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riscoperte

Meglio il Manganelli corsivista dello scrittore chiuso nel guscio manieristico

Matteo Marchesini

Contro le idolatrie, nel centenario della nascita, rileggere l'autore alla sua "preistoria": dal legame ambiguo con Pavese alle prime stesure, ancora grezze, delle sue opere

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Di rado i lettori “forti” sono oggi anche i più “liberi”, per usare la memorabile coppia di attributi sturziani. Più sono implicati nell’asfittica società letteraria, o comunque più considerano il Libro uno status symbol, meno questi lettori resistono alle mode. Spesso trattano certi editori come marche di profumi o vestiti, giudicandoli a priori garanzia di qualità, e ne ostentano i prodotti per segnalare che appartengono al club. In questo senso è riuscita ad Adelphi un’operazione commerciale straordinaria: potrebbe pubblicare un volume del tipo “Marco Travaglio – Editoriali”, e suscitare nei suoi fan la suggestione che perfino quella prosa da Z-movie sia circonfusa di un’aura nobile da finis Austriae.

 

Il fruitore snob di Alta Cultura possiede del resto anche un notevole masochismo: riconosce il genio in chi doviziosamente lo insulta (si veda il caso di Carmelo Bene) ed è sicuro del valore di un’opera solo là dove uno Stile molto vistoso dichiara a ogni passo la propria eccellenza e il proprio disprezzo del banale. Tutto ciò porta a fenomeni di idolatria. La si riscontra ad esempio nelle sette di goliardi che quest’anno celebrano il centenario della nascita di Giorgio Manganelli detto il Manga (Savinio rilevava la scemenza delle signore romane che chiamavano Pirandello “Pira”).

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Come nelle Grandi Mostre satireggiate dall’autore, eserciti di accademici spiegano pedantescamente ai lettori quei suoi artifici letterari, già spesso a loro volta pedanteschi e stucchevoli, che ognuno può osservare a occhio nudo da sé. In “Auto da fé”, un ritratto finalmente non idolatrico uscito ora da Mimesis, Alessandro Gazzoli ricorda che negli ultimi decenni sono uscite su Manganelli decine di monografie, e a partire dalla sua morte anche decine di “suoi” volumi messi assieme nei modi più disparati (un morto più produttivo del vivo: ecco una bella immagine manganelliana). 

 

Maneggiando le carte di uno scrittore ipertrofico e monolitico, che come dice bene ha la coerenza ossessiva del frattale, Gazzoli sceglie intelligentemente di coglierlo nei momenti di crisi, quando ancora non si è chiuso nel guscio manieristico. Ci mostra dunque la sua preistoria: il legame ambiguo con quel Pavese che come lui non sa vivere fuori dai libri, e il tentativo di trovare un’identità attraverso il lavoro di anglista (su De Quincey, Poe, Yeats). Manganelli esce dall’impasse giovanile trincerandosi dietro gli stemmi di una Menzogna Retorica pseudosecentesca; ma così, come confessa in un diario, per evitare di essere trascinato su una strada “pazzesca” (la strada della “nudità”?) lascia dietro di sé la propria parte migliore. Con “Hilarotragoedia” (1964) e con le altre parodie di trattati metafisici mette la testa a partito: il partito della Letteratura come gioco di echi che rimbombano nelle stanze oscure di un Museo. Allude di continuo agli inferi della cultura novecentesca, dove la parola ha perso rapporto con la cosa e la vita col senso; ma ne rovescia l’angoscia nichilistica in un’euforia da gastronomo barocco. Si può abitare l’inferno come si abita un loft arredato sontuosamente e sempre tirato a lucido? 

 

Si dice che Manganelli componesse una prima stesura delle sue opere in lingua media, e poi minuziosamente la truccasse. Se non è vero, l’aneddoto è ben architettato: nulla d’imprevisto si ritrova infatti nella sua prosa levigatissima, e soprattutto nulla di “losco”, malgrado l’autore abusi di questo aggettivo come di un’excusatio non petita. “Manganelli manganellizza tutto”, osserva Gazzoli: perciò sembra che nulla faccia attrito con la sua scrittura. E come notò Fortini, dato che questa scrittura non accetta “di farsi mettere in discussione (…) da un diverso sistema di giudizi e scelte”, “ha sempre ragione” da un lato, ma dall’altro “non ha ragione mai”.

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Il sogno di riempire volumi all’infinito senza dire niente (nell’epoca di Forlani!) rende l’opera di Manganelli una enorme macchina celibe, come quella del suo estrovertito compagno Arbasino. È la ragione per cui entrambi questi autori si sopportano meglio nei pezzi giornalistici, cioè dove viene loro imposto un limite esterno. Gazzoli valorizza giustamente il Manganelli corsivista del “Lunario dell’orfano sannita”, di “Improvvisi per macchina da scrivere” e di “Mammifero italiano”, quello che prende posizioni acute su giustizia, aborto e tv, ma che per motivi di galateo stilistico nasconde il pathos civile sotto la tecnica dei rovesciamenti parodici alla Swift.

 

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A nutrire il suo umorismo fantastico è soprattutto la puntigliosa follia burocratica delle leggi italiane, la stessa che oggi fa spesso somigliare le sentenze deliranti e metafisiche del Tar del Lazio a certe sue pagine. Ma gli basta anche imbattersi in una prosaica normativa sulla ricevuta, che dev’essere conservata “nelle immediate vicinanze” delle trattorie, per immaginare coppie che a cena hanno litigato e non possono separarsi subito come vorrebbero. Così nascono quegli spunti narrativi che l’autore lascia allo stato potenziale, o di cui disegna solo la parabola algebrica, disincarnata, come nei romanzi liofilizzati di “Centuria”. 
Non sono poche le prose manganelliane di gran pregio. Ma vi manca quasi sempre quella disinvoltura davvero impudente, quell’anarchica attitudine funambolica e mistificatrice che Manganelli incessantemente propaganda, e che però nei fatti ci ha mostrato molto meglio il suo vicino di collana Adelphi Juan Rodolfo Wilcock. 

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