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In morte di Antonio Paolucci, grande storico dell’arte e sovrintendente che amava su tutto il Medioevo

Camillo Langone

Senza di lui non saprei che fino al Duecento l’Italia dell’arte era una provincia bizantina, che prima a smarcarsi fu la scultura (la pittura arrivò dopo), che il capolavoro di Giotto non si trova ad Assisi bensì a Padova…

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Non ho mai bevuto un Negroni con lui, ed è uno dei miei mille rimpianti. “Je ne regrette rien” cantava Edith Piaf, beata lei, io invece rimpiango tutto e non soltanto il passato: rimpiango quello che ho fatto, rimpiango quello che non ho fatto, rimpiango quello che non potrò più fare. Di sicuro non berrò mai un Negroni con Antonio Paolucci, morto ieri nella sua patria d’elezione, Firenze. Persi l’attimo nel periodo in cui frequentavo la Città del Fiore e il Caffé Rivoire, e il capobarman e negronista massimo Luca Picchi mi diceva che il gran storico dell’arte, allora sovrintendente, era suo prestigioso cliente e pure lui apprezzava, come me, come ogni italiano di classe, il cocktail inventato in città dal conte omonimo ed eponimo, Camillo Negroni. Purtroppo non lo incrociai mai. Lo lessi, invece.

    
L’articolo elitista, apparso sul Sole, in cui si scagliò contro la turistizzazione dell’arte: “Al tempo di Berenson agli Uffizi entravano trentamila persone all’anno. Oggi ne entrano un milione e mezzo. Ebbene io sono convinto che il numero di persone che escono dagli Uffizi avendoci capito qualcosa è rimasto lo stesso”. E pensare che nel museo fiorentino non era ancora apparsa Chiara Ferragni, colei che ha osato ridurre a sfondo la Venere di Botticelli (questa la sua vera colpa, altro che pandori!).

  
Poi il libro medievista (nell’accezione che forse invento ora di filo-medievale), pubblicato da Giunti col titolo troppo generico di “Arte italiana”: “Il Trecento è stato il grande secolo degli italiani. Mai in seguito, neppure nell’epoca che i manuali chiamano del Rinascimento, la vitalità intellettuale e la creatività artistica del nostro popolo hanno toccato livelli altrettanto alti”. Musica per le orecchie di chi come me, come John Ruskin, Oscar Wilde, Domenico Giuliotti, Pavel Florenskij, Federico Zeri, don Giussani, Cristina Campo, Michel Houellebecq, sente il Medio Evo come apogeo e il Rinascimento come caduta. Grazie a quel libro, divulgativo senza essere corrivo, ho capito varie cose: che fino al Duecento l’Italia dell’arte era una provincia bizantina, che prima a smarcarsi fu la scultura (la pittura arrivò dopo), che il capolavoro di Giotto non si trova ad Assisi bensì a Padova… 
     

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Passando a secoli successivi, senza Paolucci oggi non saprei che i palazzi costruiti a cavallo fra Sette e Ottocento nella piccola città di Faenza “sono quanto di più squisito la civiltà neoclassica abbia prodotto in Europa”. In effetti il neoclassico non è il mio forte, di Faenza amo altre cose… Sempre restando in Romagna e non a caso (era nato a Rimini nel 1939), definiva quadro più bello del mondo “Fiori in una fiasca impagliata” conservato nel Museo San Domenico di Forlì. Fantasticamente dipinto da un pittore certo del Seicento ma di incerto nome: Tommaso Salini? Guido Cagnacci come voleva Francesco Arcangeli? O un terzo sconosciuto artista, il Maestro della Fiasca di Forlì?
 

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A essere onesti, a non nascondere nulla, fece anche il ministro dei Beni culturali (1995-96, governo Dini) ma nessuno è perfetto, un Negroni con lui lo avrei bevuto volentieri lo stesso.

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