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Dimmi cosa ricordi dei libri che hai letto e ti dirò chi sei. Vale quasi sempre

Matteo Marchesini

Quel che resta delle nostre antiche letture: un tema, un personaggio, un atmosfera o un particolare, insignificante o meno. Galleria di dettagli dalla memoria sfilacciata di un lettore

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Ho un amico che dei romanzi che ha letto anche molti anni fa ricorda tutto, e sa riassumere le trame più ingarbugliate di Dickens o Wallace. Un altro, al contrario, già il giorno dopo la lettura non ricorda quasi niente: “Mi è rimasto un senso di torbido”, dice; oppure: “era così confortante il tono dell’autore… ora non so perché, ma mi sembra che perdonasse tutti”.

Io sono a metà tra i due: l’intreccio mi si sfilaccia presto in testa, e trattengo pochi episodi deformati più un colore di fondo. Ci pensavo riaprendo la Recherche per l’anniversario proustiano. Se qualcuno mi chiedesse come è fatto quel sontuoso succedersi di apparizioni ed epoche, parlerei della luce. Mi è rimasta l’impressione che il romanzo inizi illuminato da un caldo tramonto, e poi proceda a ritroso: il pomeriggio salso, en plein air, delle fanciulle in fiore, il dopopranzo torpido dei sodomiti, il mezzogiorno arido della gelosia che filtra tra le tende della prigione, e infine il mattino mortuario dove ogni figura rivela la sua verità ultima, squallida e terribile. L’episodio che ho più nitido è quello in cui il narratore spia la ragazza Vinteuil mentre con la compagna sputa sulla foto del padre. Si trova su un argine? Non so, ma così lo rivedo: ed è un argine padano, da Bassani.

L’uomo senza qualità, invece, lo ripenso tutto ambientato in un giorno plumbeo, dentro una villa di periferia: in perenne stallo, i personaggi conversano guardando oltre i vetri il giardino cupo e umido che nasconde una belva. Plumbeo è anche il cielo dell’altro cantore della finis Austriae, Joseph Roth, il cui nome non evoca in me precisi plot ma un’unica corsa a perdifiato di soldatini con le orbite vuote su una pianura immensa.

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Rimetto nello scaffale i libri di questi liquidatori della narrativa moderna, e mi volto verso il ripiano dell’Ottocento. Hardy, Jude l’oscuro. Rivedo Arabella che agita in faccia al marito delle interiora di suino, o butta via i libri attraverso i quali lui vorrebbe innalzarsi alla Cultura: sento quasi fisicamente il suo destino imbarazzante, quella triste vocazione a subire che collego al Blast di Casa Howard. Vicino a Jude, Tess dei d’Urberville. A parte il celebre finale, riaffiora dall’oblio una sola immagine: un prato dove si svolge l’incontro geometrico tra Tess e il suo corruttore, che si avvicinano come palle su un biliardo.

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Una superficie altrettanto liscia domina il mio ricordo dell’Educazione sentimentale, che sta tutto nell’incipit in cui il battello scivola sul fiume, come di lì in poi gli eventi scivoleranno sul piano inclinato di una storia piallata dall’insignificanza. Accanto a Flaubert tengo i russi. Tostoj, I cosacchi, e Padri e figli di Turgenev, sono fatti della stessa aria di cristallo. I loro autori sanno materializzare la stoffa del Tempo, dietro cui svaniscono i profili di ufficiali e nichilisti. Con altri mezzi ci riesce anche Cechov: dopo che si è letto un suo racconto breve, nella memoria si dilata come un fiore in acqua, finché la dilatazione cancella gli eventi. Dostoevskij invece mi fa pensare all’impossibilità di star fermi. Saprei descrivere solo certi tipi minori, ma in cui è condensata tutta la febbrile, incendiaria vergogna della sua Weltanschauung: Marmeladoff, Ippolit logorroico che non sa spararsi, gli ideologi dei Demoni.

E’ già Novecento: la tragedia che finisce in farsa, l’atroce che convive col ridicolo. Cent’anni dopo ha riassunto perfettamente questo tema Kundera nello Scherzo. Quando lo lessi mi entusiasmò, ma ora ricordo bene solo la patetica donna che si vuole suicidare e inghiotte per sbaglio i lassativi. Chissà se Kundera sarebbe contento di questa reductio. A volte ci fissiamo su ciò che un autore vorrebbe forse dimenticare.

Così per me nulla è più vivo, in Calvino, di una scena della sua Giornata d’uno scrutatore – libro quasi abiurato – dove un ospite del Cottolengo e un onorevole si guardano: Natura irredimibile contro fatua Storia. Accanto a Calvino, sullo scaffale c’è Sciascia. Di lui visualizzo delle singole frasi sulla pagina, anziché le immagini che rappresentano. Segno che i suoi testi sono pura scrittura: e infatti al cinema diventano volgari. Su un ripiano basso ho sistemato dei romanzi italiani più recenti. Niente mi resta della trama di La forza del passato, ma indimenticabile è la digressione che Veronesi fa sulle rosticcerie, e che mette una fame da lupi. Poi c’è Walter Siti. Nessuno dei suoi culturisti scolpiti mi si è scolpito nella memoria come un ritratto breve dei genitori anziani (il padre che pranza alle nove per mettersi avanti, la madre che piange se il figlio butta via un uovo) descritti in Troppi paradisi con lo spietato strazio di chi non può liberarsi dell’eredità contadina e piccolo-borghese. Rileggendomi, mi accorgo di ricordare soprattutto scene di umiliazione. Forse perché è l’unica cosa che mi sembra certa, nella vita come nella letteratura.

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