

Stefano Cingolani

Ilva, Autostrade, Italo, gli aeroporti, Mps. Gli oneri che diventano debito, e il contribuente paga

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Più debito; non facciamo i filistei, à la guerre comme à la guerre, non ci sono alternative. Altri 40 miliardi di euro verranno distribuiti allargando il deficit pubblico, quindi il debito aumenterà: a fine anno dovrebbe arrivare al 155,7 per cento del prodotto lordo. Ma le percentuali possono essere fuorvianti. L’ultimo dato assoluto risale al 20 settembre: il debito ammontava a 2.582 miliardi euro, il 31 gennaio era di 2.443 miliardi, quindi la pandemia ha aggiunto 139 miliardi di euro che a fine anno saranno 200. Questo è scritto nero su bianco, poi c’è il debito occulto quello che nessuno vuol vedere, ma sta lì, lo si sente ticchettare come il timer di una bomba. Tic-tac, tic-tac, speriamo che non scoppi subito, è una corsa contro il tempo.

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Più debito; non facciamo i filistei, à la guerre comme à la guerre, non ci sono alternative. Altri 40 miliardi di euro verranno distribuiti allargando il deficit pubblico, quindi il debito aumenterà: a fine anno dovrebbe arrivare al 155,7 per cento del prodotto lordo. Ma le percentuali possono essere fuorvianti. L’ultimo dato assoluto risale al 20 settembre: il debito ammontava a 2.582 miliardi euro, il 31 gennaio era di 2.443 miliardi, quindi la pandemia ha aggiunto 139 miliardi di euro che a fine anno saranno 200. Questo è scritto nero su bianco, poi c’è il debito occulto quello che nessuno vuol vedere, ma sta lì, lo si sente ticchettare come il timer di una bomba. Tic-tac, tic-tac, speriamo che non scoppi subito, è una corsa contro il tempo.

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Questo debito a orologeria s’annida nell’industria come nei servizi, nelle piccole imprese che non ce la fanno e forse ancor più nei grandi gruppi. Ilva, Autostrade, Italo, gli aeroporti, il Monte dei Paschi di Siena: più tempo passa più si diffonde il paradigma Alitalia. Sì, proprio lei, la madre di tutti i fallimentari salvataggi. Per tirare avanti adesso le servono gli altri 150 milioni di euro a fondo perduto stanziati dal decreto rilancio. Il commissario straordinario Giuseppe Leogrande ha lanciato un grido d’allarme che da Roma deve arrivare a Bruxelles, agli orecchi di Margrethe Vestager, la Moira europea che tesse il filo della concorrenza e decide il destino di molte grandi aziende a cominciare proprio dalla compagnia di bandiera che i governi italiani di ogni latitudine e colore hanno disperatamente cercato di tenere in piedi, investendo fior di miliardi.

 

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La cifra è oggetto di dibattito fra gli esperti, secondo le stime di Mediobanca i costi diretti a carico dei contribuenti ammontano a 7,6 miliardi di euro dal 1974 quando è arrivata prima delle numerose crisi al 2014 quando la vecchia società si scioglie, poi c’è tutto il resto. Le Poste Italiane hanno staccato un assegno di 75 milioni di euro per un primo salvataggio e altri 75 milioni per l’operazione con Etihad. Non si può prescindere dal prestito ponte da 900 milioni di euro concesso nel 2017 dal governo Gentiloni, né dai 145 milioni di interessi non rimborsati. Il Conte bis a fine 2019 stanzia 400 milioni di euro più 20 di interessi, ma il piatto forte viene servito quest’anno con i 3 miliardi destinati alla nascita della newco e i 350 milioni di residuo del decreto cura Italia. Vanno anche aggiunti 100 milioni di oneri per la cassa integrazione durante i tre anni di commissariamento. E arriviamo a circa 12 miliardi e 615 milioni di euro, secondo i calcoli del Sole 24 Ore, grosso modo una tassa di 210 euro per ogni cittadino italiano. Ne vale la pena? Così fan tutte si ripete fino alla noia, Berlino ha rifinanziato la Lufthansa con sei miliardi di euro, Parigi ha speso 7 miliardi per Air France e così via. La commissione europea ha dato loro il via libera, dunque perché scandalizzarsi?

 

Gli aiuti di stato sono inevitabili, anzi indispensabili per tamponare i drammatici effetti del corona virus; è inutile accanirsi sulla povera Alitalia. Il fatto è che la compagnia italiana era in piena emergenza, era praticamente fallita prima che il Sars-Cov-2 si spandesse per le strade di Wuhan. Sentiamo che cosa ha da dire una fonte ufficiosa di Bruxelles: “La commissione è pronta a discutere qualsiasi misura per affrontare la situazione di Alitalia. Ma il via libera ai sostegni pubblici vale solo per le società che non erano in difficoltà alla fine del 2019. La ricapitalizzazione da parte del governo, in altri termini, dovrebbe consentire di attraversare questa crisi per tornare alla situazione precedente. Se una compagnia non era in salute prima, allora il problema è diverso e bisogna usare altri strumenti”. Per Alitalia, in sostanza, la ri-nazionalizzazione viola le regole. E se fosse “temporanea”? Già, come per il Monte dei Paschi di Siena nazionalizzato “temporaneamente” da Pier Carlo Padoan e Paolo Gentiloni?

 

La banca senese, stando alla decisione chiara del governo giallo-rosso votata in Parlamento e firmata da Giuseppe Conte, deve tornare sul mercato entro due anni. Ma c’è un bel problemone: nessuno è in grado di prevedere se potrà tirare avanti fino al 2022. Il governo ha già speso 5,4 miliardi di euro per salvarla (i privati, azionisti e obbligazionisti si sono caricati di 4,3 miliardi) e ha autorizzato anche la vendita di prestiti marci per 8,1 miliardi di euro alla Amco, la società che gestisce i crediti deteriorati posseduta dal ministero dell’economia. Tutto in famiglia, insomma. Adesso emerge il serio rischio che occorra un’altra consistente fleboclisi finanziaria, si parla di due miliardi di euro pro quota, quindi il 68 per cento a carico dell’azionista Tesoro. Roberto Gualtieri sta tentando in ogni modo di trovare una diversa via d’uscita e va in giro con la lanterna, novello Diogene, alla ricerca di un buon partito con il quale accasare il Monte.

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Lo sposo ideale per il ministro dell’Economia sarebbe Unicredit, seconda banca italiana, considerata sistemica dalla Bce, quindi sottoposta a una osservazione tutta particolare. Guai a indebolire il patrimonio, come accadrebbe nel caso delle nozze con Mps. Torniamo così alla casella di partenza: anche in questo caso il Tesoro dovrebbe assicurare una dote certa e consistente. L’amministratore delegato di Unicredit, Jean Pierre Mustier che, forgiato dai parà francesi, ha imparato a lanciarsi senza troppi indugi, è apertamente contrario. Padoan è appena diventato presidente, e i maligni dicono che farà il messaggero d’amore. Come dono spontaneo, il governo ha inserito nella legge di bilancio per il 2021 una norma per favorire le fusioni che sembra ritagliata proprio per Mps. In sostanza prevede che le Dta, ovvero i crediti sulle imposte differite, possano essere trasformate e compensate dall’acquirente. Il Montepaschi secondo le stime avrebbe Dta fuori bilancio per 3,7 miliardi di euro, sarebbe un bonus fiscale di tutto rispetto. C’è poi la spinosa questione degli oneri per le azioni di responsabilità dopo la condanna di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. Nessuno sposo novello avrebbe intenzione di accollarseli, ma anche a questi penserebbe il Tesoro creando una società controllata. Non sono noccioline, secondo alcune ipotesi si tratta di far fronte a una decina di miliardi di euro. Fermi tutti: se vendere Mps è tanto costoso, perché non tenersela? E’ la velenosa domanda che viene dai pentastellati e trova il sostegno anche del blocco di potere locale che da Siena arriva fino a Firenze. E’ stato il presidente della regione, il piddino Eugenio Giani, a spezzare la lancia a favore di un rinvio, intanto per altri due anni, cioè fino al 2024, poi chissà, forse per sempre. Il catalogo è questo e non finisce qui. Gli aeroporti non reggono più, sono allo stremo. Fabrizio Palenzona, che non è un peso leggero da qualsiasi punto di vista lo si consideri (banchiere di primo piano dalla Cassa di risparmio di Torino a Unicredit, finanziere a lungo presidente di Gemina, capo degli autotrasportatori, poi delle società autostradali e ora dell’Assaeroporti), si è fatto sentire con una intervista alla Repubblica. Chiede in sostanza un miliardo e mezzo di euro a nome dei gestori (il più grande, Aeroporti di Roma, fa capo ad Atlantia della famiglia Benetton) e dei lavoratori: 150 mila occupati che salgono a 880 mila con l’indotto.

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E i treni? Attenti, anche loro sono al collasso. Le perdite delle Ferrovie dello Stato se le accolla il contribuente, ma Italo? “Siamo al lumicino”, si lamenta Flavio Cattaneo, vicepresidente della società, sempre dalle colonne della Repubblica. Le vendite sono crollate del 94,7 per cento, ci sono otto servizi al giorno contro i 120 del periodo pre-pandemia. Il bilancio chiuderà con una perdita di mezzo miliardo di euro. Anche lui chiede aiuto, anzi per meglio dire una mano pubblica, ben visibile e ben fornita. Il manager che ha guidato la Rai e Terna rivolge una richiesta al governo: facciamo come in Francia e in Germania dove i sostegni statali vengono erogati in percentuale alla riduzione del fatturato. Bella idea, così Italo prenderebbe più di Trenitalia. Tra gli oneri più o meno impropri destinati a trasformarsi in debito, bisogna calcolare anche la partita Autostrade per l’Italia. L’ex ministro grillino Danilo Toninelli rilancia: revocare la concessione, ormai non resta altro da fare. In una intervista a Radio 1 è arrivato a dire che il M5s ha cambiato idea su molte cose, come dimostrano gli stati generali, ma resta fermo, adamantino, incorruttibile, su una questione di fondo: togliere le autostrade ai Benetton. Sappiamo che ha il dente avvelenato e ha ingoiato amaro quando Giuseppe Conte ha aperto la strada a un compromesso. Tuttavia non ha torto nel sottolineare che la soluzione escogitata è finita nel pantano. La Cassa depositi e prestiti stima che la quota di Atlantia (l’88 per cento di Aspi) valga attorno a 9 miliardi. Troppo poco dice l’attuale azionista. Non solo, la Cdp vuole una manleva onerosa, cioè non deve essere considerata responsabile di qualsiasi guaio per i prossimi quattro anni. Entro fine mese si dovrà compiere una scelta, intanto risuonano i tamburi di guerra a cinque stelle. La revoca, ammesso che arrivi in porto entro il decennio, è un azzardo economico perché si va da 7 fino a 25 miliardi di euro. Ma non è la prima volta che s’imbocca una strada senza sbocco. Abbiamo lasciato per ultima la telenovela dell’Ilva perché è difficile stimare quanto ci costerà ancora. Come minimo un altro miliardo, secondo Domenico Arcuri direttamente coinvolto in quanto amministratore delegato di Invitalia, la società che fa capo al Tesoro destinata a intervenire “e non come azionista di minoranza” nel centro siderurgico di Taranto destinato, a quanto sembra, a un drastico ridimensionamento, come hanno voluto i cinque stelle e il presidente della regione Puglia Emiliano. L’accordo è in via di conclusione e dalle parole di Arcuri si capisce che lo stato, in quanto azionista di riferimento, deve essere pronto ad accollarsi costi di ristrutturazione e ulteriori oneri finanziari che s’aggiungono al pagamento della cassa integrazione straordinaria. La bandiera della ri-nazionalizzazione verrà spiegata sulla città dei due mari, la spartana Taras, pronta a ripetere le gesta di Leonida contro l’invasione dei siderurgici globali, indiani, cinesi, algerini persino. Tiriamo un po’ le somme. Per l’Alitalia altri tre miliardi, un miliardo per gli aeroporti, tra due e tre per Mps, uno per l’Ilva, per i treni chissà, la revoca di Autostrade peserà a lungo sui conti del Tesoro, insomma il debito a orologeria ticchetta a tutto spiano, mentre si gonfia il grande debito palese, quello che viene autorizzato dal parlamento. Tra le spese in disavanzo destinate a crescere con la legge di bilancio, c’è il rifinanziamento di una delle misure peggio riuscite del governo giallo-verde: il reddito di cittadinanza; si tratta di altri 4 miliardi che s’aggiungono ai 7,3 del 2021 e 7,2 del 2022. Così come è stata concepito e poi gestito è la quintessenza dell’assistenzialismo che ha legittimato le aspirazioni di quello che si può chiamare “il popolo del divano”. Galeotta è la pandemia naturalmente, ma attenzione: il corona virus è solo l’ultima drammatica occasione per giustificare lo sbandamento culturale prima ancora che politico-sociale. Decrescita felice, taglio del legame tra reddito e lavoro, celebrazione del tempo libero, il diritto all’aperitivo, il culto della movida, i rituali ludici, i social media come lo specchio dell’io ipertorfico, insomma sono balzati in superficie tutti i vezi e i vizi della società narcisistica, la quale, quasi per inerzia, cade nei tentacoli del Leviatano. O ci pensano i genitori o ci pensa il grande genitore, dalla culla alla tomba. E solo i parrucconi si chiedono chi paga. Lo stato fa debito, la Banca centrale lo compra e stampa moneta. Todos caballeros finché il torchio continua a girare. Eppure anche la cornucopia ha un limite. Non solo. Siccome nessun paese è una monade senza porte e senza finestre, sorge il dubbio sulla sostenibilità che non riguarda solo il rapporto tra l’industria e l’ambiente, ma anche quello tra chi risparmia e chi investe i propri quattrini. L’economista Filippo Cavazzuti allievo di Beniamino Andreatta, professore di Economia dei mercati finanziari a Bologna, senatore per la sinistra indipendente e già sottosegretario al Tesoro, spiega che “non è sufficiente considerare il rapporto debito-Pil per ragionare sulla sostenibilità della nostra esposizione finanziaria: contano anche il costo del debito e l’attenzione alla sua composizione e alla sua distribuzione, geografica e non. Ogni passo falso in politica economica può costare caro.

 

Nel medio e lungo periodo il rapporto da affiancare al debito sul Pil, è quello che la buona letteratura economica segnala da tempo: ovvero il costo medio del debito pubblico rapportato al tasso di crescita monetaria del prodotto interno lordo”. Se sale oltre quota uno, i problemi si fanno seri, cioè vuol dire che un paese (ma vale anche per qualsiasi attività economica) non è in grado da produrre abbastanza denaro non per rimborsare il debito, ma per pagare gli interessi. Calcola Cavazzuti: “Questo rapporto era dello 0,88 nel 2017, dell’1,07 nel 201, segno della turbolenza politica alimentata anche dalla corsa indiscriminata a mettere le mani sui fondi attesi dalla Unione europea, ed è sceso l’anno scorso a 0,93. Rapporto che potrebbe di nuovo superare l’unità qualora gli annunci della politica economica sull’utilizzo dei nuovi debiti non fossero in conseguenza delle riforme richieste dalla Ue”. Nella cantina di Auerbach, narra Goethe nel “Faust”, c’è champagne, c’è tocai, c’è riesling renano, c’è borgogna, c’è vino per tutti e per ogni gusto. Mefistofele invita al banchetto: prendete, bevete, divertitevi. Poi il maligno scompare portando con sé il dotto che vuole l’immoralità e lasciando gli avventori ebbri e beffati. Letteratura, certo, ma c’è davvero tanta distanza tra arte e vita?

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