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I numeri sulla crescita dicono che sull’economia non esiste nessun effetto Renzi

E’ vero. Qualcosa si muove. I dati migliorano (di poco, ma migliorano). Ma a voler essere sinceri fino in fondo nel valutare la politica economica del governo, c’è un elemento che bisogna mettere a tema: lo zero.
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E’ vero. Qualcosa si muove. I dati migliorano (di poco, ma migliorano). La crescita del nostro paese non è più sotto zero ma è di poco sopra il livello della depressione (+0,3 rispetto all’ultimo trimestre, anche se con poca decenza alcuni campioni del renzismo sostengono che l’Italia oggi cresce come la Germania). Gli sgravi previsti per i contratti di lavoro a tempo indeterminato (8.000 euro l’anno non sono pochi) hanno spinto molte aziende a convertire i contratti precedenti a tempo determinato e hanno permesso ad alcuni imprenditori di assumere persone che senza sgravio non avrebbero mai assunto (ma il jobs act non c’entra nulla, signora mia, i dati sull’occupazione che oggi conosciamo riguardano i primi tre mesi dell’anno, e ai campioni del renzismo convinti che i numeri leggermente positivi sull’occupazione siano figli della riforma sul lavoro andrebbe ricordato che la riforma sul lavoro è entrata in vigore solo il primo marzo). Qualcosa si muove, dunque, sarebbe ipocrita non ammettere il leggero passo in avanti della lumaca Italia.
 
Ma a voler essere sinceri fino in fondo nel valutare la politica economica del governo, e l’impatto che questa avrà nella futura crescita del paese, c’è un elemento che bisogna mettere a tema e che riguarda un numero terribile con cui il presidente del Consiglio prima o poi dovrà fare i conti: lo zero. Zero, cioè, come l’effetto Renzi. Con i numeri si può giocare fino a un certo punto, infatti, e incrociando i dati presenti all’interno dell’ultimo Def, le stime di Bankitalia e un gustoso paper appena pubblicato da una delle società di consulenza più importanti d’Europa, Prometeia, sulle prospettive del nostro paese da qui al 2022, emerge uno scenario in cui Renzi potrà essere #sereno ma non per meriti propri. E i numeri ci dicono questo.
 
Il governo stima di crescere nei prossimi anni circa del 2 per cento: 0,7 quest’anno, 1,3 nel 2016. In tutto fa due per cento. Di questo due per cento, l’1,2 per cento va attribuito agli effetti che avrà il quantitative easing (e dunque Draghi) sulla nostra economia (stime Bankitalia). Una cifra tra lo 0,4 e lo 0,2 per cento va attribuita all’effetto che avrà sulla nostra crescita l’abbassamento dei prezzi del petrolio (stime Prometeia). Lo 0,2 per cento va attribuito all’effetto Expo (stime Confcommercio). Un altro 0,2 per cento va attributo (stime Prometeia) a quello che è il piccolo effetto del piano degli investimenti Juncker. Totale: tra l’1,8 e il 2 per cento. Esattamente quanto stima di crescere il governo nei prossimi due anni. L’effetto Renzi, dunque, almeno dal punto di vista economico, esiste solo grazie a fattori esterni (la flessibilità in Europa è un tema che Renzi ha contribuito a imporre ma finora abbiamo visto le briciole, e siamo sempre al passo della lumaca) e l’insieme dei provvedimenti economici messi insieme finora dal governo (gli 80 euro, il taglio dell’Irap, il bonus scuola, le misure sulle famiglie previste nell’ultima finanziaria) hanno un impatto sulla crescita del paese che, per il momento, si aggira attorno a qualche punto decimale. E se si somma a tutto questo il fatto che l’Italia (nonostante le buone performance nel rapporto deficit/pil) resta comunque uno dei paesi con la crescita più bassa tra i grandi dell’Europa, resta uno dei paesi con la disoccupazione più alta tra i grandi dell’Europa e resta uno dei paesi con il debito pubblico più alto del mondo, si capisce bene perché le grandi agenzie di rating facciano fatica a intravedere dei miglioramenti sostanziali nel nostro futuro (venerdì scorso, lo ricordiamo per i più distratti, l’agenzia Standard & Poor’s ha sospeso il giudizio sull’Italia lasciandola al livello BBB-, appena un gradino sopra il livello spazzatura).
 
Tagliare le tasse, agire sull’Irpef in modo strutturale, alleggerire ancora di più l’Irap sono alcune tra le tante misure che potrebbero consentire al presidente del Consiglio di poter sbandierare un effetto Renzi che finora sull’economia semplicemente non c’è. Misure che in parte ci sono state ma che Renzi ha scelto di coprire non con robusti tagli di spesa ma con altre tasse (parte degli 80 euro quest’anno verrà finanziata con il gettito ricavato dall’Imu agricola). E misure che Renzi non riuscirà mai a mettere in campo se lo stesso piglio decisionista mostrato sull’Italicum non affronterà due partite cruciali nel destino del paese. Che sono poi le stesse partite segnalate come prioritarie dalla Commissione europea nel paper di raccomandazioni diffuso la scorsa settimana. Da un lato (e qui c’è speranza che qualcosa si muova) le privatizzazioni e le dismissioni – che, come da ammissione del ministro dell’Economia, nel 2014 sono state pari allo 0,2 per cento del pil, contro lo 0,7 per cento che era stato precedentemente previsto: robetta. E poi, punto sul quale l’effetto Renzi proprio non si riesce a osservare nemmeno al microscopio, il taglio della spesa pubblica. Su questo punto – ha scritto la Commissione – “si sono ottenuti solo progressi limitati verso l’efficienza della spesa pubblica in tutti gli strati del governo… I risparmi su cui si è legiferato finora anche a livello locale non rispettano quanto indicato nel Programma nazionale di riforme 2014… la spending review non è ancora parte integrante del processo di bilancio e questo pesa sull’esercizio a lungo termine”.
 
Il quadro è fin troppo chiaro. E il capo del governo dovrebbe sapere che alla lunga spacciare gli aiutini europei come frutto del proprio lavoro rischia di portare il paese su una strada pericolosa. Perché, senza un effetto Renzi che possa convincere per esempio anche il presidente della Banca centrale europea sulla bontà delle riforme messe in campo dal governo, quando gli aiutini non ci saranno più a finire in crisi non sarebbe soltanto il paese, ma sarebbe anche chi quel paese lo guida.
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