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L'amicizia di Amis con Hitchens e altre amicizie, cioè il vero stile secondo Borges

Edoardo Rialti

“Vengo dalla Scozia, ma non posso farci nulla” la battuta che diede inizio ad un'amicizia durata più di vent'anni tra due grandi intellettuali

Si racconta che quando due signore si complimentarono col dottor Samuel Johnson per aver espunto dal suo Dizionario tutte le parole volgari, questi domandò loro: “Le avevate cercate tutte?”. Per ironia della sorte l’episodio non figura nella Vita redatta dall’amico e biografo Boswell, eppure ne spreme lo spirito essenziale. Un’amicizia tra intellettuali fatta di conversazioni mai iniziate, mai finite, avventure galanti, sostegno reciproco per oltre vent’anni e iniziata con una battuta: “Vengo dalla Scozia, ma non posso farci nulla”


Quando la notizia della morte di Martin Amis si è diffusa al Salone del libro di Torino in molti hanno reagito d’istinto, aggiungendo un brindisi ulteriore a quelli notturni per uno degli ultimi rappresentanti d’un mondo giornalistico e letterario, quello sviluppatosi a partire dagli anni 70 alimentato a suon di sbornie joyciane, notti brave, donne, uomini, discussioni, risse, cazzate che a posteriori assumono i toni dell’epos e un susseguirsi infinito di sigarette. Non solo, però. Perché la somma della produzione narrativa e saggistica di Amis, quello stile che secondo Borges uno scrittore autentico comunica al mondo e che comprende e scavalca tutte le sue opere, risulta pressoché inscindibile da una trama intessuta da una grande fondamentale amicizia. Il mondo britannico non è nuovo a questo. I Poeti dei Laghi, e poi il Chesterbelloc, come veniva chiamato, ossia il mostro bizzarro composto da Chesterton e Belloc, e il gruppo oxoniano degli Inklings cui fecero parte C. S. Lewis e Tolkien. E fu proprio negli anni di Oxford, tra esordi giornalistici e battaglie politiche che un incontro fugace e piuttosto casuale permise a Amis di conoscere il suo dantesco “primo amico”, Christopher Hitchens uno dei grandi polemisti del secolo passato, l’autore di Dio non è grande (titolo giudicato dal suo autore troppo lungo per l’aggettivo) o Il processo a Henri Kissinger, oratore pari solo a Demostene o Cicerone a giudizio di Amis stesso. L’altro restituì a suo modo il complimento: “Lungi dall’essere un Casanova stanco, Martin possiede il raro dono, invidiabile sebbene potenzialmente dispendioso in termini di tempo, di essere in grado di trovare qualcosa di attraente in quasi tutte le donne. Se questa è misoginia, allora datecene a cascata”. Più ancora, gli riconobbe di avergli insegnato come non scrivere, come evitare cliché e rozzezze.

I due avevano maestri comuni e altri individuali. Il trotskista Hitchens sarebbe sempre tornato a George Orwell, anche quando sarebbe approdato alla difesa da sinistra del sistema liberale americano e perfino della guerra in Iraq. Amis, oltre a Bellow, attingeva alle sottigliezze di Nabokov per la sua critica estetica della politica e della società occidentale. “My Hitch” – come lo chiamava lui – affiora costantemente nella sua narrativa, sotto pseudonimi romanzeschi o in una cascata di aneddoti e accenni nelle memorie di entrambi. “Hitch: stabilire regole sul bere può essere segno di alcolismo. (Anche Adorno avrebbe apprezzato)”. A percorrere l’opera di tutti e due si avverte continuamente la vibrazione d’un clima che precede, informa e supera ogni parola pronunciata o scritta, una tensione intellettuale e un affetto che si alimentano a vicenda, un sostegno previo che non smette al tempo stesso di prendersi in giro. “Niente palle sinistre era la nostra espressione colloquiale per indicare un certo tipo di sinistrismo sempliciotto”. Ne facevano parte anche altri nomi della letteratura contemporanea, come James Fenton, Ian McEwan o il Salman Rushdie che un Amis alticcio perculava per la venerazione per Beckett: “Basta unire il massimo della bruttezza a un mucchio di negativi. ‘Neppure il nulla è mai’”. A quel punto Salman pareva un falco con gli occhi puntati tra le fessure di una tapparella. “Vuoi che andiamo a parlarne fuori?”. Norman Mailer in un’intervista al vetriolo rammentata da Hitchens dichiarò “come l’ambiente letterario di Londra fosse stato manovrato contro di lui da una conventicola omosessuale dominata da Martin Amis, Ian Hamilton e me. Martin e io scherzammo un po’ con l’idea di scrivere una lettera per dire che si trattava di una dichiarazione molto scorretta – almeno nei confronti di Ian Hamilton”. Tutto ciò non impedì ai due amici di scontrarsi pubblicamente sulle miopie della sinistra europea verso lo stalinismo. E proprio questo è il punto. La galassia di quell’umanesimo secolare, di quel neoilluminismo che continuava a ispirarsi proprio a Johnson o Russell, già oggi sembra così remota. Eppure in un panorama culturale, quantomeno nostrano, così facilmente pervaso da consorterie incentrate sull’incensazione reciproca che è l’opposto tanto della narrativa quanto della vera vita dello spirito e della stima intellettuale, in schieramenti dove l’ideologia  – nel migliore dei casi – fonda l’amicizia, resta sempre una boccata d’aria tornare a figure per cui l’amicizia era la sola ideologia.

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