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metafolclore

Tosatti e Leigh: un filo rosso tra i padiglioni italiano e americano alla Biennale

Francesco Bonami

Due modi diversi di rappresentare il folclore, uno teatrale e uno spettacolare. Uno che guarda al post pasolinismo, l'altro ispirato al nobel africano Wole Soyinka

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Il padiglione Italia alla Biennale di Venezia con l’artista Gian Maria Tosatti e quello degli Stati Uniti con Simone Leigh sono accomunati da quello che mi viene voglia di chiamare “Metafolclore”, attirandomi sicuramente gli strali di chi nella parola folclore vede qualcosa di negativo e spregiativo, razzista addirittura. Folclore per me significa semplicemente tirare dentro la storia la gente qualsiasi e rendere l’arte più accessibile. Cosa che fanno i due artisti, anche se in modi diversi. L’italiano in modo teatrale, l’americana in modo spettacolare. A chi entra nel padiglione italiano viene chiesto di fare silenzio, chi visita quello americano può parlare quanto vuole. Per questo il primo è più artificiale e il secondo più sociale. Il padiglione italiano abusa del folclore intellettuale, quello americano abusa del folclore nascosto, poi nemmeno così tanto, della correttezza politica.

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Il padiglione Italia alla Biennale di Venezia con l’artista Gian Maria Tosatti e quello degli Stati Uniti con Simone Leigh sono accomunati da quello che mi viene voglia di chiamare “Metafolclore”, attirandomi sicuramente gli strali di chi nella parola folclore vede qualcosa di negativo e spregiativo, razzista addirittura. Folclore per me significa semplicemente tirare dentro la storia la gente qualsiasi e rendere l’arte più accessibile. Cosa che fanno i due artisti, anche se in modi diversi. L’italiano in modo teatrale, l’americana in modo spettacolare. A chi entra nel padiglione italiano viene chiesto di fare silenzio, chi visita quello americano può parlare quanto vuole. Per questo il primo è più artificiale e il secondo più sociale. Il padiglione italiano abusa del folclore intellettuale, quello americano abusa del folclore nascosto, poi nemmeno così tanto, della correttezza politica.

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Queste due forme di abusi la dicono lunga sullo stato della cultura e dell’arte di queste due nazioni. Nonostante la perfetta esecuzione, difficile per l’esagerata vastezza del luogo, Tosatti rappresenta, nel suo post pasolinismo, il malessere che attanaglia l’arte italiana oramai da anni. Un malessere prodotto dall’indulgenza sempre più forte verso il lato inutile della memoria, quello che rende la storia aneddoto o citazione o nel peggiore dei casi una riflessione da dopo partita. Stato d’animo malinconico, appunto, come la gradinata vuota di uno stadio la domenica nel tardo pomeriggio. Le lucciole pasoliniane citate e mostrate sono più lampadine accese nei tinelli degli appartamenti lungo la tangenziale che simboli di un’ecologia culturale e morale ancora viva. Tosatti rappresenta non tanto la morte, che è sempre interessante se rappresentata bene, ma lo spazio lasciato vuoto dai morti. Uno spazio anche bello ma, come il rumore dell’albero che cade nella foresta, a che serve se non c’è più nessuno che possa goderselo? Meglio avere le lucciole o la luce elettrica per illuminare il tinello? L’arte italiana il più delle volte sceglie le lucciole, con il risultato di brancolare nel buio dentro al tinello del futuro ma anche in quello del presente. Il folclore di Tosatti consiste nel trascinare la gente qualsiasi dentro la storia della nostalgia rendendo accessibilissima la malinconia.

 

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Simon Leigh rappresenta invece il post soyinkismo, dal nome del premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka, ossia una visione dell’arte africana reinterpretata da un’eleganza modernista che trasforma la correttezza politica in una sorta di design uber-folk. Tosatti ha inventato una scenografia souvenir, Leigh un souvenir monumentale. Entrambi scavano per arrivare alle radici della propria cultura, cresciuta sui fatti ma più che altro su  misfatti, politici e sociali. Misfatti razziali, quelli di Simone Leigh, ridisegnati per poter colmare e curare i sensi di colpa del grande collezionismo, principalmente americano. Misfatti intellettuali, quelli di Gian Maria Tosatti, rifatti, nel senso di saltati, in una padella ambiziosamente scenografica, per soddisfare l’eterna elaborazione del lutto per la morte della genialità creativa italiana, maturata nel dopoguerra fino alla fine degli anni 70. Poi improvvisamente invecchiata e trasformata in un album di famiglia. Il “Metafolclore” della Leigh ha le radici di un bosco, quello di Tosatti ha le radici di un orto. Entrambi i padiglioni vogliono dare al presente la dignità del passato: sono conservatori ma non reazionari. Sfuggono o rifuggono dalla possibilità di un dinamismo futuro, sicuramente più complicato da gestire, da inquisire, da punire.

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