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L'editoriale dell'elefantino

Nello spaventoso mondo di Jorit

Giuliano Ferrara

Tra razzi putiniani e morti nel Mar Rosso, alleanze nucleari e guerre, mai avevamo dovuto confrontarci con un simile fascio di fanatismi, di deliri ideologici e religiosi, di blindati ai nostri confini. È il momento dello squilibrio. E nello squilibrio il mondo cosiddetto libero sa reagire. Fino a un certo punto

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Viviamo nel mondo di Jorit, e non è che sia un mondo bellissimo. Mentre lo street artist di noialtri si prosternava a un italianizzante Putin, “com’è umano lei” (Fantozzi a Mosca di purissimo conio), qui si facevano i conti con l’operazione speciale di routine che per poco non ha fatto fuori due premier europei a Odessa, due al prezzo di uno, e Medvedev beffardo diceva che è stato un caso ma non sarebbe stato poi così male se si fosse incassato il risultato; il ministro degli Esteri cinese spiegava con eleganza epistemologica il “nuovo paradigma” lunare di un’alleanza che punta al nucleare stratosferico, per non parlare di Taiwan; arrivavano i primi morti per acqua nella rotta commerciale del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, morti di marca houthi, alleato di Hamas dell’Iran di Mosca e di Pechino; si celebravano con il Super Tuesday i fasti del nemico assoluto della Nato, che si augura il peggio per gli alleati e partner europei degli Stati Uniti; continuavano imperterriti il blocco degli aiuti all’Ucraina, che deve trangugiare il piombo neoimperiale e lo spostamento virtuale e effettuale dei confini usciti dalla vittoria dell’occidente libero nella Guerra fredda, e il progetto di impantanare Israele a Gaza nella plaga dell’umanitarismo, e dalle nostre parti si discute di elezioni europee, di quanto è gaffeur Macron, di Sardegna e di Abruzzo. Il mondo di Jorit è questo, e fa una discreta paura.

    
Che cosa sia realmente accaduto lo sapremo probabilmente a cose fatte, se continua così. E allora si vedrà che era in atto e si protendeva verso un radioso avvenire una grande ondata revanscista che aveva l’obiettivo di castigare il mondo dell’89, quando la storia si era messa sulla via della globalizzazione e del progresso dal carcerario al tecnologico, dal plumbeo al limpido o almeno a qualcosa di simile alla trasparenza democratico-liberale. “American fiction” è il titolo di un film da Oscar che fa la parodia del mondo ipercorretto, della nuova ideologia. Ma è anche una formula, l’idea che l’America sia diventata una fiction truffaldina, idonea a spiegare bene l’irrealtà della nuova ideologia, lo schermo di concetti e di follie comportamentali dietro al quale si riparano le correzioni del canone occidentale e le cancellazioni della croce di Cristo e altre meraviglie postcoloniali del mondo scristianizzato e reso eunuco dalla propria codardia. Siamo stati in altri momenti di fronte allo spiegamento di esigenze e pressioni forti di tipo multipolare, con i non allineati, la Conferenza di Bandung, e l’Unione sovietica in anni ormai lontani con Gromiko sembrava tenere sulle ginocchia il mondo dei Caspar Weinberger e del Pentagono. Rischi se ne sono corsi anche in altre epoche, dalla Corea a Suez fino al Vietnam.

   
Mai però avevamo dovuto confrontarci con un fascio di fanatismi, di deliri ideologici e religiosi, di dogmi che suonano campana a morto per le nostre certezze, di riscritture così totali della storia e di blindati ammassati ai nostri confini. Per quanto limitata, quella dell’Ungheria del 1956 e quella della Praga del 1968 era una sovranità, faceva parte di un accordo di guerra e di pace stipulato a Yalta. Ora è il momento dello squilibrio, e nello squilibrio si vede che il mondo cosiddetto libero sa reagire, sa battersi, cerca una strada per confermare la sua identità, ma up to a point, fino a un certo punto.

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