La corte dell'imperatore Federico II a Palermo, Arthur von Ramberg (Wikimedia)

Com'era araba la Sicilia

Pietrangelo Buttafuoco

Per Sciascia è l’identità più sfacciata dell’isola. Sulle tracce di Ibn Jubayr, in viaggio nel giardino tra due civiltà, dove ancora oggi persino un semplice saluto richiama un passato arabo

Chi s’incammina brucia tutto ciò che trova in strada e arriva al mare. Ma non ci si muove nel dì dedicato a Marte. E non si fanno matrimoni nel dì di Venere. La bellissima dea vuole tutto per sé il suo venerdì, figurarsi se ammette altre femmine agghindate, mentre il dio della Guerra – nel suo martedì – non vuole vedere movimenti di bagagli, pieni di carburante, bermuda, infradito e check-in. Ogni mobilità sulla terra, infatti, è sua e solo sua. E amaro di sapore – si sa – è il mare. Difficile è trovare l’alba dentro l’imbrunire e il maestro insegna: “Quante volte si è raggiunti dalla morte sulla soglia di casa”.


E così è anche nella luna nuova di rajab, la notte di martedì del 9 ottobre 1185, nel porto di Acri. E’ l’ultima tappa nel viaggio di ritorno, una nave che è come una città provvista di ogni bene molla gli ormeggi, tira però il vento di levante, le onde sono più veloci di un lampo e un naufragio impone ai pellegrini di ritorno da Mecca – tra loro uno spagnolo, Ibn Jubayr – di approdare in una terra nemica, gremita di adoratori della Croce ma allo stesso tempo familiare: un’isola lunga sette giornate di cammino e larga cinque con un monte vulcano avvolto nelle nuvole e inturbantato di neve.

Di Venere e di Marte non si sposa e non si parte, dunque.
Il proverbio sigilla un istinto, anzi, un presagio: il sacro. Un continuo dì di Marte è quello di chi s’incammina e le peripezie che sopravvengono nei viaggi sono una dura iniziazione per la fragile natura umana che spesso soccombe ma a volte vince quando l’imprevisto si frappone alla meta, col favore di Allah, contraccambiando in meraviglia.
Ogni impedimento è giovamento e “Viaggio in Sicilia”, edito da Adelphi a cura di Giovanna Calasso – non è soltanto il resoconto di Ibn Jubayr dei tre mesi forzatamente passati in Sicilia prima di procedere verso la propria casa, in Andalusia. Cronaca di una continua sorpresa, questo diario di viaggio risuona nella lettura come il ronzio d’api nell’alveare della mente e del sentimento. Per ritrovarsi, e riconoscere – e ritrovare – ciò che alla distanza di un millennio sembra essere irrimediabilmente perduto.

 

“Viaggio in Sicilia” (Adelphi) è il diario di un pellegrino per riconoscere e ritrovare ciò che alla distanza di un millennio sembra essere perduto

 

Ognuno è straniero in ogni luogo, ma c’è anche l’esatto contrario. Ciascuno trova casa dappertutto. Nel viaggiare c’è il già visto. Le dame in preghiera nella messa di Natale – elegantemente pudiche – non differiscono dalle musulmane, così annota il naufrago spagnolo, e il campanile della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo attende il ritorno del muezzin.


“Che Dio l’onori al più presto” mormora l’illustre ospite ammirando le cupole di moschea inglobate nelle nuove chiese. Dissemina a ogni angolo le sue invocazioni ad Allah affinché quella terra – a lui così familiare – ritorni all’Islam. Saluta i passanti, ricambiato, nel Salam Aleikom che ancora oggi, pur nella trasfigurazione del dialettismo, diventa Sabbenedica. A suggello, nell’amorevole abbandono a Dio, di ciò che nell’essenza la Sicilia è: un giardino tra due civiltà.

Sono passati poco meno di cento anni dall’arrivo dei normanni quando Jubayr approda – sbattuto dai marosi – a Messina, la toponomastica di tutte le città è ancora quella dei siciliani di Ibn Hamdis, il poeta netino che canta la nostalgia di una terra cara al cuore dei musulmani. I luoghi, ancora oggi, pur nella traslitterazione latina, hanno lo stesso suono. E se equivoco c’è, quello è di considerare i duecento anni della Sicilia musulmana come una dominazione tra le tante e non – come Leonardo Sciascia sottolinea – l’identità più sfacciata. L’autore de “Il Giorno della Civetta” traslittera in caratteri cufici il suo stesso cognome – Xaxa – e anche il nome di Giufà, facendolo risultare simile al becco di un usignolo. L’epoca islamica è l’abito esplicito di un sentimento tutto implicito nei siciliani. Anche Luigi Pirandello, nel suo contorcimento legnoso, attinge all’ulivo saraceno. E tutto l’artigianato di monili, utensili e perfino i flagelli della Settimana Santa di Passione derivano dalla pratica pia dei siciliani forgiati nel martirio di Hosseyn, figlio di Alì, nipote del Profeta. Le processioni di Cordova, quelle di Trapani – quella di Leonforte – seguono le tabula e il ritmo di Kerbala. Se i ruderi della Valle dei Templi restituiscono la Sicilia quale Grecia ancor più greca di quanto possa essere la stessa Atene, se i bikini della Villa del Casale di Piazza Armerina svelano il transito di Roma, l’antropologia del qui e adesso – il vissuto quotidiano – è ancora quella che Ibn Jubayr riconosce e ritrova nei mesi dei suoi affanni per poi tornarsene a casa. Stessa è la cassata – la torta di ricotta su cui i normanni adagiano la glassa – stesso è il reticolo d’irrigazione delle gebbie, ovvero le cisterne che ristorano dall’arsura e stesso è il segnavia dei giardini, quindi la stanza dello scirocco, i sorbetti e il gelo di melone ricavato dall’elaborata scienza del refrigerio.

 

L’antropologia del qui e adesso è ancora quella che Ibn Jubayr riconosce: la cassata, le gebbie, l’elaborata scienza del refrigerio

 

Manco a dirlo stesso è lo stigma dell’arancina che si dice e si scrive con la “a” perché la similitudine è con la doratura dell’arancia e non certo con l’albero d’arancio che non si frigge e neppure si mangia.

Si mangia, invece, ed è sempre lo stesso, lo sfinciuni. E’ una schiacciata di pasta lievitata condita con cipolla, acciughe e caciocavallo. Sempre le stesse sono le busiate, forme di pasta di grano, stesso è il dolcissimo e struggente “biancomangiare” e identico nei secoli è l’emporio – quel senso del possesso che fu prealessandrino, per dirla con Franco Battiato – quel saper fare commercio, come ad Al Madarig che non è precisamente una località remota in area ostile all’occidente bensì Castellamare del Golfo, la città di Sergio Mattarella e non dell’emiro Gia’far al-Kalbi. Quando le Repubbliche marinare sono di là da venire, la Sicilia saracena è il più festoso emporio nel mondo conosciuto. Ed è appunto la “scalinata” dei siciliani di Allah, quella che conduce al porto e alla tonnara a beneficio di Erice, Segesta e Alqamah – Alcamo – “paese con moschee e mercato dove la gente”, annota ancora Ibn Jubayr, “parla la lingua del Corano”. In piena dominazione normanna, in cima al monte Barbaro, dietro la cavea del teatro c’è – e i reperti ancora lo custodiscono – il cimitero musulmano con le tombe orientate a Mecca.

Sono tracce di un’epoca di assoluto fulgore. L’anno Mille di Sicilia è viva favola, è gloria, è semina di cui si attende il gemmare e a proposito di Gia’far – possa Allah restituirlo alla memoria degli uomini – un argomento curioso della lettura di questo diario è che nel suo soggiorno panormita Ibn Jubayr fa una veloce menzione del Castello di Maredolce nel parco della Favorita, già residenza e hammam del magnifico emiro. Evidentemente Ibn Jubayr non ha modo di visitarlo all’interno, l’edificio diventa palazzo di Ruggero II il Normanno, in epoca a noi più recente – nell’immensità del suo rigoglioso parco – è tenuta di caccia di Stefano Bontade e dei suoi mafiosi. Ma a Maredolce, intorno al castello, in prossimità di quell’edificio che attesta la febbrile presenza dei picciotti del Profeta, Jubayr non si accorge della vegetazione e dell’armonia profusa dai giardinieri, memori tutti della scuola di Agdal. Le fonti dell’arabistica di Sicilia riportano le parole di ’Abd al Rahaman sul parco: “Ogni desiderio in te assommi, vista soave e spettacolo mirabile. Le tue acque si spartiscono in nove rivi. Dove i tuoi due laghi s’incontrano ivi l’amore si accampa e sul tuo canale la passione pianta le tende”. Il gioco delle acque, nell’intreccio dei corsi intorno alle piante, evoca i versi coranici dedicati al Paradiso ma il pellegrino naufrago arriva a Balarm, ossia Palermo – la città delle trecento moschee – quando questa non rifulge più nella prosperità dell’innesto sciita e ismaelita, vi giunge quando con l’invasione normanna la città di Gia’far si è impoverita, ha una popolazione di appena 150.000 abitanti e non è più una delle più grandi città in Europa, seconda solo all’altra capitale dell’altro emirato saraceno, ovvero Cordova.

 

L’arabistica di Sicilia non è un dipartimento universitario, non è  una fissazione tra le malattie dell’erudizione.
E’ un monumento civile

 

E’ il viaggio di un europeo in Europa, quello di Ibn Jubayr – un letterato spagnolo, arabo di formazione – che naufraga in Sicilia. Ed è il destino di un musulmano nell’isola più intimamente islamica nel Mediterraneo ma, allo stesso tempo, irrimediabilmente gettata nell’oblio di sé.


La più grande tra le isole nel mare, la Sicilia, capace di contenere occidente e oriente, nel cammino di Ibn Jubayr è prodiga di tutto ciò che è possibile vedere nel mondo e ancora più: generosa di quanto è dato da immaginare nella più entusiasmante delle fantasie. Basti sfogliare Idrisi, oppure passare le vacanze nelle coste iblee: “Presso Scicli è ancora la fonte chiamata ‘Ayn ‘al ‘Awqa (La fonte delle Ore, detta oggi Donnalucata) perché, fenomeno singolare, l’acqua vi sgorga nelle ore delle preghiere e smette in tutte le altre”.

Nello sguardo addolcito di Ibn Jubayr – prossimo al sollievo dopo l’angustia – Palermo è la destinazione dell’età matura, ma anche della spensierata giovinezza, è la città dove i palazzi sono come monili intorno al collo di una fanciulla. L’ospite di soli tre mesi vi coglie i segni di un passato i cui grani – nella clessidra del tempo – tornano incessantemente per dimorare nel cuore dei credenti. Sir Muahmmad Iqbal, il sommo poeta di lingua urdu, negli anni Trenta del secolo scorso veleggia dal continente indiano verso l’Inghilterra, attraversa Suez, costeggia la Sicilia e solo osservandone il profilo – assaporando nel tramonto i riflessi di Sciacca, quindi le rocce di Mazara e il biancore di Marsala, porto di Allah – alza il suo canto sull’isola “perla dell’Islam”. Il poeta che non vi ha messo piede vi scorge, infatti, quel che Ibn Jubayr ha invece toccato, visto e vissuto nel 1185: i mercati dove vale solo la trattativa propria del bazaar, le scuole coraniche ancora numerose, le moschee e la nostalgia infinita per la preghiera, il pellegrinaggio, il Jihad, per il fogliame di agrumi della Conca d’Oro e anche per quel segreto sull’impasto di mandorle che i pasticceri si tramandano oralmente da dieci secoli.

 

‘Abd al Rahaman su Maredolce: “Dove i tuoi due laghi s’incontrano ivi l’amore si accampa e sul tuo canale la passione pianta le tende”

 

L’arabistica di Sicilia non è un dipartimento universitario, neppure può essere risolto tra le eccentricità della specialistica, non è manco una fissazione tra le malattie dell’erudizione, piuttosto è un monumento civile.


La Sicilia, felice giardino tra due civiltà, fa del suo essere “universale” un atto solenne stipulato tra le generazioni al punto che nell’arco di tempo che va dal 1922 al 1924 il ministero della Pubblica istruzione fa della “Storia dei Musulmani di Sicilia” di Michele Amari ben più che un lascito di memoria, piuttosto un’eredità all’altezza degli avi. Le istituzioni ai massimi livelli – non ultima la Casa regnante – al lavoro scientifico di Amari affidano il passaggio ulteriore di una compiuta maturità per la nazione. La raccolta di testi arabi che trattano geografia, storia e bibliografia sono certamente parte di una biografia “siciliana”. E la conferma è in questo diario di viaggio di Ibn Jubayr ovviamente contenuto nelle pagine di Amari, o come nel sublime canone di Ibn Hamdis, il cui canzoniere di riccioli neri incanutiti è il sontuoso esempio – il più bello – di letteratura italiana in lingua araba. “Vuote la mani ma pieni gli occhi del Ricordo di lei”. E lei è lei, sempre lei – solo lei – la Sicilia.

Un più ampio capitolo di consapevolezza culturale, questa della “realtà estranea e nemica ma dalle sembianze così sorprendentemente familiari”. Un salto mentale ovvio al tempo di Michele Amari – e di Giovanni Gentile che ne promuove la pubblicazione – sempre più urgente però in questo nostro tempo, tutto di cancel culture, tutta una tabula rasa di puro nulla dove l’inaudito potere della miscredenza “pone sui nostri colli la schiavitù”. E’ il tempo in cui – tornando a Franco Battiato – “il Re del Mondo ci tiene prigioniero il cuore” ma il maestro è maestro. E insegna: chi s’incammina brucia tutto ciò che trova in strada e arriva nel vero mare, il Cielo. A gloria dell’Inventore delle meraviglie del creato.

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  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.