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Se il governo governa anche le imprese è la fine del mercato

Luca Enriques

I casi Tim, Autostrade, Ilva e Mediobanca. Il dirigismo e i rituali che furono democristiani oggi sono demo-grillini

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In un saggio di più di vent’anni fa, Curtis Milhaupt, ora professore a Stanford, osservava come due criteri fondamentali per comprendere e confrontare i sistemi di governo societario nei vari paesi sono la misura in cui: (1) i poteri sulle imprese corrispondenti al diritto di proprietà spettano ai politici e alla pubblica amministrazione piuttosto che ad attori economici privati; (2) tali poteri sono esercitati utilizzando strumenti giuridici ovvero la forza bruta delle pressioni politiche e sociali. Ogni altra caratteristica di governance di un determinato paese è secondaria rispetto a questi parametri. Come si colloca l’Italia all’interno di questo quadro analitico?

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In un saggio di più di vent’anni fa, Curtis Milhaupt, ora professore a Stanford, osservava come due criteri fondamentali per comprendere e confrontare i sistemi di governo societario nei vari paesi sono la misura in cui: (1) i poteri sulle imprese corrispondenti al diritto di proprietà spettano ai politici e alla pubblica amministrazione piuttosto che ad attori economici privati; (2) tali poteri sono esercitati utilizzando strumenti giuridici ovvero la forza bruta delle pressioni politiche e sociali. Ogni altra caratteristica di governance di un determinato paese è secondaria rispetto a questi parametri. Come si colloca l’Italia all’interno di questo quadro analitico?

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Le cronache finanziarie di questi giorni traboccano di esempi di come nel nostro paese l’influenza della politica sulle grandi imprese è forte ben al di là del dato formale non solo della proprietà azionaria pubblica ma anche dei poteri formalmente spettanti alla politica e alla pubblica amministrazione. Da ultimo, un post di Beppe Grillo sembra anticipare il progetto di ridisegnare gli assetti del mercato delle comunicazioni riportando un asset fondamentale come l’infrastruttura nazionale delle telecomunicazioni, anche sul piano della proprietà formale, nelle mani della politica (per interposta Cassa depositi e prestiti), a tale scopo prospettando il licenziamento dell’amministratore delegato di una società formalmente privata, l’uscita di scena di società quotate da un progetto in cui hanno investito risorse e la messa in fuga di una società straniera costringendola in qualche modo a vendere la sua partecipazione in Tim. E, come messo in luce anche da Stefano Cingolani sul Foglio del 23 giugno, le vicende di Autostrade e Ilva, per tacer di Mediobanca, rivelano dinamiche analoghe, per cui vuoi gli assetti proprietari esistenti vuoi quelli potenziali vuoi le strategie aziendali sono non tanto il frutto di decisioni manageriali e/o di accordi tra privati quanto il risultato del volere della politica o l’esito di estenuanti negoziazioni o rinegoziazioni tra i privati e gli attori politici.

 

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Le imprese sono controllate non da chi, volta per volta, è disposto a investirci e indirizzarne la gestione nei limiti previsti dalla legge e, in particolare, dalle regole di diritto societario, ma da chi sia ritenuto meritevole di svolgere quel ruolo da politici e grand commis. Il loro bon plaisir, più o meno ammantato di piani o intuizioni di politica industriale quando non di ancor più generiche finalità pubbliche, è più prosaicamente il frutto, quando va bene, del rituale bacio della pantofola quale tappa necessaria per la concessione del favore del sovrano in cambio di vincoli alla gestione o, forse peggio, di un credito da esigere alla bisogna nei confronti del fortunato supplicante; e, quando va male, di atteggiamenti ai limiti dell’estorsione legalizzata.

 

Il fenomeno è antico, ma nuova ne è la forma: i “poteri speciali” (noti anche come golden power), di recente rafforzati ed estesi ad ulteriori settori in nome dell’emergenza Covid-19, non sono altro che la pseudo-formalizzazione giuridica di questi rituali già democristiani e oggi demo-grillini. La continuità tra la Prima Repubblica e quella attuale, quanto a dirigismo della politica, subì una pausa forse soltanto nella breve stagione delle privatizzazioni, quando lo stato era venditore di azioni e dunque doveva almeno pretendere di accettare le regole del mercato per non vendere a un prezzo vile. Incidentalmente, quella stagione si sarebbe con ogni probabilità riaperta, se la politica monetaria della Banca centrale europea sotto Mario Draghi e ora sotto Christine Lagarde non avesse neutralizzato l’esigenza di mettere in ordine i conti ai tempi della crisi dell’euro e ora della crisi Covid. Lo rammento non per criticare il “Whatever it takes”, ma in quanto tendiamo a scordarci con eccessiva facilità del perché ci possiamo tuttora concedere il lusso del controllo statale dell’economia.

 

Tornando ai “poteri speciali”: essi solo formalmente riconducono nell’alveo della legge la forza bruta del controllo politico sulle imprese private, per la semplice ragione che i criteri per la concessione dell’autorizzazione all’acquisto di partecipazioni di controllo sono talmente generici (minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale, ordine pubblico…) da consentire qualunque conclusione dell’istruttoria. Il golden power ha dunque il vantaggio di ridurre al minimo il rischio che venditore e acquirente sfidino la politica ponendola di fronte al fatto compiuto.

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Ma i poteri speciali hanno un effetto degno di nota: la procedimentalizzazione del potere di veto sugli assetti di controllo implica una parziale riallocazione delle rendite che grazie a esso si creano: il potere si sposta, almeno in parte, dalle stanze dei ministri e delle segreterie dei partiti a quelle dei burocrati al vertice dei ministeri, dagli uffici di faccendieri più o meno oscuri agli studi legali specializzati nella materia (la cui disciplina è solo apparentemente complessa, contando molto di più, come in tempi di prassi più ruspanti, che chi segue la pratica sia in grado di aprire le porte giuste).

 

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Il controllo pubblico degli assetti proprietari delle imprese formalmente private determina un circolo vizioso che ne rafforza le fondamenta: le azioni di una società il cui controllo è alla mercé dei capricci della politica valgono meno, non solo in quanto le aspettative di un cambio di controllo che crei valore sono meno giustificate ma anche perché il controllo formale tenderà a restare in capo a chi ha migliori capacità di interazione con la politica piuttosto che del migliore imprenditore o manager; prezzi di borsa depressi aumentano il timore di scorrerie; il rischio di scalate serve da ulteriore scusante per mantenere il controllo pubblico degli assetti proprietari, e così via.

 

Si badi: l’alternativa non è tra mercato selvaggio e proprietà statale. I limiti alla proprietà privata e all’iniziativa economica sono parte integrante di qualunque sistema capitalistico. Il punto è se una costituzione economica materiale più rispettosa del libero gioco delle forze di mercato non produrrebbe risultati migliori per il benessere del nostro paese. E’ plausibile che sotto un simile regime gli interventi pubblici nell’economia privata, quando realmente necessari (come nelle condizioni eccezionali in cui ci troviamo), sarebbero più efficaci: infatti, le relative restrizioni sarebbero percepite dal mercato come di durata e contenuti eccezionali e scoraggerebbero di meno gli investimenti e le iniziative imprenditoriali degli operatori economici privati.

Peraltro, l’effetto ultimo di tutto ciò, guardando all’esperienza di altri paesi, non è necessariamente la stagnazione. In fondo, di fianco agli esempi del Venezuela e di Cuba, ci sono quelli della Cina e del Vietnam a ricordarci che proprietà pubblica e crescita possono coesistere. Ma è impossibile sapere quanto Cina e Vietnam sarebbero cresciuti in più se avessero seguito l’esempio della Corea del Sud, che è passata da un modello di governance incentrato sulla politica a uno più rispettoso della proprietà privata nell’arco di un paio di generazioni e con risultati economici spettacolari in termini di tenore di vita dei suoi cittadini. Anche per l’Italia, è fin troppo facile prevedere che il medesimo interrogativo è destinato a rimanere senza risposta ancora per lungo tempo.

 

*Luca Enriques, University of Oxford

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