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La rivolta del sessanta per cento del pil contro il decreto dignità

Alberto Brambilla

Siamo preoccupati, non politicizzati. Parlano i big della Confindustria del nord, in collera con Salvini sul lavoro

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Roma. “Mah, io direi che solo alcuni imprenditori, politicamente schierati, hanno espresso perplessità”, ha detto Matteo Salvini intervistato dal Foglio riferendosi al decreto “dignità” che da settimane sta preoccupando gli industriali a ogni latitudine del paese. “Il decreto fissa princìpi sacrosanti e condivisibili per gli imprenditori che fanno impresa lealmente”. E’ l’atteggiamento di sufficienza (“mah”) del ministro dell’Interno misto ad affermazioni mendaci (“solo alcuni imprenditori politicamente schierati”) che ha motivato la rivolta dei presidenti delle associazioni confindustriali delle regioni più produttive d’Italia e che il Foglio ha raccolto. Il sentimento diffuso è quello di delusione da parte dei rappresentanti delle imprese di regioni che insieme pesano per quasi il 60 per cento del pil, trainano l’export nazionale, e danno lavoro a milioni di persone tra addetti diretti e dell’indotto. Non si sentono affatto “politicizzati” quando criticano il decreto “dignità” perché costringe le imprese a ridurre l’uso dei contratti a termine, a privarsi di parte della forza lavoro che hanno formato investendo su di essa, perché costringe a rivedere i piani aziendali in un periodo di ripresa economica ancora incerta (se non prossimamente declinante), perché è un provvedimento figlio di una logica novecentesca che mette il padrone contro il lavoratore, quando invece – dicono – “nessuno di noi è più felice di stabilizzare un lavoratore quando possibile”. Perché sentono, inoltre, che aleggia un sentimento anti industriale, contrario allo sviluppo economico, al progresso, alla costruzione di infrastrutture energetiche e strategiche.

  

Grafica di Enrico Cicchetti

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Ritengono insomma – e lo dicono all’unisono – che il ministro Salvini stia mentendo quando dice che le preoccupazioni sono solo di pochi imprenditori, per di più ostili al governo per ragioni partitiche. Permane la convinzione tra molti di essi che il leader della Lega li stia tradendo, in quanto è notorio che il suo partito ha goduto del consenso dell’industria del nord per costruire la sua ascesa ma che, oggi, stia scivolando in modo pericoloso verso posizioni anti sviluppiste che sono bagaglio politico e culturale del Movimento 5 stelle, suo alleato di governo. Queste sono ragioni politiche, e questo è politichese, dicono gli industriali che sperano, in futuro, di potere dire la loro in modo puntuale sui provvedimenti governativi che interessano le loro imprese e i loro lavoratori. Salvini si è smarcato dal M5s quando dice che il gasdotto Tap in Puglia o la Tav in Piemonte “vanno fatte”. Ma le sue dichiarazioni non veritiere lo rendono anche meno credibile ai loro occhi. Potrebbero costargli il consenso di chi produce oltre la metà del reddito nazionale.

  

Abbiamo sentito Marco Bonometti (Confindustria Lombardia), Fabio Ravanelli (Confindustria Piemonte), Pietro Ferrari (Confindustria Emilia Romagna), Matteo Zoppas (Confindustria Veneto), Michelangelo Agrusti (Unindustria Pordenone), Giovanni Mondini (Confindustria Genova).

  

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