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il mistero di un'immagine

La fotografia secondo Geoff Dyer, arte dell'infinito istante

Vittorio Bongiorno

Torna il libreria il saggio-romanzo di un irregolare della scrittura, un entusiasta di sesso, droga e jazz che è arrivato al successo con "Natura morta con custodia di sax". Le foto non le ha mai scattate, e forse per questo conserva lo sguardo particolare che irrita gli specialisti

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Che cosa è veramente una fotografia? Qual è il mistero impenetrabile che aleggia dietro quell’oggetto bidimensionale, a volte a colori a volte in bianco e nero, orizzontale o verticale, che ha fatto la sua comparsa su questo mondo da un paio di secoli appena? E, ancora, perché fotografi diversissimi, vissuti in città lontane, continenti lontani, periodi significativamente diversi, che a volte si sono conosciuti ma a volte no, hanno scattato le stesse foto di strade, mani, cappelli, finestre, nudi, porte, pompe di benzina? Quale è l’impalpabile legame che rende senza tempo quell’istante catturato dall’obiettivo? Domande intricatissime e inafferrabili, senza risposta certa, a tratti perniciose, che sono però alla base dell’Infinito istante (il Saggiatore, 2022), l’originalissima investigazione letteraria di Geoff Dyer, uno dei più importanti scrittori inglesi contemporanei. In questa nuova edizione del suo libro (per anni fuori catalogo) ha raccolto gli scatti di giganti della fotografia come Alfred Stieglitz, Paul Strand, Walker Evans, Robert Frank, Dorothea Lange, Diane Arbus e molti altri e altre. 

Dyer è un vero narratore giramondo con bagaglio a mano sempre pronto (compreso l’inseparabile cuscinetto da viaggio che una volta stava perdendo in Puglia…). Da un po’ di tempo vive a Los Angeles e ha una biografia da vera star: amico personale del grande critico d’arte, poeta e scrittore John Berger (a cui ha dedicato il suo libro d’esordio), è stato un vero entusiasta di sesso droga e soprattutto jazz, che ha spesso raccontato in romanzi e libri di non-fiction prima che la non-fiction diventasse di moda. Di più: nella sua scrittura i confini tra i generi, la biografia e l’invenzione, sono diventati sempre più labili, fino a produrre uno stile inconfondibile che gli è valso illustrissimi elogi. Proprio Berger ha scritto dell’Infinito istante che “dopo averlo letto, la vita sembra più grande”, e Keith Jarrett, il mitico pianista dal carattere scorbutico, ha detto del libro più noto di Dyer, Natura morta con custodia di Sax (il Saggiatore, 2019) che è “l’unico libro attorno al jazz che ho consigliato ai miei amici”.

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“Ero consapevole da tempo di come fotografi diversi fotografavano le stesse cose, ma queste cose, le cose che mi affascinavano, erano in qualche modo arbitrarie”, mi racconta in un botta-e-risposta via email, “e il metodo associativo era un modo molto personale di affrontare quella che per me è la domanda fondamentale sulla fotografia: ‘Chi cazzo? Che cosa?’. Voglio dire, la cosa che rende interessante una foto è di chi è o cosa mostra. Beh, entrambe le cose ovviamente, a volte una foto di un dilettante sconosciuto può essere grandiosa perché cattura qualcosa di importante, vedi Zapruder (il filmmaker amatoriale che riprese l’omicidio di JFK a Dallas con la sua cinepresa Super8, ndr), mentre altre volte è la visione insistente di un certo fotografo che rende il mondo conforme alla sua visione”.

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Una biografia da vera star: amico personale del critico, poeta e scrittore John Berger, è stato un vero entusiasta di sesso droga e soprattutto jazz

Lungo tutto il libro, che non è un saggio tradizionale e che si legge come un romanzo, sembra sempre che Dyer cerchi l’anima delle foto, come il sottoscritto. Una volta insistetti a lungo sul discorso dell’anima di una foto col grande fotografo siciliano Ferdinando Scianna: “Lei ha qualche problema con l’anima, io no!”, mi rispose lui. Per Henri Cartier-Bresson, maestro e amico di Scianna, la fotografia è un “modo per comprendere”, mentre per Dorothea Lange, la fotografa che ha immortalato le facce dei sopravvissuti alla Grande Depressione in America, “la macchina fotografica è uno strumento che insegna alle persone come vedere senza la macchina”. Quando gli chiedo che fotografo sarebbe, che foto scatterebbe, se a colori o in bianco e nero, Geoff risponde con il solito sarcasmo anglosassone: “Ho sentito, con Natura morta, che una pre-condizione per la mia scrittura era il non saper suonare nessuno strumento, e allo stesso modo scrivere questo libro sulla fotografia sembrava dipendere dal mio non scattare foto”.

Quello che sorprende, nell’Infinito istante, è la profondità dell’autore nell’analizzare centinaia, migliaia di fotografie, e dunque volti, e luoghi, e storie, disponendole in una mappa totalmente inedita e senza confini spazio-temporali, nonché la capacità di farci viaggiare lungo questa mappa ammaliandoci con una voce suadente ma uno sguardo obliquo. Geoff Dyer riesce, in poche parole, a guardare cose che gli altri non vedono. “Non essendo uno studioso professionista di fotografia o un curatore, ma solo un semplice spettatore”, risponde stavolta con modestia, “ho grande fiducia nell’idea e nella tradizione del dilettante o dell’antispecialista che cerca di scoprire le cose. Probabilmente l’ho acquisita da John Berger”. Nel primo capitolo, tra l’altro, dichiara subito che il libro probabilmente irriterà coloro che “della fotografia sanno più cose di me”, ma il gusto per la provocazione, l’ironia e un tocco di follia sono le forze che sorreggono il suo racconto in modo straordinario. “In termini di follia, è più una questione di avere la sicurezza di scrivere i libri che solo io posso scrivere, che sono unicamente miei”, ribatte lui, “quella fiducia è il rovescio della medaglia dell’incapacità di concepire di procedere in un modo diverso da quello. Come ha detto Walker Evans: ‘E’ come se ci fosse un meraviglioso segreto in un certo posto e io posso catturarlo. Solo io, in questo momento, posso catturarlo, e solo questo momento e solo io’”.

Dyer riesce a guardare cose che altri non vedono. “Ho fiducia nell’idea del dilettante o dell’antispecialista che cerca di scoprire le cose”

Ancora Walker Evans, l’inventore di una certa immagine dell’America in bianco e nero, l’uomo che si nascondeva tra la folla catturando l’istante esatto in cui la gente, ignara, guardava dritta nell’obiettivo della sua macchina fotografica per venire consegnata, del tutto involontariamente, all’eternità. All’infinito istante. Nel libro è molto presente anche Diane Arbus, la fotografa che ha ritratto i freak, i diversi, le gemelline “Identical twins” in abitino nero e fascia bianca in testa, o il celebre gigante ebreo Eddie Carmel alto più di due metri e mezzo insieme ai due minuscoli genitori. E’ appassionante il susseguirsi di aneddoti sulle foto dei ciechi, sulla foto della Arbus a Borges, immortalato in piedi a Central Park nel 1969 (“un cieco non può contraffare l’espressione. Non sa com’è e quindi non ha maschera”, disse lei), e dei vari viaggi del suo amico Richard Avedon, che voleva anch’egli fotografare il grande scrittore argentino (“io fotografo quello che più temo, e Borges era cieco”, disse Avedon). Chiedo a Geoff se conosce il ritratto che Scianna fece a Borges nel 1984 a Palermo, poco prima che lo scrittore morisse, e glielo mostro: “Non l’avevo mai visto, è un’immagine fantastica, grazie per avermela fatta conoscere”.

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Nonostante le immagini riprodotte anche nell’edizione italiana siano tante, per cercare di comprendere veramente il mistero dietro a tutti quegli scatti si è costretti a consultare la rete. In uno dei suoi famosi scatti di nervi, in realtà ironici, Dyer sbotta: “Non avevo mai fatto prima un libro come questo, quando lo stavo scrivendo ho pensato che sarebbe stato pieno di immagini. Ciò si è rivelato impossibile. Molti fotografi, gallerie e istituzioni erano del tutto ragionevoli e disponibili, ma alcuni mi hanno fatto infuriare. Roy DeCarava per esempio, gli aventi diritti della Arbus, la galleria di Robert Frank… A un certo punto gli agenti di Robert Frank hanno detto che si stava operando al ginocchio e io gli ho risposto ‘avrò bisogno di un intervento chirurgico anch’io se devo continuare a gattonare sulle mie fottute ginocchia in questo modo’”. (A proposito delle foto di Robert Frank, Jack Kerouac, nella prefazione del bellissimo libro Gli americani, ristampato di recente da Contrasto, scrisse “chi non ama queste immagini, non ama la poesia, capito? Frank ha estratto una poesia triste dal cuore dell’America e l’ha fissata sulla pellicola”). 

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Alcune delle pagine più belle dell’Infinito istante sono dedicate all’amicizia tra due giganti come Alfred Stieglitz e Paul Strand, alle foto (molte di nudo) delle rispettive compagne – Georgia O’Keeffe e Rebecca Salsbury – alla tresca della pittrice O’Keeffe con Strand, a quella tra l’anziano Stieglitz e la Salsbury, e il presunto affair saffico tra le due donne. A Stieglitz piaceva fotografare le mani di Georgia e anche i seni, con la sua musa nell’atto di palparseli compulsivamente come se stesse impastando il pane, racconta Dyer. Che chiosa: “E’ difficile dire cosa Stieglitz intendesse esprimere… Per dirla senza tanti giri di parole, si è colti dall’impazienza di vedere la O’Keeffe liberarsi dal resto dei vestiti”. Il già anziano Stieglitz aveva dichiarato che quando fotografava la sua amata era come fare l’amore con lei (cosa che aveva affermato anche Walker Evans, di quarant’anni più giovane), ma la O’Keeffe, molto più prosaicamente, aveva corretto il tiro: “Facevamo l’amore. Poi lui mi fotografava”. 

“Il tempo passa. La gente invecchia, smette di amarsi, prende strade diverse”, scrive a un certo punto Dyer a metà del libro a proposito di un altro grande della fotografia, Edward Weston, amico di Stieglitz, un po’ più giovane di lui, ma anch’egli ossessionato dalle foto di nudo. Quelle della fotografa Tina Modotti, sua musa e amante nonché amica e anche amante di Frida Kahlo, sono “magnifiche, infiammate di desiderio”, ma presto la giovane artista viene sostituita dalla bellissima modella Charis Wilson: Edward aveva 48 anni e Charis 19. Dyer fa ricondurre il suo interesse al mistero delle immagini a quando era appena trentenne, quando si imbatte per caso in un libro rovinatissimo di Weston e scopre una foto di D. H. Lawrence (altra sua ossessione, a cui ha dedicato forse il suo libro più bello, Per pura rabbia, da poco uscito sempre per il Saggiatore) e di Charis, completamente vestita. “Guardi la fotografia, per tutto il tempo l’immagine ti costringe a chiederti, con una curiosità martellante, come sarebbe stata se lei fosse stata nuda”. 

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Alcune delle pagine più belle: l’amicizia tra Alfred Stieglitz e Paul Strand, le foto scattate a Georgia O’Keeffe e Rebecca Salsbury

In una pausa tra una mail e l’altra tra me e la California alzo gli occhi sul muro di fronte e vedo Lei: è in piedi, sul tetto di un palazzo forse non molto alto, nel centro di una città, forse New York o forse no, in costume da nuoto olimpionico (blu con una striscia rossa e una bianca, forse i colori della bandiera americana, o forse no), una mano sul fianco atletico, la postura seria, lo sguardo vitreo. Dietro di lei il tramonto, o forse l’alba. Accanto a lei, sul muretto, un piccolo squalo gonfiabile.

Giuro, è tutto vero. Ho trovato questa foto in un mucchio per terra in un mercatino della Grande Mela nel 2013. L’autore è sconosciuto, la ragazza pure. L’ho incorniciata, con una cornice imponente e austera costata uno sproposito. La foto era costata 3 dollari solamente, sono quasi dieci anni che la osservo, più volte al giorno, a volte molto a lungo, chiedendomi quale sia il mistero celato in essa. Il perché la ragazza indossi un costume da piscina sul tetto di un palazzo, cosa nasconda quello sguardo, quella postura fiera, per non parlare dello squaletto. 

Chiedo prima aiuto al mio amico bolognese fotografo e un po’ filosofo Giovanni Bortolani, che smonta la cornice, stacca la foto, la annusa, ne lecca un angolino della carta e scopre che si tratta di una stampa Kodak C-41 tipica di un periodo tra l’inizio degli anni 70 e la fine degli anni 80, stampata probabilmente in un laboratorio di strada mini-lab. Ma, giustamente, mi pone un ulteriore interrogativo: l’hai comprata nel 2013, l’hanno stampata forse negli anni 90 ma potrebbe essere stata scattata negli anni 70? Il fotografo, secondo lui, è amatoriale, perché l’alone del flash non è molto potente e la macchina, per il tipo di lente che l’ha scattata, è probabilmente una compatta di tipo Kodak Instamatic. L’altro amico interpellato, Matt Carr, noto fotografo newyorkese di moda e ritratti di star, è convinto che “potrebbe essere Manhattan dall’altra parte del fiume, ma quelle torri d’acqua sono ovunque, a Brooklyn. Sembra una foto anni 80 ma credo sia più recente. Direi che il mistero è il punto: amo le foto che fanno domande ma non rispondono. Ogni visione ottiene qualcosa di diverso. E’ bella, mi piace”. 

La nuotatrice e lo squalo: trovo la foto in un mercatino di New York. Autore sconosciuto, la ragazza pure. Chiedo un’illuminazione a Dyer 

Scrive Dyer che Paul Strand sosteneva di non scegliere i soggetti da fotografare, ma che “sono loro a scegliere me”; che Diane Arbus diceva “non sono io a chiudere l’otturatore. E’ l’immagine che lo fa”; che Cartier-Bresson, forse il più grande di tutti, dichiarò “è la foto che ti cattura; non si devono catturare foto”.

Scatto una foto alla foto della ragazza in costume e la mando a Geoff nottetempo nella speranza di avere un’illuminazione da uno che ha indagato a lungo l’infinito istante, e l’indomani trovo la sua laconica e provocatoria risposta: “Ovvio. Lo squalo vuole mangiarle la fica!”.

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