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(1929-2022)

Hans Magnus Enzensberger, l'intellettuale che ha reso accessibile la cultura del '900

Matteo Marchesini

Dalla più complessa alla più vertiginosa, l'opera letteraria dello scorso secolo sembra spesso lontanissima. Ma lo scrittore e saggista ha trovato un senso comune alle rime e ai versi più irraggiungibili 

Visto dall’Italia, e forse anche dalla Germania, Hans Magnus Enzensberger non appare come un singolo scrittore, ma come il luogo fisico in cui fino a ieri hanno convissuto in armonia miracolosa più scrittori diversi, che di solito sono ben separati e magari l’uno all’altro ostili. Per ricondurlo alla propria letteratura, il lettore italiano deve immaginare un autore che sia insieme un Fortini mercuriale, agile, aereo, e un Calvino disposto a rischiare la critica dell’ideologia. Quanto al lettore tedesco, trova in Enzensberger una figura quasi scandalosamente priva della pesanteur, del profondismo esibito così tipico dei connazionali: è un Adorno tradotto nella lingua piana di Orwell, cioè un intellettuale che ha capito subito che le teorie francofortesi, per non venire neutralizzate nell’accademia habermasiana, dovevano essere adattate ai generi del diario e del reportage, da lui praticati con una souplesse anglosassone degna di Isherwood. Il saggista in versi e in prosa della “Fine del Titanic” e di “Questioni di dettaglio” ha insomma reso maneggevole e portatile, senza mai banalizzarla, la più complessa e vertiginosa cultura continentale del ’900

 

Davanti all’ubiqua piccola borghesia europea del Ventesimo secolo al tramonto, bovaristicamente ipnotizzata dai finti rivoluzionari e dai finti mistici, Enzensberger ha intuito che il richiamo a un senso comune appena increspato dall’ironia era uno strumento critico più demistificatorio ed efficacemente radicale di qualunque retorica estremistica. La puntualità con cui senza mai strafare, sparendo e riapparendo sulla scena a intervalli calibratissimi, questo poligrafo si è sempre fatto trovare al momento giusto nel posto giusto del pianeta, dipende senza dubbio dall’infallibile demone socratico che gli suggeriva prima di tutto quando dire “no”. Non a caso, Enzensberger ha evitato con astuzia d’impantanarsi nelle grandi costruzioni romanzesche, oggi nove volte su dieci velleitarie, e ha nascosto la sua vena narrativa dietro l’apologo, il dialogo teatrale, l’autobiografia, la cronaca saggistica o il poemetto. Anziché “romanzare” una realtà che si presenta già come fiction, l’ha reinventata in forme assai più originali attraverso un sobrio uso della citazione e del montaggio di documenti, mescolando alla prassi di Brecht e Kraus l’umorismo scettico e cordiale di chi sa che il mondo è troppo folle e vario per essere ridotto a una filosofia della storia o a un ultimo giudizio apocalittico. 

 

“Le mie difficoltà con le religioni, le filosofie e i sistemi ideologici: purtroppo non riesco proprio a credere che vengano presi sul serio”, ha scritto da vecchio in “Tumulto” l’ex ragazzino avanguardista del Gruppo ’47 che ha distrutto il concetto di avanguardia, l’ex marxista che ha frequentato i comunisti più da antropologo che da compagno. Che parli della rivoluzione in America latina o del declino dell’Europa, della criminalità italiana o della deprimente scolasticizzazione dei poeti, Enzensberger ci ricorda che in cielo e in terra ci sono molte più cose di quante ne possa sognare un ideologo moderno. Il suo empirismo, il suo scetticismo, la sua passione per gli individui e per la pluralità dei punti di vista fanno pensare a Montaigne, a Diderot, a Herzen. In sintesi, questo ecologo della cultura postmoderna ha incarnato un ossimoro: è stato un tedesco nemico delle idee fisse, che per non inquinare i dibattiti – diceva – vanno gettate “dopo l’uso”.

 

Da noi hanno tentato di annetterselo i neoavanguardisti, ma in modi poco credibili: loro, infatti, erano dei dogmatici. I suoi veri fratelli, in Italia, sono stati invece Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli, due tipici saggisti da rivista. Come Bellocchio e Berardinelli, lo scrittore tedesco ha insistito su un fatto essenziale che la sinistra dimentica sempre: la lingua con cui gli ideologi spronano gli oppressi non è quasi mai la lingua del loro pubblico. Sul suo “Titanic”, un oratore grida invano ai poveri della terza classe di approfittare del naufragio e vendicarsi dei ricchi. Solo che gli emigranti “Capivano, certo, quel che diceva, / ma non capivano lui. / Le sue parole non erano le loro. / Erano rosi da paure diverse / dalle sue, e da altre speranze. / Rimasero lì in piedi, pazienti, / con i loro zaini, i loro rosarii, / i loro bambini rachitici, / dietro alle barriere, gli fecero largo, / lo ascoltarono, rispettosamente, / e attesero, finché non affondarono”. 

 

Per concludere questo ritratto funebre, però, vorrei citare una poesia più recente, “Scienza astrale”, dove si vede bene come quanto più si arrende malinconicamente alla propria incapacità di determinare le sorti dell’universo, tanto più la ragionevolezza di Enzensberger guadagna in nitore, in leggerezza spiritosa, persino in felicità: “Il suo mondo fatto di nulla o quasi, / di fantomatiche superstringhe / nello spazio decidimensionale, / strangeness, colour, spin e charm – // però quando ha mal di denti, / il cosmologo; / quando sfreccia / sulla pista a St. Moritz; / mangia patate in insalata / o va a letto con una signora / che non crede ai bosoni; / quando muore, // le fiabe matematiche evaporano, / le equazioni si sciolgono / e lui rientra dal suo aldilà / in questo aldiquà / di dolore, neve, piacere, / patate in insalata e morte”.

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