Il Presidente Giuseppe Conte visita l'azienda Tel di Bari (foto LaPresse)

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Vedi alla voce “concorrenza”. Ma non c'è

Lorenzo Borga

Assente nel programma di governo. Eppure la competizione tra aziende produce effetti condivisi anche dalle fasce più svantaggiate della popolazione. E sulla produttività pesano i pregiudizi del neo ministro Patuanelli

Il governo Conte bis, appena nato, ha già promesso tanto. In questo segue le orme dell’esecutivo precedente, che le promesse le aveva addirittura sottoscritte in un contratto. La lista si allunga giorno dopo giorno, a partire dalle dichiarazioni dei membri del governo fino alle indiscrezioni dei giornali: taglio del cuneo fiscale, assegno famigliare, rette gratis per gli asili, no all’aumento dell’Iva, deficit all’interno delle regole europee, via il superticket sulla sanità. È molto probabile che alcuni dei propositi non saranno rispettati alla prova dei fatti. Ma di questo ci occuperemo un’altra volta. Oggi è invece il caso di occuparsi di cosa non c’è nei 29 punti del programma di governo, o cosa rischia di rimanere in secondo piano. Spesso sono più rilevanti le mancanze che il contenuto stesso di un documento programmatico.

 

Manca la concorrenza

In primo luogo, nel documento stilato da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle non troviamo nemmeno una volta la parola “concorrenza” (provate voi stessi a cercare nei punti programmatici). Lo stimolo alla concorrenza e al libero mercato non è mai stato un obiettivo del Movimento 5 Stelle, mentre ci si sarebbe potuto attendere dal Partito Democratico un interesse maggiore. Gli esecutivi della scorsa legislatura avevano infatti proposto la legge per la concorrenza approvata nel nostro paese. La prima e unica, per ora, sebbene dal 2009 viga la regola che prevede l’adozione annuale di una legge simile. Allora si introdussero sconti sulle polizze Rc auto e liberalizzazioni parziali su farmacie e settore forense. Ora sembra invece che il partito di Zingaretti non sia più così interessato a questi aspetti.

 

Qualcuno penserà che sia normale, per un governo considerato decisamente a sinistra sui temi economici e sociali, disinteressarsi alla concorrenza. In realtà potrebbe essere vero il contrario: la competizione tra aziende non può essere lasciata ai liberisti e alla destra economica, perché gli effetti che produce sono in realtà condivisi anche – e talvolta soprattutto – dalle fasce più svantaggiate della popolazione. In Italia, in cui l’ascensore sociale è bloccato da tempo mentre la disuguaglianza economica non è esplosa come in altri paesi occidentali (i livelli anglosassoni sono lontani anni luce), la concorrenza può essere un fattore determinante per sbloccare le rendite di posizione che attanagliano il paese. Secondo i dati dell’Ocse che valutano la libertà d’impresa l’Italia si trova nella media europea. In particolare, offriamo maggiore libertà al mercato per quanto riguarda la proprietà pubblica di aziende e il peso burocratico per aprire un’attività. Siamo invece in ritardo soprattutto sul settore dei servizi e sugli investimenti.

 

Un maggior livello di concorrenza nel mercato permetterebbe ai consumatori di acquistare beni e servizi a prezzi minori (in un contesto in cui i prezzi sono già crollati con la globalizzazione, con un risparmio di 24 miliardi di euro all’anno per i consumatori europei) e garantirebbe una maggiore qualità. Oppure, una offerta più varia tra cui scegliere. È la competizione tra aziende che stimola l’innovazione e la ricerca di una maggiore efficienza. Ma soprattutto, e questo dovrebbe essere l’aspetto più rilevante per un governo attento al sociale, rende possibile l’emersione dei talenti anche tra le fasce più svantaggiate della popolazione. Se il mercato è libero, anche il figlio dell’operaio potrà aprire una propria farmacia. Se il mercato è libero, aziende straniere possono investire in Italia creando posti di lavoro e offrendo un servizio di qualità, come ha fatto Flixbus nel 2015 incontrando enormi difficoltà. Se il mercato è libero, le concessioni per l’utilizzo delle spiagge non durerebbero decenni. Se il mercato fosse stato più libero, le tariffe telefoniche non avrebbero conosciuto il crollo dei prezzi che si è verificato solo dopo l’ingresso di Iliad nel mercato italiano nel 2016.

 

Spesso la politica ha immaginato la concorrenza come uno strumento per piegare i più deboli al volere del profitto delle grandi aziende (c’è stereotipo più diffuso che le malvagie multinazionali?). Il Movimento 5 Stelle aveva per esempio organizzato una dura battaglia contro l’applicazione della direttiva europea Bolkestein, o in opposizione alla ratifica del Ceta. Questa è solo una versione della verità. La competizione è l’elemento che può spazzare via le rendite, tanto presenti in Italia: cioè tutte quelle situazioni in cui potere e guadagni sono determinati da condizioni al di fuori del mercato. Come regolamentazioni di favore, privilegi, rapporti personali e accordi illeciti tra concorrenti, che impediscono la crescita e l’espansione di chi non ne beneficia e aumentano in modo artificioso i prezzi per i consumatori finali. La concorrenza serve quindi a limitare le distorsioni del mercato, non ad alimentarne la supremazia nei confronti della società. Come sostenevano ormai più di dieci anni fa Alberto Alesina e Francesco Giavazzi nel libro: “Il liberismo è di sinistra” (Il Saggiatore, 2007), le regole dell’antitrust sono appunto limiti al mercato, che le forze di sinistra dovrebbero rafforzare per offrire a tutti – a prescindere dai rispettivi punti di partenza, familiari e di reddito – le stesse opportunità e allo stesso tempo stimolare la crescita.

 

A dimostrazione del fatto che ove manca il libero mercato e sono più forti le rendite, l’economia ristagna (e questo lo sapevamo) ma soprattutto le disuguaglianze aumentano (e di questo M5s e Pd non sembrano tener conto), vengono in aiuto i dati sulla disuguaglianza nelle regioni italiane. Il Sud Italia, bloccato da rendite e una burocrazia spesso inefficiente, soffre una più alta disuguaglianza di reddito rispetto alle regioni del Nord, più sviluppato economicamente e che offre maggiori opportunità anche grazie a una concorrenza più vivace.

 

Manca (quasi) la produttività

Altro punto dolente del nuovo governo potrebbe essere la produttività. Non perché assente nel programma (viene citata al punto 3), ma per via delle dichiarazioni del neo-ministro allo sviluppo economico in quota M5s, Stefano Patuanelli. Come ha segnalato il fogliante Luciano Capone su Twitter, era il 22 gennaio quando l’allora capogruppo al Senato del Movimento 5 Stelle affermava a Omnibus (La7): “Aumentare la produttività dell’impresa si accompagna a una minore richiesta di forza lavoro. Sappiamo benissimo che quando è aumentata la produttività è diminuito il tempo lavoro delle persone”. Nell’intervista il neo-ministro concludeva quindi che il reddito di base (uno stipendio incondizionato a tutti, dello stesso ammontare) sia una necessità su cui dobbiamo riflettere. Il problema si pone non tanto per le affermazioni senza fondamento di Patuanelli, ma per il fatto che all’esponente 5 Stelle è stato assegnato un compito preciso, designandolo per quel ministero: aumentare la produttività del lavoro in Italia. Non possiamo sapere se Patuanelli abbia cambiato idea da gennaio, ma possiamo certamente scrivere che ciò che affermava non corrisponde al vero. La produttività è cresciuta enormemente a partire dalla metà del diciannovesimo secolo, con la rivoluzione industriale, e non ci ha reso ancora tutti disoccupati, né il tasso di occupazione sembra aver intrapreso un trend di decrescita slegato dalla crisi economica.

 

L’efficienza delle imprese non è nemica dei lavoratori, come scoprono presto gli studenti di una qualsiasi triennale in economia. L’aumento di produttività incrementa il valore aggiunto creato in un processo produttivo e quindi la torta totale e le corrispondenti fette dei profitti e dei salari, la cui divisione può essere contrattata tra sindacati e datori di lavoro. I settori dell’economia italiana a maggiore produttività sono quelli che possono offrire gli stipendi più alti (non il turismo, come già chiarito in questa rubrica). In Italia la produttività del lavoro ristagna dagli anni ’90, e questa è la causa principale dei salari che non crescono, mentre aumentano, seppur non abbastanza, in altre economie europee che hanno saputo migliorare i propri settori produttivi.

 

Ancora: la sostituzione tecnologica, a cui fa riferimento Patuanelli, non ha creato un buco di posti di lavoro in Europa nei primi anni Duemila. Secondo una ricerca, la tecnologia e la produttività hanno bruciato 1,6 milioni di posti di lavoro, ma allo stesso tempo ne hanno creati 1,4 negli stessi mercati colpiti e altri 2 milioni in altri settori dell’indotto. Per l’Ocse le proiezioni disastrose sul futuro del mercato del lavoro sono oltremodo pessimistiche: sarebbero solo il 14 per cento i lavori a rischio automazione per l’aumento della produttività dovuto alla tecnologia. Speriamo Patuanelli se ne accorga prima di combinare disastri, come ha rischiato il precedente governo. Il primo esecutivo Conte aveva infatti incentivato le imprese a rimanere di piccole dimensioni tramite sconti fiscali mirati alle micro-imprese e partite Iva e smantellato parte del piano Industria 4.0, per poi tornare velocemente sui propri passi con il cosiddetto “decreto crescita”.

  

Concorrenza e produttività sono le due grandi mancanze e incognite del programma e degli intenti del nuovo governo. Se i dubbi si confermassero anche nei mesi a venire, sarebbe una grande delusione in particolare per un governo orientato a sinistra. Infatti, per redistribuire la ricchezza e il reddito serve allo stesso tempo crescere, altrimenti ci perdono tutti. Anche i più deboli.