L'ideologia non ha scritto romanzi. Indagine sul putinismo e sull'anima russa

Giovanni Savino

Le radici dell'ideologia del presidente russo Putin non sono nella letteratura, così polifonica, ma in un retroterra culturale da cui oggi si traggono temi, memorie e giustificazioni per obiettivi nazional-imperiali. 

Ma Dostoevskij oggi starebbe con Putin? E noi possiamo ancora dialogare con la grande cultura russa senza confonderla con il nuovo zar? Ai dubbi espressi da Oscar Giannino sul Foglio  del 23 maggio risponde oggi lo storico Giovanni Savino. Il 25 maggio è intervenuto Marco Archetti.


 

Da tre mesi l’aggressione della Russia di Putin all’Ucraina è al centro delle notizie, è argomento di dibattiti spesso in Italia fuori fuoco e ridotti più a polemiche nostrane che ai veri quesiti sollevati dalla guerra. Domande che toccano tanti studiosi e appassionati di cultura russa nelle sue svariate espressioni, dall’arte alla letteratura, che ci interrogano sulle radici del sistema putiniano, alla ricerca di una risposta all’affannosa ricerca delle basi ideologiche e intellettuali delle gesta del Cremlino. In questi interrogativi emerge anche la presenza ricorrente della misteriosa “anima russa”, spesso invocata come immediata soluzione del problema

Solo che si tratta di una risposta insoddisfacente, perché non spiega nulla, e spesso rischia di cadere in due atteggiamenti solo apparentemente opposti, uno di condanna - i russi sono così, sono dei barbari semiasiatici – e mi è capitato di sentire affermazioni del genere nei nostri talk-show, e l’altro di esaltazione – i russi custodiscono i veri valori – anche questa frase ricorre spesso tra i difensori dell’operato di Putin. In realtà, come ricostruito in formato accessibile a tutti dalla newsletter “Signal”, lanciata da Meduza qualche settimana fa (iscrivetevi, anche se in russo val la pena utilizzare qualche traduttore automatico perché permette di capire qualcosa di più), per la prima volta a scrivere di anima russa è stato il critico letterario Vissarion Belinskij recensendo un capolavoro della letteratura russa, le Anime morte di Nikolaj Gogol’.

 

Probabilmente l’espressione era nata sulla scorta dell’influenza del romanticismo tedesco, che con il Volksgeist aveva dato vita a uno dei principali temi dei nazionalismi ottocenteschi, l’esistenza di uno spirito popolare e nazionale da recuperare. Belinskij in tal senso si fa sostenitore della necessità, per la letteratura dell’epoca, di esprimere l’anima russa in un’epoca in cui tra la nobiltà e gli intellettuali dell’impero zarista ci si esprimeva spesso e volentieri in francese, spesso con risvolti ironici: ad esempio, il conte Sergej Uvarov, ministro dell’Educazione nazionale durante il regno di Nicola I, nei suoi appunti per la definizione della triade “autocrazia, ortodossia, nazionalità (narodnost’)” si esprimeva in francese. 

 

A diffondere l’idea di un’anima russa espressione del popolo è il successo degli scrittori russi all’estero, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento: Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev e poi successivamente Cechov vengono tradotti nelle principali lingue europee, diventando punti di riferimento anche per le letterature di altri paesi, influenzando autori e intellettuali d’ogni tipo. Però, e chiunque sia un appassionato lettore di letteratura russa ne è al corrente, è la varietà e la profondità dei romanzi e dei racconti a colpire, la capacità di delineare personaggi e situazioni con grande maestria in grado di parlare anche a lettori a digiuno di alfabeto cirillico o che non hanno mai passeggiato per la prospettiva Nevskij. Ed è proprio la diversità delle voci della letteratura russa degli ultimi due secoli a colpire, una pluralità spesso e volentieri combattuta dalle autorità senza risparmiare colpi, e che permette di trovare una risposta, forse parziale, a quale sia la responsabilità degli autori di fronte all’orrore dei bombardamenti e delle esecuzioni sommarie.

 

Penso al percorso di Vasilij Grossman, ricordato da Oscar Giannino in queste pagine, all’ironia beffarda e amara di Sergej Dovlatov e Venedikt Erofeev, ma anche, per andar più indietro nel tempo, alle battaglie morali di Lev Tolstoj in nome della giustizia e della solidarietà, espresse in tanti romanzi, come Resurrezione, e in appelli contro la guerra, quali l’opuscolo Ricredetevi!, pubblicato durante la guerra russo-giapponese. Non è sbagliato dire che una gran parte della letteratura russa sia sempre stata in contrapposizione, spesso anche suo malgrado, al potere in tutte le sue possibili incarnazioni.

 

Ma non vi è solo l’opposizione all’ordine esistente, sia chiaro: il Dostoevskij del Diario di uno scrittore che allerta i suoi lettori sul pericolo per gli slavi di una infezione delle forme europee o della missione civilizzatrice dell’impero zarista in Asia centrale di sicuro non esprime posizioni democratiche, ma d’altronde in quell’epoca anche Rudyard Kipling scriveva del fardello dell’uomo bianco, però probabilmente quelle pagine possono contribuire alla narrazione ex post promossa da Putin di una Russia perennemente in conflitto con l’occidente. Forse però vi son anche altri autori e pagine ad aver avuto un ruolo nel formare le posizioni del Cremlino, e di sicuro per uno di essi, Aleksandr Solgenitsin, vi è posto, e non solo come implacabile testimone dell’universo concentrazionario sovietico, ma in qualità di pensatore nazional-conservatore.

 

Alla fine dell’Urss, nel 1990-91, quando le questioni nazionali riaffiorano da un angolo all’altro dell’immenso paese, il premio Nobel, prima in Come ricostruire la nostra Russia?, e poi successivamente in altri testi, si scaglia contro l’artificiosità dei confini ucraini, rivendicando al tempo stesso la sua identità mista, di russo-ucraino. In una lettera inviata a Svjatoslav Karavanskij, dissidente ucraino per anni detenuto nei gulag sovietici e autore di un articolo di risposta a Come ricostruire la nostra Russia? Solgenitsin scrive: “Oggi, quando nell’Ucraina occidentale giacciono i monumenti a Lenin (e a terra meritano di stare!), chissà perché gli ucraini occidentali più di tutti vogliono che l’Ucraina abbia proprio i confini leniniani, a loro regalati da Lenin, quando cercava di ingraziarsela per la perdita dell’indipendenza, dandole i territori mai ad essa appartenuti della Novorossija (Russia meridionale), del Donbass (per separare il bacino del Donec dalle influenze ‘controrivoluzionarie’ del Don) e una parte importante della riva sinistra del Dnepr (e Krusciov le ‘ha regalato’ la Crimea). Ebbene, adesso i nazionalisti ucraini sono all’erta, in difesa di questi ‘sacri’ confini leniniani?”. Posizioni più volte riprese dall’autore di Arcipelago Gulag, che nel 2006 denunciava in una intervista al settimanale Moskovskie Novosti le mire della Nato in Ucraina e la crescente oppressione dei russofoni nel paese, sostenendo come Mosca non potesse in alcun modo abbandonarli. 

 

Forse allora la colpa non è della letteratura russa, nella sua polifonia fatta di autori dalle posizioni assai diverse, ma di un retroterra culturale e ideologico da cui oggi si traggono temi, memorie e giustificazioni per obiettivi nazional-imperiali. Mettere sul campo degli imputati Tolstoj, o Dovlatov, forse, permette ad altre posizioni ben più attinenti al problema del patrimonio ideologico dell’imperial-nazionalismo putiniano di farla franca.

 

Giovanni Savino, visiting professor di Storia dell’Europa orientale, Università di Parma

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