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La cortina di bambù

Stefano Cingolani

Con la pandemia la Cina alza una nuova muraglia e punta su mercato interno, privatizzazioni, tech e sicurezza. Mentre l’occidente è in affanno

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Sta calando sul mondo intero una nuova cortina di ferro (o di bambù se vogliamo, robusto come il ferro e più flessibile). La innalzano gli eserciti degli affari spezzando e duplicando la catena del valore. Il concetto sembra astruso, ma solo in apparenza. Nei trent’anni della globalizzazione (la terza in verità dopo quella a cavallo tra ‘800 e ‘900, e i “trenta gloriosi” come li chiamano i francesi, dal 1946 fino alla crisi petrolifera degli anni ’70) la produzione di merci a mezzo di merci è uscita dai confini nazionali ed è diventata davvero mondiale. Paradossalmente è successo anche grazie a un paese che si definisce comunista pur avendo applicato spesso in modo spregiudicato le leggi del capitalismo: la Cina. Ebbene, gli Stati Uniti vogliono non solo rompere gli anelli che portano a Pechino, ma creare una catena parallela che arrivi a Washington e possa essere addirittura manovrata dalla Casa Bianca. Questa strategia si sta definendo ormai con una certa chiarezza, è più sofisticata della “guerra dei dazi” scatenata da Trump ed è destinata a sopravvivere a The Donald se il 3 novembre verrà sconfitto. La pandemia ha esasperato il conflitto anche perché il Covid-19 ha silurato gli Stati Uniti e mandato a picco i paesi europei, mentre la Cina galleggia ancora. La terribile ironia della storia è che a pagare il prezzo più alto non sarà tanto l’Impero di Mezzo, dove tutto è cominciato, ma l’Europa. E i maggiori guadagni non andranno all’America, bensì all’Asia, alle subpotenze che nuotano attorno alla Cina come i pesci pilota attorno alle balene. Taiwan, Corea del sud, Vietnam, Cambogia, Indonesia, Thailandia, economie già ricche o in rapida ascesa, che hanno un rapporto ambivalente o conflittuale con il regime comunista, paesi sempre più integrati e protagonisti del modello asiatico che Pechino intende mantenere e rafforzare con una diversa formula visibile già nella pandemia: più mercato interno, più privatizzazioni, più tecnologia, più sicurezza militare.

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Sta calando sul mondo intero una nuova cortina di ferro (o di bambù se vogliamo, robusto come il ferro e più flessibile). La innalzano gli eserciti degli affari spezzando e duplicando la catena del valore. Il concetto sembra astruso, ma solo in apparenza. Nei trent’anni della globalizzazione (la terza in verità dopo quella a cavallo tra ‘800 e ‘900, e i “trenta gloriosi” come li chiamano i francesi, dal 1946 fino alla crisi petrolifera degli anni ’70) la produzione di merci a mezzo di merci è uscita dai confini nazionali ed è diventata davvero mondiale. Paradossalmente è successo anche grazie a un paese che si definisce comunista pur avendo applicato spesso in modo spregiudicato le leggi del capitalismo: la Cina. Ebbene, gli Stati Uniti vogliono non solo rompere gli anelli che portano a Pechino, ma creare una catena parallela che arrivi a Washington e possa essere addirittura manovrata dalla Casa Bianca. Questa strategia si sta definendo ormai con una certa chiarezza, è più sofisticata della “guerra dei dazi” scatenata da Trump ed è destinata a sopravvivere a The Donald se il 3 novembre verrà sconfitto. La pandemia ha esasperato il conflitto anche perché il Covid-19 ha silurato gli Stati Uniti e mandato a picco i paesi europei, mentre la Cina galleggia ancora. La terribile ironia della storia è che a pagare il prezzo più alto non sarà tanto l’Impero di Mezzo, dove tutto è cominciato, ma l’Europa. E i maggiori guadagni non andranno all’America, bensì all’Asia, alle subpotenze che nuotano attorno alla Cina come i pesci pilota attorno alle balene. Taiwan, Corea del sud, Vietnam, Cambogia, Indonesia, Thailandia, economie già ricche o in rapida ascesa, che hanno un rapporto ambivalente o conflittuale con il regime comunista, paesi sempre più integrati e protagonisti del modello asiatico che Pechino intende mantenere e rafforzare con una diversa formula visibile già nella pandemia: più mercato interno, più privatizzazioni, più tecnologia, più sicurezza militare.

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Il segretario di stato americano Mike Pompeo è stato esplicito: “Se non agiamo ora il partito comunista finirà per erodere la nostra libertà, e sovvertire l’ordine basato sulle regole che abbiamo lavorato così duramente per costruire nelle nostre società libere”, ha detto parlando alla biblioteca californiana di Richard Nixon il presidente che nel 1972 strinse la mano a Mao Tsedong e aprì, grazie a Henry Kissinger, la relazione speciale tra Stati Uniti e Cina per isolare l’Unione sovietica. Secondo Pompeo questo “vecchio paradigma non funziona più. Non dobbiamo proseguirlo. Non dobbiamo tornare ad esso”. La Cina ha usato la globalizzazione come “rivoluzione passiva”, ha adottato tecniche e modelli occidentali per modernizzarsi, poi li ha assorbiti, rielaborati e utilizzati per un progetto egemonico, attraverso la sua potenza economica, ma anche la battaglia culturale, allo scopo di riprendere quello status che aveva prima del secolare isolamento provocato dalle guerre dell’oppio. 

 

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Il modello cinese si propone come riferimento alla vasta area che potremmo chiamare “anti-liberale”, con Pechino che promuove la sua “vittoria contro il virus” per difendere e, per la prima volta, propagandare il suo sistema politico. Dopo aver imitato la via occidentale allo sviluppo ora rivendica un proprio paradigma (centralista, autoritario, nazionalista e confuciano). Gli americani hanno risposto riproponendo il vecchio schema utilizzato già con il Giappone o con i nemici delmedio oriente accusandoli di mentire, di coprire delitti o comunque comportamenti contrari alle leggi internazionali, di essere anti-democratici. Adesso è arrivato il momento di mettere in atto un vero e proprio contenimento come quello adottato contro l’Unione sovietica. La coppia è scoppiata e va divisa. La Cina resta la seconda economia del mondo, e il secondo maggiore importatore di beni globale, con un totale di 1.674 trilioni di dollari nel 2019, ed è all’origine del 13,7 per cento delle esportazioni mondiali. Ma attenzione, in questi anni ha ridimensionato moltissimo il suo attivo, con l’estero sceso ormai all’1,8 per cento  del prodotto lordo, inferiore al Giappone e all’Italia (2,6 per cento), non parliamo della Germania che arriva al 6 per cento. Nel frattempo gli Stati Uniti continuano a registrare un deficit vicino al 2 per cento del pil. Il protezionismo tariffario non porta a nulla, anzi è controproducente; può essere efficace il disaccoppiamento, il decoupling o meglio l’uncoupling come lo chiama il Financial Times che ha dedicato proprio a questo processo un ampio articolo?

 

Foxconn, la compagnia di Taiwan che produce gli iPhone, impiega in territorio cinese circa un milione di lavoratori, e si aspetta che la manifattura venga frammentata in più catene del valore, una cinese e diverse altre nel resto del mondo. Secondo Young Liu, presidente della compagnia, “il vecchio modello di un’unica gigantesca fabbrica mondiale non esiste più, il suo posto verrà preso da reti produttive su scala regionale”. Non è una novità assoluta: negli scorsi due anni il 40 per cento delle imprese americane ha lasciato la Cina. Per andare dove? Per tornare nella madrepatria? Dipende. Proprio Taiwan è uno dei maggiori beneficiari in particolare per l’elettronica e le telecomunicazioni, dai circuiti integrati ai telefonini. Scarpe, accessori, giocattoli, componenti meccaniche si stanno muovendo da tempo verso il sud est asiatico là dove i salari sono più bassi, in particolare in Vietnam e Cambogia. Si segue la teoria classica dei costi comparati, ma anche la geografia economica secondo la quale contano molto per gli insediamenti industriali i fattori ambientali, dalle infrastrutture al capitale umano, fino al sistema giudiziario. Il Messico, diventato grazie all’accordo di libero scambio una sorta di dependance manifatturiera degli Stati Uniti (si pensi soprattutto alle automobili), ha cominciato a produrre computer ed è entrato nel più sofisticato mercato delle alte tecnologie. In ogni caso l’America latina non può competere con l’Asia, tanto meno dopo il collasso del gigante brasiliano.

 

Jim O’ Neill, l’economista di Goldman Sachs che vent’anni fa inventò l’acronimo Bric (Brasile, Russia, India, Cina) per definire i paesi che avrebbero segnato il nuovo ciclo di sviluppo, è ottimista sulla risposta cinese alla pandemia. La crescita quest’anno è modesta, ma in ogni caso positiva (si prevede più 1,8 per cento) mentre il resto del mondo affonda. Nel 2021 la Cina avrà recuperato e si sarà rimessa in pista. Il boom di acquisti di attività in renminbi (o yuan) dimostra che il mercato dei capitali punta ancora sul Dragone rosso. Nel 2008 l’insieme di asset in “moneta del popolo” (azioni, obbligazioni, depositi, prestiti) era pari a 4 mila miliardi, ora è arrivata a 7 mila miliardi di renminbi. E gli ultimi tre mesi sono stati i migliori. Nonostante le cautele e le incertezze politiche, pecunia non olet, i re di denari investono guardando a come si sta adattando l’economia cinese al nuovo scenario creato dalla pandemia. Un primo effetto è la riduzione della esposizione esterna, con l’aumento di importanza di un mercato interno immenso e non saturo. Ciò vale anche per la finanza e per la tecnologia. Il balzo della digitalizzazione ha dato alimento alle aziende cinesi hi-tech che vengono sostenute dai finanziamenti statali. Crescerà anche la competizione tra industrie dello stesso settore e ciò rafforza l’efficienza produttiva e la qualità dei prodotti. I consumatori si stanno spostando su fasce più alte con atteggiamenti consapevoli anche dell’impatto sull’ambiente. Un’analisi della McKinsey sottolinea che gli effetti sulla salute sono fondamentali per il 70 per cento delle persone. Più di metà inoltre continuerà a comprare online anche cibo e  prodotti d’uso quotidiano. Jack Ma, fondatore di Alibaba, stappa champagne.

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Il Covid-19 ha dato un aiuto indiretto a un paese che deve importare gran parte delle risorse energetiche. L’abbondanza di petrolio e gas provocata dai lockdown nei paesi occidentali ha fatto crollare i prezzi, mettendo nei guai l’Opec, la Russia, le grandi compagnie. Anche gli idrocarburi da scisto che hanno trasformato gli Stati Uniti nel più grande produttore mondiale, sono crollati del 50 per cento rovinando molti grandi elettori di Donald Trump. La promessa di rilanciare il carbone e aprire nuove miniere non ha avuto nessun esito per ragioni di prezzo più che di pulizia dell’aria. Solo la Cina tra i grandi paesi importatori ha continuato a comprare petrolio e gas, alle sue condizioni. Il potere di mercato, quindi di determinare i prezzi, è passato dai produttori ai consumatori, anzi al più grande consumatore. Ma la battaglia cruciale oggi si combatte per gestire “il petrolio di questo secolo”: i dati. E passa attraverso la loro standardizzazione. Non è una novità. Werner von Siemens, l’ingegnere tedesco che sostenne la rivoluzione liberale del 1848 e fondò il grande conglomerato elettrotecnico, soleva ripetere che “chi possiede gli standard possiede il mercato”. Era vero fin dall’inizio per le linee elettriche, per le ferrovie, per il telegrafo, per il telefono, lo è per la televisione e le telecomunicazioni, e oggi vale in particolare per il 5G che apre la strada all’internet delle cose o all’intelligenza artificiale e traccia una linea rossa: da una parte gli Stati Uniti, dall’altra la Cina. Nella terra di mezzo, sempre più sottile, c’è l’Europa. Il governo cinese sta lavorando a un documento di indirizzo strategico chiamato China Standards 2035 che dovrebbe essere pubblicato alla fine dell’anno. L’obiettivo è standardizzare la prossima generazione di tecnologie, fissando paletti che nessuno potrà ignorare. L’aspetto più inquietante è che questa strategia ha l’esplicito obiettivo di rafforzare il nuovo complesso militar-industriale ad alta tecnologia guidato personalmente da Xi Jinping, che presiede l’apposita “Commissione per lo sviluppo della fusione tra civile e militare” (un nome che non lascia spazio al dubbio). La stessa Via della seta sta diventando sempre più un’autostrada digitale. Tutte le iniziative sono coperte dal segreto di stato, in ogni caso aree come 5G, intelligenza artificiale, semiconduttori, computer quantistici, big data si prestano per loro natura a un uso duale. I paesi occidentali sono preoccupati, ma davvero le maggiori economie soprattutto in Europa (Germania, Francia, Italia per prime) si faranno schiacciare tra standard incompatibili rendendo assoluta la loro dipendenza dagli Stati Uniti come dopo la seconda guerra mondiale? E’ su questo dubbio che fa leva Pechino.

 

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Ma l’escalation non passa solo attraverso progetti futuristici. E’ anche molto tradizionale e non per questo meno inquietante perché ha già alterato l’equilibrio delle potenze nel Pacifico: la Cina ha più navi della marina americana in quello scacchiere e ha sviluppato missili e satelliti che possono minacciare le portaerei della US Navy e distruggere le comunicazioni militari. La costruzione delle basi militari nel Mar cinese meridionale è stata interpretata come una minaccia aperta agli Stati Uniti. Da quando Xi Jinping è arrivato al potere nel 2012 il regime è diventato sempre più assertivo all’estero e autoritario in patria. Se Joe Biden vincerà le elezioni cambierà certamente lo stile e la forma, ma non la sostanza delle ormai pessime relazioni sino-americane. 

 

Anche per sfuggire alla pressione economica e politica che viene da Washington, il governo cinese sta facendo ogni sforzo per sostenere il mercato interno, non solo attraverso ingenti influssi di moneta, ma anche con espedienti come “il turismo della rivincita”, cioè incentivando i viaggi interni, soprattutto durante la settimana delle feste d’autunno. Oltre 500 località danno libero accesso o forti sconti ai visitatori. Il ministero della Cultura calcola che nella prima parte di questo mese si muove circa mezzo miliardo di persone. Prendendo anche un serio rischio di trasmissione del coronavirus. 

 
E qui sorge il grande dubbio: la pandemia è davvero finita? A Wuhan e in tutta la provincia dello Hubei, dopo 50 giorni terribili (la quarantena è cominciata il 23 gennaio, ma i primi casi sono stati rivelati a dicembre) le autorità hanno dichiarato vittoria e a testimoniarlo è stato il presidente Xi in persona. Da allora sono scoppiati, a quel che ne sappiamo, una serie di focolai tra i quali uno a Pechino in giugno che ha provocato la chiusura di interi quartieri e ha sollevato nuovi dubbi. Wu Zunyou, numero uno degli epidemiologi cinesi, ha dichiarato che l’epidemia è sotto controllo, poi ha precisato: “Quando dico sotto controllo questo non significa che i casi saranno zero domani o il giorno dopo. Il trend persisterà per un certo periodo di tempo, ma il numero dei contagi si ridurrà, proprio come per il trend che abbiamo visto a gennaio e febbraio”. Realismo al posto dell’enfasi propagandistica. A fine settembre è ricomparso Chen Qiushi, l’ex avvocato dei diritti umani che, come videoreporter, aveva raccontato la tragedia di Wuhan e dopo due settimane era stato fatto sparire. E’ tenuto sotto stretta sorveglianza in domicilio coatto nella casa dei genitori, ma il solo fatto che la notizia sia stata diffusa da un amico di Chen, l’esperto di arti marziali Xu Xiaodong, può essere interpretato come un segnale che l’emergenza è superata, informa l’agenzia Asia News. L’osservatorio della Johns Hopkins registra 90.689 casi, poco più che in Giappone, a fronte dei 7 milioni 550 mila negli Stati Uniti. Un tale divario sembra irrealistico e sulle cifre ufficiali cala l’ombra del sospetto. 

 
L’oriente galleggia, dunque, mentre l’occidente affoga? Attenzione, il paradosso dei nostri tempi è che i due spicchi del globo terraqueo non possono fare più a meno l’uno dell’altro. L’egemonia cinese è ormai improponibile ammesso che lo fosse prima del Covid-19; il secolo americano tramonta, ma il secolo asiatico è un esercizio per i cultori della filosofia della storia; le catene del valore parallele e la nuova cortina di ferro piacciono più al Pentagono che ai magnati della industria e agli squali della finanza. Il mondo che verrà sarà polifonico o pluralista se vogliamo usare il linguaggio della politica. Meglio attrezzarsi per questo invece di gingillarsi in war game da tavolino.

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