(1929-2022)

Guglielmi, in bermuda. La Rai, la letteratura, il suo ultimo libro sul Gruppo 63

Carmelo Caruso

Se ne va, a 93 anni, lo scrittore ed ex direttore di Rai 3. La Rai? “Non la guardo. Meglio la radio”. Arbasino, “il più grande dopo Gadda”. Sciascia? “Arcigno”

Non c’era nessun motivo per farlo ma solo la promessa di ricevere qualche soldo. Quando confessai ad Angelo Guglielmi che avevo accettato la proposta dell’editore Aragno (“vada da Guglielmi e torni con un libriccino sul Gruppo 63”) con l’idea balzana di acquistare una libreria, Guglielmi esclamò con tono gagliardo (gli piaceva l’aggettivo gagliardo) che era “un’idea magnifica e che i libri vanno ordinati seguendo questo canone: si comincia dall’ingegnere Carlo Emilio Gadda, si continua con Alberto Arbasino e poi viene il resto. Quelli che non meritano vadano per terra”. Per oltre sei mesi sono entrato a casa Guglielmi. Ogni sabato mattina, e ogni sabato pomeriggio, dopo ore di letture e revisione, facevo due conti. Già alla quarta settimana, al quarto sabato, avevo compreso che ci avrei rimesso economicamente. Guglielmi è morto ieri mattina, a 93 anni.

 

Il 30 giugno mi aveva chiamato ricordandomi che “occorreva sollecitare l’editore per controllare l’impaginato. Sai, è importante”. Telefonava nei momenti peggiori della giornata: o pochi minuti prima della riunione di redazione o pochi minuti prima che chiudessi un pezzo su Draghi. Mi ripeteva che era “necessario vedersi ancora” e che “il libro non stava venendo male. Piace anche a mio figlio Carlo. Ci siamo quasi. Lascia perdere il governo”. Sapevo poco del Gruppo 63. Sapevo che si trattava di una banda di autori “illeggibili”. Sapevo che Guglielmi ne aveva fatto parte insieme ad Arbasino, Eco, Sanguineti, Manganelli e che nei manuali scolastici quel fenomeno veniva chiamato “Neoavanguardia”. Sapevo che era iniziato tutto a Palermo nell’ottobre del 1963 e che, per cinque giorni, un gruppo di trentenni aveva sfidato Alberto Moravia, Giorgio Bassani, Carlo Cassola, Pier Paolo Pasolini.

 

Erano accompagnati chi da mogli e chi da amanti. In Sicilia a ottobre è ancora estate. Di mattina si tuffavano a Mondello, di pomeriggio parlavano di letteratura, di sera ballavano. Il vitto e l’alloggio era stato offerto dalla Regione Sicilia. L’Espresso dell’epoca parlava di una cifra spaventosa: “Diciotto milioni di lire!”. Ovviamente non potevano che starmi simpatici. Proposi a Guglielmi di dare come titolo al libro “L’avanguardia in bermuda”. E lui: “Ma noi vestivamo anche in doppiopetto!”. Iniziò una trattativa.

 

La prima volta che ero andato a intervistare Guglielmi era per parlare di Rai. Era molto tempo prima che questa idea di scrivere un libro sul Gruppo 63 prendesse forma. Avevo appena iniziato a lavorare al Foglio. Per oltre vent’anni i giornalisti sono andati da Guglielmi per farsi spiegare come si fa “la buona televisione”, lui che restava, per sempre, “il direttore della grande Rai 3 di sinistra”. Pure io ero andato a trovarlo per questa ragione ma volevo provocarlo. Il Guglielmi “papà di Rai 3” lo trovavo superato, l’espressione “ah, la televisione di Guglielmi” mi è sempre sembrata una banalità. Cercai immediatamente la televisione, quella vera, di Guglielmi, e mi ero accorto che era spenta. Prima ancora che mi invitasse a sedermi, prima di chiedere a Fernando, il suo “programmista” di casa, di porgermi la sedia, disse che lui la televisione non la guardava perché “preferisco la radio”. Fu vera simpatia quando mi rivelò che “non avrebbe mai più replicato la televisione di Guglielmi, uffa, e che, a dirla tutta, la televisione non sapevo farla. Ero stato chiamato e ci aveva provato”. La verità, aggiungeva, è che “ho avuto fortuna. Ogni mattina non sapevo cosa inventarmi. Per me ogni mattina era fatica, cercavo un’idea inedita”. Lo volevo abbracciare. Sapendo che lavoravo al Foglio mi chiese immediatamente di Giuliano Ferrara, che lui chiamava il mio “amico Giuliano” e che “lei sicuramente incontra ogni giorno. Non è così?”. Non volevo deluderlo. Gli risposi: “Certo!”. Ho finto di essere uno che conosce Ferrara da una vita. Successivamente, quando la nostra frequentazione era diventata assidua, mi parlava del rapporto speciale di “Giuliano e Selma”, delle loro discussioni a cena e di come “il litigio fosse la medicina per amarsi. Capitava che Selma mandasse al diavolo Giuliano.  Il giorno dopo li rivedevi come se fossero la coppia più serena del mondo”.

 

Guglielmi aveva al suo fianco l’Alberta che “credimi, scrive benissimo”. Più volte, il sabato, abbiamo comprato insieme le sigarette per l’Alberta che veniva a trovarci in sala. Portava piccoli tesori per il libro: “Angelo, ti ricordi quando, a Palermo, aprimmo la porta dell’albergo e…”. E allora Guglielmi, a bassa voce, diceva: “Beccammo due scrittori che scopavano”. Alberta a quel punto sorrideva ma alla sua maniera, senza farsi vedere da Angelo, come se avesse detto qualcosa di boccaccesco. Alla fine del nostro primo incontro, Guglielmi cercò disperatamente un vecchio libro della moglie. Doveva regalarmelo. Era un maggio freddo. Mi spiegò che possedeva due appartamenti comunicanti: “Uno è fresco d’estate, l’altro è caldo di inverno. Serve per Alberta. Alla nostra età sentire freddo è la pena più grande”. Un sabato mattina lo trovai più stanco del solito. Aveva passato tutta la notte in giro per Roma sopra un taxi. Alberta non riusciva a dormire. “Ma io lo avevo capito. Aveva bisogno di alcune medicine. Io sapevo che le avrebbero dato giovamento. E allora ho preso un taxi per trovare una farmacia di turno. Ma non riuscivamo a trovarla. Abbiamo girato con il tassista per mezza Roma. Io lo sapevo che le avrebbero dato giovamento. Il tassista mi ha fatto lo sconto”. Giovamento.

 

Mi raccontava che, così come per Gadda in letteratura, Ferrara era stato il suo “inizio” televisivo da direttore di Rai 3 e che tutto era cominciato con “Linea rovente”, una trasmissione dove veniva invitato il “politico più maltrattato della settimana”. Poi venne tutto il resto dove per il resto intendeva Fazio, Chiambretti, Lerner, Dandini, Santoro, TeleKabul, Blob, la lite con Letizia Moratti, quando era presidente Rai. Anche Guglielmi entrò nella lista dei “quasi” presidenti Rai. Non ci riuscì e forse fu la sua fortuna. Lo diceva pure lui. Non ha mai nascosto di essere stato indicato alla guida di Rai 3 da Walter Veltroni ma precisava che “Veltroni mi ha scelto per fare brillare la sua stella”. A proposito di censura ricordava quando Veltroni gli telefonò perché “c’era il grande Ettore Scola che voleva produrre un documentario”. Guglielmi si accorse che il documentario non era all’altezza di Scola. Volevo tornare e fare subito il titolo: “Quando Guglielmi censurò Scola”. E lui: “Ma quale censura! Scola non disse nulla. Scola aveva capito che non era un’opera alla Scola. La cosa è finita con il silenzio di entrambi. Io ho esercitato il mio ruolo di direttore, lui, da grande regista, sapeva che anche i grandi  si fanno piccoli”. Si riteneva “un comunista” e non se ne vergognava. Un uomo di partito era un’espressione che gli piaceva. Indossava le calze rosse che dovevano ricordargli il colore dell’Unità, il rosso Berlinguer e rosso era anche il colore del suo divano dove, nelle ultime settimane, aveva iniziato ad appoggiare le bozze del libro. Sulla scrivania teneva ormai solo i classici: Montaigne, Rousseau.

 

In un angolo la statuetta dell’Oscar, vera, per “Nuovo Cinema Paradiso”. Oltre a essere stato scrittore, critico, direttore, assessore alla Cultura di Bologna, Guglielmi aveva ricoperto anche la carica di amministratore delegato dell’Istituto Luce. Era stato l’Istituto Luce a produrre il film di Tornatore. Ma allora non conoscevo il “lungo viaggio” di Guglielmi che è il titolo della sua biografia. E’ stata pubblicata sempre da Nino Aragno che chiamava il “mio editore bizzarro, l’unico che fa libri perché gli piacciono e non per venderli”. Del “Gruppo 63” Guglielmi ricordava poco o forse non voleva ricordare. Per sopperire ai vuoti cominciai ad acquistare i suoi vecchi libri su Ebay a incrociare i documenti. Era figlio di ferroviere e voleva che si ricordasse che con la sua famiglia si era trasferito da Roma a Bologna perché suo padre doveva “ripristinare e riattivare” la linea Bologna-Piacenza. Un sabato di marzo ci siamo interrogati per oltre venti minuti se fosse corretto aggiungere al verbo “ripristinare” anche il verbo “riattivare”. Per fortuna venne Alberta a dirci che il pranzo era pronto. Ogni sabato Guglielmi mangiava un uovo sodo e non permetteva che il cibo stesse a tavola. Dove poggiare su un carrello. Non ero mai puntuale ma lui puntualmente scusava il ritardo. Alle 13 uscivamo per comprare i quotidiani presso l’edicola di piazza Santiago del Cile. In edicola diceva: “Oggi il Foglio”.

 

Aragno mi ha raccontato che una volta se lo vide arrivare a Cuneo senza preavviso quando l’Italia era terrorizzata dal Covid. Guglielmi non voleva rinunciare a viaggiare: “Sono troppo vecchio per rinunciare pure a questo. Non mi possono fare niente. Solo dopo gli ottanta si è liberi”. Voleva perfino venire in redazione, un pomeriggio, per “confrontarci. Posso, se vuoi”. Non era particolarmente bravo in lettere, e ci teneva che si dicesse per poter dimostrare che era diventato l’intellettuale colto che era, il principe della critica letteraria e marxista. Cominciarono a chiamarlo “professore” in un bar, al Caffè Zanarini di Bologna, il bar del pittore Giorgio Morandi. Diceva sempre che doveva tutto a Luciano Anceschi, il maestro, una specie di papa della letteratura che si inventò la rivista “Il Verri”. Anceschi prese sotto la sua ala Guglielmi, Eco, Balestrini, li presentò ai grandi scrittori e critici del tempo, quelli che in pratica anche Guglielmi contestava. Erano Emilio Cecchi, Eugenio Montale, Carlo Cassola tutte colonne del Corriere della Sera che “per un anno abbiamo sostituito”. Sorrideva quando ricordava che “il Corriere ci pagava tantissimo. Ventimila lire ad articolo. E tu? Sei pagato bene?”.

 

Senza farsi sentire dall’Alberta mi raccontava che Eco, Arbasino, Sanguineti erano in quegli anni, gli anni 60, circondati da donne bellissime e che tutti loro dirigevano collane, chi in Feltrinelli, Einaudi, Bompiani. Voleva dirmi che non dovevano guarire dalla malattia dell’esclusione ma che erano già élite. Mi fece poi togliere la frase che “erano circondati da donne bellissime” perché “non è giusto vantarsene”. Mi rifiutai di chiedere di Rai malgrado ne avessi iniziato a scrivere. Sapevo che per non dispiacere i giornalisti, quelli che gli chiedevano la “definitiva intervista sulla Rai”,

 

Guglielmi di Rai ne parlava ma senza desiderarlo. Scelsi allora di chiedere dei suoi amici e nemici di lettere. Di Arbasino diceva che era l’unico vero grande scrittore italiano, dopo Gadda. Divennero alleati dopo la recensione di Guglielmi sulle sue “Piccole vacanze”. Guglielmi scrisse che “il linguaggio di Arbasino sapeva di merda come capita alla più raffinata cucina francese”. Arbasino era felicissimo di quella definizione. Insieme a Balestrini, Eco, e il poeta Alfredo Giuliani, Guglielmi si inventò negli anni Sessanta anche una rivista chiamata “Quindici”. Era una di quelle riviste sperimentali che come molte utopie di quegli anni si esaurì nel momento del successo: “Eugenio Scalfari la voleva rilevare e farne l’inserto dell’’Espresso ma eravamo gelosi della nostra indipendenza. Il numero dopo chiuse. E’ andata così”. Con Sciascia non si prese “perché per Sciascia la scrittura era l’elsa della spada. Per me non lo era. Era un uomo complesso, arcigno”. L’unico capace di spiazzarlo era stato Italo Calvino. Quando sentì parlare di letteratura finita, dell’impossibilità di fare letteratura, Calvino gli chiese: “Io ci sto. Ma mi devi dire cosa c’è dopo lo zero”. Guglielmi non riusciva a rispondergli. Pasolini come Sciascia lo mal sopportava: “Per prenderlo in giro, noi del Gruppo 63, gli assegnammo il premio Fata. Era la parodia del premio Strega. Apriti cielo! Ci mandò una lettera delle sue per spiegare che non si meritava quella crosta”. Dovevamo inserirla nell’appendice al libro. Da direttore di Rai 3 venne invece accusato da un gruppo di intellettuali (Raboni, Siciliano, Cordelli) di avere inventato una “televisione speculare a quella berlusconiana”. Ne soffriva. Pochi mesi fa ebbe il coraggio di dire che la corsa di Berlusconi al Quirinale era qualcosa di formidabile “per la sua età. In ogni caso ha già vinto”. Le ultime volte che ci siamo visti ripetevamo ad alta voce l’inizio del libro: “Eravamo degli sprovveduti? Per niente. Avevamo ragione? Assolutamente sì. Abbiamo avuto fortuna? Mah. Il successo di pubblico non pensavamo di pretenderlo”. Non se ne voleva più staccare. Io avevo rinunciato al mio titolo e anche all’idea di acquistare la libreria su misura. L’ultimo sabato che ci siamo incontrati ero puntuale. Volevo sbrigarmi, prendere il primo treno e lasciare Roma. Mi disse: “Ho una sorpresa per te”. Prese un foglio scritto con la sua mano che già lo ingannava. Ecco il titolo: “Gruppo 63. Una banda di trentenni in doppiopetto (e perché no?) se capita, in bermuda”.

 

Mi chiese se mi convincesse e io gli risposi con un sì di circostanza. Me ne ero ormai separato. Disse che andava bene anche “solo in bermuda, del resto con tutto questo caldo…”.

Carmelo Caruso

 


 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio