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Il giustizialismo vaticano fa acqua da tutte le parti

L'idea di sacrificare alcuni e proteggere altri ostentando al mondo una ritrovata purezza del sistema non regge

Cincinnato

In un governo autocratico come quello della Santa Sede, si può credere che la Suprema autorità e il Sostituto non fossero pienamente consapevoli delle operazioni che passo dopo passo hanno autorizzato? Qualche domanda

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Colpo di scena: dopo la mancata convalida da parte dei magistrati italiani delle misure cautelari nei confronti di Cecilia Marogna – cittadina italiana indagata oltretevere per il reato di peculato – gli inquirenti vaticani hanno ritirato la richiesta di estradizione in Vaticano. Per consentire – si legge nel bollettino della Santa Sede del 18 gennaio – “all’imputata di partecipare al processo in Vaticano, libera dalla pendenza di misura cautelare nei suoi confronti”. Gli inquirenti vaticani, in pratica, fanno sapere alla Marogna che può serenamente recarsi dall’altra parte del Tevere e farsi giudicare. Noblesse oblige. E questo dopo che la Marogna era stata arrestata e incarcerata in Italia per oltre quindici giorni in esecuzione di provvedimenti adottati dagli inquirenti vaticani, provvedimenti poi cassati dai magistrati italiani per “vuoto motivazionale”, contrarietà ai principi sanciti dalla Costituzione, richieste irrituali e non in linea ai protocolli internazionali. Perché non confidare nel sistema giudiziario vaticano?

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Colpo di scena: dopo la mancata convalida da parte dei magistrati italiani delle misure cautelari nei confronti di Cecilia Marogna – cittadina italiana indagata oltretevere per il reato di peculato – gli inquirenti vaticani hanno ritirato la richiesta di estradizione in Vaticano. Per consentire – si legge nel bollettino della Santa Sede del 18 gennaio – “all’imputata di partecipare al processo in Vaticano, libera dalla pendenza di misura cautelare nei suoi confronti”. Gli inquirenti vaticani, in pratica, fanno sapere alla Marogna che può serenamente recarsi dall’altra parte del Tevere e farsi giudicare. Noblesse oblige. E questo dopo che la Marogna era stata arrestata e incarcerata in Italia per oltre quindici giorni in esecuzione di provvedimenti adottati dagli inquirenti vaticani, provvedimenti poi cassati dai magistrati italiani per “vuoto motivazionale”, contrarietà ai principi sanciti dalla Costituzione, richieste irrituali e non in linea ai protocolli internazionali. Perché non confidare nel sistema giudiziario vaticano?

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Qui non interessano le parti in causa o le vicende, sulle quali solo le autorità competenti potranno fare luce. Sono evidenti però le contraddizioni sul piano dottrinale, se si pensa a come il magistero della Chiesa invita al rispetto della dignità umana; sul piano istituzionale, visto il corto circuito tra Stato vaticano e Santa Sede, quest’ultima oramai quasi bullizzata dal primo; e sul piano giuridico, date le pronunce dei magistrati italiani, che non attirano l’attenzione su beghe formali, ma sulla carenza di garanzie procedurali e sulla violazioni dei diritti umani fondamentali che sembrano essere consentiti nel sistema penale vaticano. Sia bene inteso, non si discute sul piano politico la monarchia assoluta che regna in Vaticano. Sono anzi alcuni cardini su cui dovrebbe poggiare questa monarchia a far gridare allo scandalo, come la verità, la dignità della persona, la giustizia e la carità, radicati nel Vangelo, strutturati nella saggezza giuridica dell’ordinamento canonico, e proiettati a livello internazionale dalla Santa Sede. Può Papa Francesco, Papa della misericordia, assecondare le derive giustizialiste di uno Stato, quello vaticano, che Stato a tutti gli effetti non è, e che risulta essere fuori dal tempo e dal mondo? Per Machiavelli almeno la religione era un instrumentum regni, utile a tenere uniti i popoli ai regni di questo mondo. Nel giustizialismo invece non c’è molto di religioso e certo non può dirsi sia un instrumentum ecclesiae, utile all’unità del popolo di Dio e della sua Chiesa, anzi.

 

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Negli ultimi tempi sono stati diversi gli incidenti e le riserve sull’attivismo giudiziario vaticano espresse alla prima occasione utile dai giudici esteri – ossia quelli italiani – o da organismi internazionali. Si è fatto riferimento al caso della Marogna. Un caso che genera domande. Domani, il 22 gennaio, ha pubblicato delle carte che mostrano come il Papa fosse a conoscenza dell’attività della Marogna e abbia autorizzato i pagamenti a suo favore, disposti dal sostituto della Segreteria di stato, l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra, uomo di fiducia del Papa. Allora, quale sarebbe la logica dell’indagine?

 

E ancora: le richieste di arresto formulate dagli inquirenti e diramate dalla Gendarmeria vaticana attraverso i canali Interpol saranno poi vagliate nella loro legittimità e proporzionalità e aderenza alle norme internazionali? Ci sono poi le indagini sull’acquisto di un immobile a Londra da parte della Segreteria di stato nel 2018, e il pagamento di alcune provvigioni a un mediatore ingaggiato dalla stessa Segreteria di stato, Gianluigi Torzi. Inchiesta avviata nel 2019 a seguito di una denuncia dello Ior, la cosiddetta “banca vaticana”. Il sacro fuoco degli inquirenti vaticani mostra anche qui un volto piuttosto oscuro del sistema della piccola città stato.

 

Il 1° ottobre del 2019 c’è stata la sospensione di cinque funzionari della Santa Sede, cui se ne è aggiunto un altro successivamente, che poi sono stati licenziati o non rinnovati alla scadenza naturale del mandato, con modi a dir poco spiccioli e per nulla rispettosi della stessa normativa della Santa Sede in materia di diritto del lavoro. La Gendarmeria vaticana ha svolto perquisizioni e sequestri negli uffici della Segreteria di stato e dell’Aif – l’autorità antiriciclaggio vaticana – e nelle case degli interessati, anche in territorio italiano, senza garanzie procedurali e non fornendo copia dei verbali o inventarti dei materiali sequestrati. La stessa Gendarmeria ha poi diramato una foto segnaletica degli interessati, che guarda caso è finita immediatamente alla stampa e circolata a livello planetario. Questa fuga di notizie è stata fatta ricadere sull’allora comandante della Gendarmeria, Domenico Giani, costretto alle dimissioni, benché le circostanze siano a dir poco singolari e non è escluso che anch’egli sia stato vittima di un agguato interno.

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Sorte meno fausta e ancora più sorprendente quella dell’Autorità di informazione finanziaria, all’epoca presieduta da René Bruelhart e diretta da Tommaso Di Ruzza. I due sono entrambi riconosciuti tra i principali artefici della costruzione del sistema antiriciclaggio vaticano e del suo accreditamento internazionale, incluso lo stabilimento di relazioni ufficiali con le controparti italiane – Banca d’Italia e Uif.  Eppure, sono stati di fatto bruscamente sfiduciati e non rinnovati alla scadenza del loro mandato con la discutibile motivazione di un ruolo non chiaro e una presunta omessa denuncia della compravendita dell’immobile di Londra e delle operazioni connesse – concluse e decise, e lo mostrano i leak disseminati qua e là sui media - prima che l’Aif fosse informata, non avendo alcun ruolo di vigilanza sulla Segreteria di stato.

 

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Si era nel frattempo rotto l’incantesimo tra l’Aif e Papa Francesco, che nemmeno un anno prima aveva elogiato pubblicamente l’autorità durante gli auguri alla Curia romana del 2018. Di lì a poco si sarebbero dimessi anche due dei quattro consiglieri, tra i quali Juan Zarate, americano, tra l’altro, consigliere della Casa Bianca nella lotta al finanziamento del terrorismo sotto l’amministrazione George W. Bush. Un segnale non positivo per la credibilità del sistema antiriciclaggio della Santa Sede. Sta di fatto l’Aif era stata decapitata.

 

Il raid della Gendarmeria vaticana presso la sede dell’Aif ha indotto il Gruppo Egmont – l’organismo internazionale che include 166 Uif di tutto il mondo – a sospendere il 13 novembre 2019 l’Aif dal circuito di scambio di informazioni, fuori dal quale l’intelligence finanziaria della Santa Sede è stata isolata dal resto del mondo, di fatto denunciando la violazione dell’autonomia e l’indipendenza dell’Aif, con la conseguente impossibilità per le forze di polizia di acquisire senza consenso gli scambi di intelligence finanziaria tra le Uif. Un principio cardine per il Gruppo Egmont. tra gli standard internazionali vincolanti nell’Unione europea – alla quale la Santa Sede è vincolata con una Convenzione monetaria – oltre che tra i criteri chiave sulla base dei quali è svolta la valutazione da parte del Comitato Moneyval del Consiglio d’Europa, al quale è sottoposto il sistema antiriciclaggio della Santa Sede. Gli inquirenti vaticani avrebbero spiegato il raid come frutto di circostanze straordinarie. Ma queste circostanze di certo non possono convincere i capi delle altre unità di intelligence che siedono nel Gruppo Egmont, perché gli attacchi strumentali contro le Uif non sono insoliti – uno degli ultimi casi si è registrato in Germania.

 

Un incidente internazionale, insomma. Ma così non è stato riferito a Papa Francesco, a quanto pare, dal momento che nella conferenza stampa in aereo del 26 novembre 2019, di ritorno dal viaggio in Thailandia e Giappone, il Papa risponde a domanda precisa: “Il gruppo Egmont è una cosa non ufficiale, internazionale; è un gruppo a cui appartiene l’Aif. E il controllo internazionale non dipende dal gruppo Egmont, il gruppo Egmont è un gruppo privato, che ha il suo peso, ma è un gruppo privato”. Sta di fatto che il 23 gennaio 2020 un bollettino ufficiale della Sala Stampa ha annunciato la riammissione dell’Aif nel circuito di scambio di informazioni tra Uif del Gruppo Egmont: “Anche grazie alla sottoscrizione di un protocollo d’intesa con il Promotore di Giustizia”. Ora, se il raid fosse stato connesso a delle persone, nel frattempo brutalmente rimosse, o a delle lacune normative, sanate da tempo, non sarebbe stato necessario un impegno scritto degli inquirenti vaticani a non ripetere simili azioni in futuro. Ci è voluto anche un atto di ravvedimento formale dei Promotori di Giustizia per risolvere l’incidente, cosa che ha dimostrato che, in fondo, la Santa Sede non considera Egmont un gruppo privato.

 

Emergono poi altri nodi da sciogliere come nel caso Marogna. Come chiarito dagli stessi inquirenti vaticani all’Associated Press il 12 gennaio, Papa Francesco pare abbia partecipato a una riunione tra persone che stavano negoziando le fasi finali per la buonuscita di Torzi, durante la quale il Papa “ha chiesto loro di trovare una soluzione con la buona volontà di tutti”. Gli stessi inquirenti hanno precisato che il Sostituto in carica all’epoca dell’epoca del perfezionamento dell’acquisto, l’arcivescovo Peña Parra, non sarebbe tra gli indagati, perché “non era stato informato” adeguatamente dai suoi collaboratori sul loro operato, anche se sono le carte spedite dagli inquirenti vaticani a quelli italiani – ampiamente riferite dalla stampa – a far emergere un ruolo centrale di Peña Parra.

 

Ora, se tutti – come credenti e non credenti – guardano al Papa con rispetto, come si può tacere davanti alle evidenti contraddizioni? Se fosse vero che è stato il Papa ad avere autorizzato l’acquisto del palazzo di Londra e i negoziati per la buona uscita di Torzi, e che è stato lo stesso Papa ad avere autorizzato gli inquirenti vaticani a svolgere le indagini con una istruttoria sommaria, sospendendo le poche garanzie di fatto esistenti e limitando fortemente il diritto di difesa degli indagati, quale sarebbe la logica dell’indagine? Se è poi vero che è stato Peña Parra ad autorizzare l’operazione e il successivo pagamento delle provvigioni a Torzi, come si fa a tenerlo fuori dall’indagine? In un governo autocratico come quello della Santa Sede, dove ogni azione è decisa e autorizzata dai superiori, si può credere che la Suprema autorità – il Papa – e il Sostituto non fossero pienamente consapevoli delle operazioni che passo dopo passo hanno autorizzato? E anche se ciò fosse, in qualche misura, come segnare il confine tra il punto in cui terminerebbe la consapevolezza dei superiori e quello in cui inizierebbe la presunta mala fede degli esecutori delle decisioni dei superiori? Non certo con la giustizia sommaria che prima condanna pubblicamente e poi giudica. Resta dunque il dubbio che alcune inchieste siano state attivate a orologeria e condotte a macchia di leopardo, per cui agli amici si concede tutto, ai nemici nemmeno la giustizia.

 

Quale è il senso di tutto questo? Di sacrificare alcuni e proteggere altri ostentando al mondo una ritrovata purezza del sistema? Ma forse sottovaluta ciò che Gesù ha detto ai farisei duemila anni fa e che vale anche per i pastori della Chiesa, quando “legano… pesi gravi e insopportabili e li caricano sulle spalle degli uomini, ma … non li vogliono muovere neppure con un dito. Fanno tutte le azioni per essere veduti dagli uomini ... vogliono essere salutati nelle piazze ed essere chiamati maestri della gente”.

 

Ormai è evidente anche ciò che si vuole nascondere e non solo ciò che si vuole ostentare. Circostanze che saranno come minimo contestate dalla difesa degli imputati in un eventuale processo in Vaticano. Per non parlare delle eventuali richieste di risarcimento di danni alla Santa Sede, che potrebbe continuare a rifiutare di essere giudicata da una corte internazionale sui diritti dell’uomo, con conseguenze nefaste sul piano della sua credibilità internazionale e dell’immagine della Chiesa, oppure accettare di essere giudicata, con conseguenze in ogni caso negative anche sul piano economico. In fondo, ce lo si può aspettare. Ed è un rischio che, in fondo, aveva già messo in luce Giuliano Ferrara, in tempi non sospetti, quando scriveva su queste colonne sul Papa “giustiziere di procura”.  A quel punto quale sarebbe il vero scandalo? E chi sarebbe sul banco degli imputati, dinanzi al giudizio della storia, della giustizia umana, e di quella divina? Questa, sì, uguale per tutti. 

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