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“La crisi è come il virus: il vaccino è la politica fiscale espansiva”. Parla Doris

Salvatore Merlo

“25 mld non bastano”. Il rischio di perdere le aziende, la necessità di liquidità e l’urgenza dello choc fiscale. Parla il presidente di banca Mediolanum

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Roma. “Le faccio un piccolo esempio”, dice. “Io sono azionista da molti anni di un’azienda biotech che si chiama MolMed. Ieri un gruppo giapponese ha lanciato un’Opa. E se la porta a casa, arrivando a pagarla l’80 per cento in più del suo valore attuale sul mercato. Dopo il crollo. Credo sia una piccola, piccolissima cartina di tornasole”. E insomma Ennio Doris, presidente di banca Mediolanum, uno dei più significativi rappresentanti dell’establishment finanziario italiano non esclude affatto il rischio che qualcuno passi e si compri le aziende italiane, ovviamente quelle appetibili, quelle funzionano. E non sono poche. “Il pericolo c’è”, dice. “Quando i valori delle aziende crollano in Borsa com’è avvenuto in questi giorni, il rischio c’è sempre. Perché altre aziende o altri istituti con disponibilità economica si trovano di fronte l’opportunità di acquisire a prezzi molto convenienti. Questo non riguarda solo le aziende italiane, ovviamente. Riguarda tutte le aziende quotate. In tutto il mondo. Ma l’Italia ha una fragilità. Il nostro è un mercato azionario particolarmente volatile”.

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Roma. “Le faccio un piccolo esempio”, dice. “Io sono azionista da molti anni di un’azienda biotech che si chiama MolMed. Ieri un gruppo giapponese ha lanciato un’Opa. E se la porta a casa, arrivando a pagarla l’80 per cento in più del suo valore attuale sul mercato. Dopo il crollo. Credo sia una piccola, piccolissima cartina di tornasole”. E insomma Ennio Doris, presidente di banca Mediolanum, uno dei più significativi rappresentanti dell’establishment finanziario italiano non esclude affatto il rischio che qualcuno passi e si compri le aziende italiane, ovviamente quelle appetibili, quelle funzionano. E non sono poche. “Il pericolo c’è”, dice. “Quando i valori delle aziende crollano in Borsa com’è avvenuto in questi giorni, il rischio c’è sempre. Perché altre aziende o altri istituti con disponibilità economica si trovano di fronte l’opportunità di acquisire a prezzi molto convenienti. Questo non riguarda solo le aziende italiane, ovviamente. Riguarda tutte le aziende quotate. In tutto il mondo. Ma l’Italia ha una fragilità. Il nostro è un mercato azionario particolarmente volatile”.

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Volatilità significa fluttuazioni anche repentine dei valori. “E dipendono dalla natura del mercato”, spiega Ennio Doris. “Le società quotate in America, per esempio, sono tantissime, così come gli investitori istituzionali. L’abitudine di quel paese a investire in Borsa lo rende un mercato molto più liquido del nostro. Più stabile. Da noi invece le oscillazioni sono più forti perché mancano quelle abitudini e quegli investitori istituzionali. Questo comporta la volatilità e di conseguenza comporta anche il fatto che il pericolo di acquisizioni da noi esiste di più che in altri paesi. Ora nel mondo i ribassi sono stati piuttosto forti e violenti, su tutti i mercati azionari. Ma i ribassi non dureranno, perché a un certo punto l’appetibilità sarà troppo alta. E qualcuno comincia a comprare”.

 

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Succede sempre. “E’ una regola ovvia. Durante la crisi petrolifera del 73 i mercati mondiali calarono del 50 per cento o poco più in circa diciotto messi. Poi il calo si è arrestato e infine è ricominciata una ripresa dei valori azionari. Perché evidentemente quelli che avevano deciso di comprare erano in numero estremamente superiore a quelli che vendevano. C’era insomma una convenienza all’acquisto. La crisi successiva, quella che seguì l’attentato alle Torri Gemelle, era prima una crisi economica dovuta alla bolla dei titoli internet che gli attentati fecero esplodere aggravando la situazione. Anche quella volta, i mercati crollarono ma in poco più di un anno e sei mesi ripartirono ancora prima che l’economia reale ripartisse. Quando c’è stato il fallimento di Lehman Brothers, si trattava di una crisi latente dei sub prime che fu accentuata dall’errore catastrofico di lasciar fallire Lehman spaventando il mondo intero. Da metà settembre 2008 al 9 marzo 2009, i mercati mondiali anche quella volta persero mediamente il cinquanta per cento del loro valore. Ma da 9 marzo 2009, in piena crisi economica, i mercati ripartirono. E’ sempre così. Si arriva a un punto in cui il prezzo rende interessante l’acquisto. E l’Italia ha moltissime aziende interessanti. La questione può diventare problematica quando si verificano operazioni di merging, di acquisto totale da parte di entità extra nazionali”.

 

E i capitali stranieri sono un male o un bene? “La nazionalità dell’azionista di maggioranza non conta, dal punto di vista dell’azienda. Ma dal punto di vista più generale, del paese, sì, conta moltissimo. Può diventare un problema industriale, non certo finanziario. E cioè? “Lei prenda la grande distribuzione. Ha ovviamente i suoi centri di acquisto. E la grande distribuzione italiana, in mano a un gruppo francese, per esempio, è più probabile che finisca con il privilegiare i fornitoti francesi. Per questioni semplici, naturali persino, che hanno a che vedere con i rapporti economici e personali, con la tradizione… E’ ovvio, direi. Quindi se si riesce ad avere il cervello in Italia è meglio. Anche se, quando le aziende sono in difficoltà, piuttosto che chiuderle è meglio che vengano comprate. Anche dagli stranieri”.

 

E quali sono le aziende italiane più appetibili? Quali sono le caratteristiche che rendono un’azienda attraente? “Le aziende che si vanno a cercare in Borsa sono quelle che il mercato giudica che abbiano potenzialità di sviluppo, qualche leadership in qualche mercato, interno o esterno, o dei brevetti particolarmente promettenti. Aziende che possono essere una via d’ingresso importante nel nostro paese o che abbiano quote di mercato rilevanti all’estero. Quote di mercato che fanno gola ai concorrenti. Lo ripeto: c’è motivo di temere queste incursioni dal punto di vista industriale, non finanziario”.

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E come ci si difende? “La Francia per esempio ha dichiaro di essere disponibile a nazionalizzare le aziende. Perché questo pericolo esiste anche là. La Germania mette a disposizione del suo sistema industriale ben 550 miliardi. Segnalo che nessuno parla più di ‘aiuti di stato’. Non ci sono più censure. L’Europa che uscirà da questa storia tremenda del coronavirus sarà molto diversa dall’Europa che abbiamo fin qui conosciuto. Credo che moltissime regole, moltissimi dogmi saranno superati. Lo spero. Di sicuro non è più il momento in cui per agire bisogna chiedere il permesso. E’ il momento di fare tutto quello che è necessario non solo per proteggere le aziende da operazioni ostili, ma per garantirne la sopravvivenza. In questo momento sono tutti fermi. Le aziende non fanno cassa. Significa che il sistema industriale va sostenuto. Ne va della sua sopravvivenza”.

 

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I nostri 25 miliardi basteranno? “Sono quelli della flessibilità massima che ci è stata concessa. Ma noi dobbiamo fare quello che serve. Non quello che è concesso. E se il virus non viene sconfitto, nel medio-lungo periodo 25 miliardi non bastano. Ora nessuno compra e nessuno vende, bisogna impedire la crisi di liquidità. In economia vale lo stesso principio con il quale si è capito che andava affrontato il virus: risposte drastiche, draconiane, e tempestive. Col virus tutti hanno perso tempo. Prima i cinesi, poi noi, adesso Germania, Francia e Stati Uniti. Questo non deve avvenire in economia. Prima dai la medicina, più questa è efficace e meno dosi ne devi prendere. Quando il virus sarà alle spalle la capacità di recupero dell’economia sarà corrispondente alla rapidità degli interventi”.

 

Quindi che bisogna fare? “Giusto rinviare le scadenze fiscali. Ma ci vogliono fortissime riduzioni fiscali di medio-lungo periodo per incentivare gli investimenti e i consumi. Riduzioni per i lavoratori e anche per le aziende. Le medicine sono due: la medicina monetaria, che è come l’antiinfiammatorio, e la medicina fiscale che è come l’antibiotico. La prima la somministra la Bce, ed è un po’ restia. L’altra la devono somministrare i politici. Lo ripeto: non è più il tempo di chiedere il permesso”.

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