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mondi futuri

Il cielo nero della Russia visto dalla narrativa

Siegmund Ginzberg

C’è un’intera biblioteca di scrittori a Mosca per i quali il futuro è immaginabile solo come un cupo Medioevo

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Un Grande Muro separa la Russia dai nemici esterni. A fare a pezzi quelli interni ci pensano gli oprichniki, i servizi segreti dello zar. “Oltre il Grande Muro c’erano cyberpunk dannati che succhiavano il nostro gas illegalmente, cattolici ipocriti, protestanti spudorati, buddisti folli, musulmani malvagi, o anche solo senzadio corrotti, satanisti che si agitavano nelle piazze al suono della musica maledetta, drogati surgelati, sodomiti insaziabili che si sfondavano il culo a vicenda nel buio, lupi mannari lugubri, che mutavano la propria immagine, quella data da Dio, e plutocrati avidi, virtuali malefici, tecnotroni spietati, sadici, fascisti e megaonanisti…”. Sto leggendo Cremlino di zucchero, l’ultimo romanzo di Vladimir Sorokin tradotto in Italia (da Atmosphere Libri). “Un’enciclopedia dell’anima russa, un cocktail a base di vodka, neve e sangue… con qualche cucchiaino di zucchero”, promette la fascetta editoriale. E’ una parodia degli argomenti di Putin e di quelli del suo ispiratore Aleksandr Dugin. Anzi, quasi un’esposizione autentica, fedele all’originale, come spesso più veri dal vero che in parodia sono i personaggi imitati da Crozza.

 

La giornata di un oprichnik, il libro che aveva dato maggiore notorietà a Sorokin, è di 16 anni fa. Immaginava già, per l’allora abbastanza lontano 2028, una Russia ricca, ultramoderna, dominata da uno zar che ha messo fine agli anni del “Disordine rosso”, ha fatto dipingere tutta di bianco la Piazza rossa, e il cui cerchio magico consiste in un manipolo di assassini che terrorizzano il paese alla stessa maniera degli oprichniki, gli spietati cavalieri neri di Ivan il Terribile. Ammazzano gli oppositori e saccheggiano le loro case, stuprano le loro donne. Il protagonista del romanzo compie la sue scorrerie alla guida di una Mercedov, con infilzata al cofano, in luogo della stella cerchiata, una testa di lupo, tagliata di fresco e grondante sangue, come quegli siloviki dei tempi antichi appendevano alle loro selle teste di cane. Nel 2028 immaginato da Sorokin la Russia domina un’Europa decaduta, ed è a sua volta inondata di merci cinesi. Dominata dalla Cina. La Nato non esiste più, gli Stati Uniti sono stati ridimensionati a potenza regionale. Sorokin aveva previsto già nel 2008 l’annessione della Crimea. Quando poi ciò avvenne, nel 2014, previde che la guerra con l’Ucraina sarebbe stata “inevitabile”.

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C’è un’intera biblioteca di scrittori russi per i quali il cielo è sempre nero. Non c’è sole, ma che dico, nemmeno speranza di un barlume di luce nell’avvenire. Anzi, l’avvenire nemmeno esiste, il futuro è immaginabile solo come passato, un passato che risale ai secoli bui, al Medioevo. Una volta c’era la fantascienza, una grandissima fantascienza russa che guardava al cosmo, ai viaggi interplanetari, alla scoperta di mondi nuovi. A quella scuola di pensiero, che risale ai primi decenni del Novecento è stato dato anche un nome: “Cosmismo”. Tra i fondatori, un geniaccio che nel 1908 giocava a scacchi a Capri (e perdeva) con Lenin, e poi ci litigò di brutto, Aleksandr Bogdanov, e un bibliotecario un po’ pazzo, Nikolaj Fedorov, il quale immaginava viaggi spaziali per recuperare nel cosmo gli atomi degli antenati, e rimetterli insieme, come Iside rimette insieme lo smembrato corpo di Osiride. Strani. Ma niente a che fare col pessimismo dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij – tra i più grandi e prolifici autori di fantascienza di tutti i tempi – che già da molto prima della caduta dell’Urss immaginavano mondi e civiltà distanti, rimasti al Medioevo, ma ad un Medioevo che somigliava alla Russia dei loro tempi.

 

Ad una Festa del cinema a Roma di dieci anni fa mi era capitato di assistere alla proiezione di un bellissimo, quanto sconosciuto film: Difficile essere dio, il capolavoro postumo in bianco e nero di Aleksei German (il regista era morto prima di riuscire a completare un progetto di decenni). E’ tratto da un romanzo dei fratelli Strugackij che ha lo stesso titolo e risale ai primi anni 60. Immagina un Medioevo di fango, sterco, sporcizia, rovine, armi taglienti, cotte di maglia di ferro e armature arrugginite, massacri atroci e torture efferate. Solo che quel Medioevo è evidentemente il loro oggi russo. Puro Medioevo futuro è quello dei romanzi di Sorokin. E di gran parte della fantascienza o fantapolitica russa degli ultimi anni, compreso il Metro 2033 di Dmitrij Gluchovskij (Dmitry Glukhovsky nell’edizione in italiano per MPlayer Edizioni) in cui si immagina una Mosca costretta, in seguito ad una catastrofica guerra nucleare, a vivere nel labirinto dei cunicoli della sua metropolitana, sin dai tempi di Stalin la più grande e lussuosa del mondo. Ciascuna delle centinaia di stazioni è diventata una repubblica indipendente in guerra con ciascun altra. Nel romanzo le linee dell’immane labirinto sotterraneo si diramano sino a Kiev, Minsk e Varsavia. Nel videogioco cult tratto dal romanzo (anzi ormai sono una serie di videogiochi) arrivano addirittura sino a Roma…

 

Ci sono volute le immagini dall’Ucraina per ricordarci che quel Medioevo è qui e ora. E, come in ogni Medioevo che si rispetti, non poteva mancare la peste. La tormenta è forse il più bello dei romanzi di Vladimir Sorokin. Il protagonista è un medico che sfida una tempesta di neve per raggiungere e portare i vaccini a un villaggio remoto colpito da una misteriosa pandemia. Si sposta sulla vecchia slitta fornitagli da un contadino, che al posto del motore (il gasolio è diventato inabbordabile) ha cinquanta minuscoli cavallini. Il romanzo è di 15 anni fa, del Covid non c’era ancora ombra. E nemmeno delle clamorose cilecche della tecnologia militare russa. La tempesta di neve è un classico in tutta la letteratura russa, da La figlia del Capitano di Puškin ai foschi poemi di epoca della Rivoluzione di Blok, grondanti sangue e atrocità. “Sul bianco giaciglio/ il morto si addormenta/ al vetro turbina placida la tormenta” sono i versi di Aleksandr Blok che Sorokin pone in esergo a La Tormenta. Ma da un certo punto in poi, come nelle pianure dell’Ucraina, alla candida neve subentra il fango. Un fango misto a detriti, spazzatura, cenere senza diamanti, brandelli di carne umana, sangue, merda, calcinacci, rovine annerite, rottami di metallo calcinato e arrugginito. Un fango appiccicoso, impassabile anche per i cingoli dei carri armati russi, come settanta anni prima lo era stato per i panzer di Hitler e, due secoli prima ancora, lo era stato per le salmerie di Napoleone.

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Ljudmila Petruševskaja è la Gran Dama della chernuka, dell’umor nero in letteratura, diventato un vero e proprio genere dalla Perestrojka in poi. Così viene definita la prosa iper-realista che tratta temi sgradevoli, ripugnanti, appunto “neri”, dark, tipo il crimine e la crudeltà gratuiti, le torture e umiliazioni inflitte ai più deboli (e non solo ai “nemici”, ad esempio alle reclute nell’esercito da parte dei loro superiori o commilitoni), gli orrori delle prigioni e degli altri luoghi di detenzione, la vita penosa delle prostitute, dei derelitti, dei vagabondi e dei senzatetto, i temi della povertà, dell’abiezione sessuale, della maternità indesiderata, della violenza sessuale, fisica e morale, da parte di estranei ma soprattutto in famiglia. Nessuno di questi temi è assente nella scrittura della Petruševskaja. Anche se molti suoi racconti vengono presentati come “favole”. In effetti pare che abbia iniziato a scrivere negli anni 60, da madre di tre figli per raccontargli favole.

 

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E del resto la pura cattiveria era una delle trentuno funzioni analizzate da Vladimir Propp nella sua Morfologia della fiaba e nella classificazione dei “Racconti di fate” russi. C’era una volta una donna che cercò di uccidere la figlia della vicina: così suona il titolo della traduzione italiana di una scelta dei suoi racconti, pubblicata da Einaudi. Non c’è geopolitica, e nemmeno politica tout court, ma non manca nessuna delle premesse dell’eccesso di orrore quotidiano. Non la brutalità della violenza politica, del potere. Nemmeno la pandemia. Il racconto “Igiene” inizia con uno strano giovane dal “cranio liscio e rosa coperto di una pellicina sottilissima, come la panna quando si fa bollire il latte”, che bussa alla porta dell’appartamento, e dice: “Io ho avuto la malattia […] Sono riuscito a salvarmi e non ho paura del contagio, così giro per le case, porto pane e provviste a chi non li ha […]”. Finisce con il distanziamento in casa dei contagiati uno dopo l’altro, a cominciare dalla bambina, chiusa in camera dopo che mamma e nonni si accorgono che lei si è mangiata un topo… e infine lo sterminio dell’intera famiglia, tranne la bimba e il gatto…

 

Nipote di un vecchio bolscevico della prima ora, che era finito negli anni 30 nelle maglie della repressione staliniana ed era stato privato della pensione, abbandonata dal padre, evacuata da Mosca a Kujbyšev durante la guerra quando aveva appena due anni, vedova di un primo e poi di un secondo marito, Ljudmila Petruševskaja non ha avuto vita facile. Non riuscì a farsi pubblicare quando c’era la vecchia Unione sovietica, nemmeno dall’editore di Novy Mir, che pure aveva pubblicato Solžhenitcyn. Divenne celebre, un’autrice best-seller, solo dopo la Perestrojka. Forse è la più venduta ancora oggi in Russia. Non so se a 83 anni compiuti rilasci ancora interviste. Mi trovassi a Mosca farei di tutto per poterle chiedere che ne pensa di Putin e dell’invasione dell’Ucraina.

 

Sono convinto che la narrativa – la migliore narrativa, non quella dei sicofanti di regime - la dica lunga sugli umori di una nazione. Ebbene, non c’è narrativa che sia dark, nera, cupa, deprimente, pessimista, raccapricciante, quanto quella russa degli ultimi decenni. Intendiamoci: anche Kafka è una lettura che mi ha sempre messo a disagio, di cattivo umore, non la consiglierei a chi nutre già per conto suo propositi di suicidio. Così come non è certo ottimista la grande fantascienza americana degli anni 50 o 60, non è certo allegra la visione del futuro di Philip K. Dick, e neppure la fantasia di Theodore Sturgeon. Non si poteva definire ottimista la grande fantascienza sovietica dei fratelli Strugackij (né, prima di loro, quella eroica di Bogdanov o del Noi di Zamjatin).

 

Ma Vladimir Sorokin, Ljudmila Petruševskaja, a modo loro anche Boris Akunin e Victor Pelevin, superano tutti gli scrittori russi che li hanno preceduti in fatto di pessimismo, avvilimento, demoralizzazione, tristezza, sconforto. Peggio, molto peggio del pessimismo ottocentesco di Dostoevskij, che pure non è uno allegro. Non è nemmeno questione di horror o meno: Gogol’ scriveva di fantasmi, streghe e mostri, ma non era per niente cupo. L’horror è un genere divertente, entertaining, può persino tirare su il morale. Non per niente piace ai bambini, c’è horror anche nei cartoon. Né è questione di pessimismo, denuncia politica: il samizadat, i libri sul Gulag di Solžhenitcyn e le storie di orrore di Šalamov sulla Kolyma parlavano sì di cose tremende, ma nel momento stesso della denuncia aprivano la possibilità di redenzione, di raddrizzamento dei torti. Quel che colpisce nella grande narrativa degli ultimi anni è invece la disperazione. Assoluta.

 

C’è chi ha provato a periodizzare. Hanno provato a definire questa narrativa “nera” come narrativa del dopo Chernobyl, o narrativa dell’agonia e del crollo dell’Urss. Su una cosa ha forse ragione Putin: da quei traumi la Russia non si è mai ripresa. Ma c’è chi, all’opposto, fa notare che la letteratura del dissenso sovietico non era in fin dei conti così dark, così nera, anche nel Gulag si lottava sì per la sopravvivenza, ma anche perché c’era speranza che le cose cambiassero. Solo dopo è subentrata la disperazione assoluta.

 

Boris Akunin è a prima vista solo un po’ meno pessimista degli altri. Il suo eroe, il detective Fandorin, è un onesto funzionario zarista, che riesce a fare il suo mestiere malgrado tutto gli remi contro. Akunin è uno pseudonimo. In giapponese significa “uomo malvagio”, l’ha scelto, spiega lui, perché da giovane gli piacevano i cattivi dei libri e del cinema. Si chiama in realtà Grigorij Chkhartišvili, è di origine georgiana. E’ bastato perché Putin lo additasse come nemico e lo costringesse all’esilio. Forse è questo, l’essere fuori tiro, che gli consente di essere un po’ meno pessimista. Ha invitato, in una recente intervista a La Lettura, a non farsi scoraggiare dai sondaggi che mostrano in crescita il sostegno a Putin. “Non fidatevi dei sondaggi, è un sostegno passivo, la gente ha paura di svelare quel che pensa davvero”, dice. Anzi, arriva a sostenere addirittura che “i cattivi possono cambiare il mondo in meglio e i buoni in peggio”.

 

Quando c’era l’Urss l’idea era che si dovessero pubblicare solo libri “utili”. Quelli giudicati “inutili” o addirittura “dannosi” erano proibiti, o pubblicati solo in modo semi-clandestino, in poche copie, da riviste o case editrici minori. I fratelli Strugackij ad esempio non erano dissenzienti espliciti, nemici del regime. Erano, come altri scrittori che in un momento o l’altro furono censurati o silenziati, dei sovietici convinti, si dichiaravano rivoluzionari umanisti. Non sfuggiva l’intento satirico della loro fantascienza, la critica alla burocrazia o alle politiche irresponsabili dei “distruttori di mondi” (compreso il proprio mondo, la loro Russia e il nostro pianeta) per avidità, per fame di conquiste, per troppo zelo, o per pura insipienza. Un altro che non riuscì a pubblicare quando c’era ancora l’Urss era l’ebreo ucraino Vasilij Grossman. Ma restava ottimista. Scriveva a Kruscev, ottenne persino un colloquio con Suslov, nel tentativo di convincerli a lasciargli pubblicare i libri censurati. “I nostri scrittori sovietici devono produrre solo ciò che serve ed è utile. Perché mai dovremmo aggiungere il tuo libro alle bombe atomiche che i nemici si preparano a lanciare contro di noi?”, gli rispose l’eminenza grigia del Cremlino di allora.

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