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L’America di Martin Amis

Stefano Pistolini

Avanti e indietro da Londra verso “l’altra parte” per stare con Hitchens e poi stabile, a Brooklyn. I reportage, i romanzi, la curiosità politica e la scossa letteraria che gli inglesi hanno vissuto come un tradimento

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C’è qualcosa, qualcuno di scomparso, di smarrito, all’origine dell’allontanamento di Martin Amis dall’Inghilterra, in particolare dalla sua Londra. C’è l’estinguersi doloroso di un’amicizia e dei suoi significati, provocato dalla morte prematura del compare Christopher Hitchens, che non era un collega ma un fratello, raccontava storie diverse dalle sue, ma condivideva fino al midollo quello che era uno stile di vita. Ragionare, dire, esporsi, provocare, attaccare, capire, godere di questa empatia dinamica, trasfonderla in un edonismo scapigliato, rincorrere la vita nell’èra Thatcher, sorpassarla nei pub di Londra, nelle capitali europee, negli appartamenti, nelle stazioni e negli aeroporti. L’America per Chris e Martin è l’altra faccia della Luna, il completamento del discorso, il termine di paragone, l’eterno ovest da esplorare. E, ancora, è l’America assaporata da chi ha vissuto questa fissazione nel secondo Novecento, con la distanza a fatica colmabile, le dimensioni incomprensibili, i suoi stimoli talmente fulminei da sembrare elettrici. 

Amis ne ha avuto esperienza da ragazzino, al seguito del padre, il venerabile Kingsley, e della sua frastagliata carriera accademica. Tra il 1959 e il 1960 la famiglia vive a Princeton, nel New Jersey: “L’America mi eccitò e mi spaventò. Come non ha mai smesso di fare”, ricorda. Un quarto di secolo dopo, nel crescendo di un’effervescente carriera di narratore, Martin torna all’America, stavolta nei panni del reporter di razza, commentatore privilegiato con la forza di una visione letteraria che ha trovato la sua voce, pubblicando nell’86 The Moronic Inferno, l’inferno idiota, rimasto inedito in Italia e il cui titolo ha preso in in prestito da Saul Bellow, che a sua volta l’ha prelevato da Wyndham Lewis: una raccolta di saggi acuti, in cui delinea le future prospettive del Grande Paese, entusiasmandosi al cospetto di tante sue personalità – Nabokov, Didion, Capote, Mailer, Vidal, Reagan, Hefner – ma tracciando nel contempo foschi scenari della temperie popolare americana, già traversata da una silenziosa, determinata follia. Un sopralluogo svolto con una prospettiva ancora intrisa di satira brit, vaste zone di autoreferenzialità e un’attenzione maniacale all’aria dei tempi e alla mutazione delle tendenze – non poteva essere altrimenti, da che il suo ruolo culturale si definisce proprio in questa direzione, come l’intellettuale capace di fondere apparenza e sostanza della società che l’ha formato. 

Da lì in poi l’America diventa la meta abituale dell’Amis superstar letteraria, sebbene sempre nelle vesti del visitatore, mentre invece Hitchens mette su casa niente meno che nella sofisticata-complicata Washington, con la scusa che la politica è il suo core business e quello che succede in città è infinitamente più interessante delle beghe di una macilenta monarchia. Ovvio che l’accelerazione americana, la centrifuga di finanza, avidità, bellicismi e potere, richiami anche lo sguardo di Amis, ma più a intermittenza, senza mai catturarlo del tutto. E presto i suoi viaggi dall’altra parte dell’Atlantico diventano missioni di solidarietà per l’amico, che nel frattempo s’è ammalato, si consuma, patisce le pene dell’inferno addirittura in Texas, dove tenta la cura o-la-va-o-la-spacca, per arginare il cancro all’esofago che lo ucciderà a fine 2010. Probabile, ma non ce ne sono prove, che sia lo choc definitivo che spinge Amis – è il 2012 – a fare a sua volta il paso doble verso l’America, traslocando la propria sensibilità in un palazzone bruno di Brooklyn, trascinandosi dietro la tribù e lasciando l’isola dove aveva disseminato tanti romanzi e molti più cuori infranti. 

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Nell’occasione è curiosa la distanza tra le ipotesi edificate attorno alla scelta di un intellettuale e la realtà dei fatti. Il trapianto di Martin Amis sui lidi americani diviene un caso nazionale e, per certi versi, un affronto mai digerito dai connazionali. Che diavolo poteva spingere l’ex ragazzo specializzato nei raid alcolico-umanistici nei lupanari della capitale a tradire Albione, per di più  atteggiandosi al disgusto e alla denuncia della morte della vera Inghilterra? Ci vuole poco perché piovano critiche e frecciate dal salotto letterario londinese, che non gli perdona l’ineleganza di quell’esilio fino a costringerlo a precipitose precisazioni, invocando la morte della madre come molla per la decisione, nonché le richieste di sua moglie Isabel di riavvicinarsi alla famiglia. In un’intervista al Nouvel Observateur, Amis prova a razionalizzare il gesto: le motivazioni sono pratiche e banali, ma è pur vero che la decadenza morale del suo paese gli ha offerto una ragione in più per varcare l’oceano, anche se “sono ancora inglese. Ho casa in Inghilterra. Il mio trasferimento non è permanente, semplicemente non ha una scadenza”. Invece i dieci anni di vita che gli restano, prima di morire dell’identica morte dell’amico Hitch, li trascorrerà in America, individuando poco alla volta motivazioni creative per la scelta, connesse con ciò che ha sempre fatto, scrivere, e che gli sembra assuma più senso se messo in pratica a New York, sull’uscio d’America, più che sui palcoscenici sociali londinesi che fin troppo ha calpestato. 

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E’ lui stesso a parlarne nelle interviste dopo il trasferimento, descrivendo la scossa che può colpire il romanziere di professione allorché mette piede nella Grande Mela, aumentandone il voltaggio produttivo e, per esempio, facendogli sfornare in men che non si dica una serie di romanzi “fully american”, prima di riappropriarsi dello status più sfumato di “resident alien”, di osservatore distaccato. Insomma, il meccanismo della stimolazione dello scrittore provocato da New York e dalle sue atmosfere funziona anche per lui: “Era successo a Philip Roth e lo stesso ha fatto con me. Anche se con alcuni elementi di terrore”, racconta. Lasciandosi perfino andare a considerazioni di pura ingenuità: “Solo quando ci vieni a vivere, afferri la dimensione continentale di questo paese. Guardi una mappa e pensi: l’Ohio? Cos’è l’Ohio? Eppure è enorme. E ti senti microscopico”. In patria a lungo non lo perdonano: “C’è stato un tentativo ricorrente, di farla passare come disaffezione verso il mio paese, come se avessi voluto dire: Inghilterra, va a farti fottere!”. Lui invece sostiene d’essere progressivamente attratto dalla politica americana come non lo è mai stato da quella inglese. Di volerla approfondire, nella convinzione che rappresenti il centro gravitazionale del mondo. Dedica attenzione e pagine notevoli (la raccolta L’Attrito del Tempo, 2019) all’avvento del populismo americano di cui descrive il dato istintivo e sentimentale, che trova trionfale rappresentazione nell’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca. Denuncia ripetutamente il diffuso anti intellettualismo, subisce con fastidio l’etichetta di “Mick Jagger del mondo letterario”, adesso che è avanti con l’età e solo a intermittenza gli va di interpretare il divo del cosmopolitismo anglosassone. Appassisce con dignità a Brooklyn, perché forse la fine gli sarebbe stato insopportabile viverla da superstite a casa propria, dove la pattuglia degli smaglianti talenti inglesi – McEwan, Rushdie, James Fenton, Julian Barnes – si va assottigliando, e diventa più fragile e incagliata nelle proprie ubbie e nei suoi dissapori. E come Hitchens, muore “stateside”, dall’altra parte, godendosi i vantaggi e la discrezione di avere infine scelto la lontananza.

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