IL FOGLIO DEL WEEKEND

Non solo Lino Banfi. Storia dei bavagli furiosi

Maurizio Stefanini

Da Dante a Rocco Siffredi, l’Italia è piena di richieste di censura più puritana che politica. Un campionario

Anche Dante farà la fine di Lino Banfi? Porca puttena, sarebbe il caso di commentare… Già il politically correct se l’era preso con la Divina Commedia per quel canto XXVIII dell’Inferno in cui  Maometto è collocato tra i seminatori di scismi e discordie che per legge del contrappasso un diavolo fa a pezzi a colpi di spada. “Mentre che tutto in lui veder m’attacco, / guardommi, e con le man s’aperse il petto, / dicendo: Or vedi com’io mi dilacco! / Vedi come storpiato è Maometto!”. 


A parte le minacce di attentati a quel Duomo di San Petronio a Bologna dove un affresco quattrocentesco di Giovanni da Modena rappresenta appunto questi versi danteschi, in olandese-fiammingo è da poco uscita una traduzione del poema in cui il nome del profeta dell’islam è censurato. Ma già nel 2012 Gherush92, organizzazione di ricercatori e professionisti con status di consulente speciale presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite, aveva chiesto di togliere dai programmi scolastici la Divina Commedia per eccesso di contenuti “antisemiti, islamofobici, razzisti e omofobici”. Ma, nell’attesa, c’è il Movimento italiano genitori onlus (Moige) a celebrare come “vittoria dei diritti dei minori” l’aver fatto togliere, grazie alle sue pressioni, il “porca puttena” di Lino Banfi-Oronzo Canà dalla pubblicità con cui Tim Vision promuoveva le offerte sulla trasmissione delle partite del campionato di calcio di serie A. E appunto, l’espressione incriminata scappa anche al Sommo Poeta. 


Più di una volta, anzi. “Taide è, la puttana che rispuose / al drudo suo quando disse ‘Ho io grazie / grandi apo te?’: ‘Anzi maravigliose!’”, è scritto ad esempio di una adulatrice nel canto XVIII dell’Inferno.  “Di voi pastor s’accorse il Vangelista, / quando colei che siede sopra l’acque / puttaneggiar coi regi a lui fu vista”, è l’invettiva contro i papi simoniaci del successivo canto XIX. Né questa è l’unica espressione da caserma che scappa al geniale ma iracondo padre della lingua italiana, nel suo viaggio attraverso l’aldilà. Dalla “merda” che schizza ancora nel citato canto XVIII, al diavolo che “avea del cul fatto trombetta” nel XXI, alle “fiche” del XXV, passando per il “bordello”, le “poppe” e la “vacca” del Purgatorio, fino a un “bozzacchioni” oggi desueto ma che porta fino in Paradiso quelle che oggi vengono più correntemente definite caccole. Non dovrebbero venire al Moige i sudori freddi, all’idea che la scuola dell’obbligo metta in mano a minorenni una roba del genere?


Per gli entusiasti, il turpiloquio di Dante è la riprova che è lui il padre della nostra lingua non solo in senso aulico, ma anche nelle sue versioni più popolane. Non a caso a una festa della Taranta Ambrogio Sparagna e Francesco De Gregori fecero l’esperimento di mettere alcuni dei versi più famosi della Divina Commedia a tempo di Pizzica, a dimostrare come l’endecasillabo dantesco e i ritmi etnici italiani si sposino perfettamente. Ma in un’altra chiave Dante potrebbe effettivamente svolgere una grande sintesi: mettere assieme contro di sé i censori vecchi e quelli nuovi. Sia quelli facenti riferimento a una morale tradizionale per cui il peccato erano le parolacce o il sesso; sia quelli invece facenti riferimenti a una morale nuova, per la quale bisogna invece sanzionare ogni sospetto di razzismo, sessismo, colonialismo e simili.
All’alba dei tempi, il censore della Repubblica romana era un magistrato che faceva il censimento per garantire che il censo dei cittadini fosse adeguato al loro ruolo. Come spiega ad esempio Cristiano Viglietti nel suo “Il limite del bisogno. Antropologia economica di Roma arcaica”, ogni cives romanus aveva il diritto ai due iugeri corrispondenti al mezzo ettaro che si poteva arare in due giornate di lavoro con una coppia di buoi al giogo. Era il minimo indispensabile perché il cittadino potesse avere l’autosufficienza economica necessaria ed esplicare i suoi diritti di elettore e i suoi doveri di soldato, e infatti veniva assegnato al nuovo cittadino allo stesso modo in cui oggi si dà il passaporto. Ma bisognava farselo bastare, e allora il censore sorvegliava il tenore di vita dei singoli, “censurando” chi sprecava anche con la sospensione del diritto di voto.  


Nella Repubblica tornata a Roma capitale nel 1946, “il censore” diventa invece il personaggio  satireggiato nella canzone di Fausto Amodei ispirata dal caso “la Zanzara”. Il giornale del liceo Parini di Milano nel febbraio del 1966 pubblicò  “Un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso”, da cui emergeva cosa pensavano le liceali circa il sesso e il loro ruolo nella società. Denunciati, accompagnati in questura e sottoposti a interrogatorio e ispezione corporale, i tre autori furono accusati di pubblicazioni oscene e corruzione di minorenni, ma infine assolti. “Non so dirvi se sia nato sotto un cavolo / o se l’abbia trasportato una cicogna, / ma per lui sarebbe stata una vergogna / esser nato come siete nati voi. / Solamente colle pappe artificiali / lo poterono allattare da neonato / perché, certo, non avrebbe mai succhiato / qualche cosa che non fosse il biberon. / Era un tutore della pubblica morale / che vede il male anche dove non ce n’è”. O il “Signor censore” di una canzone di Edoardo Bennato del 1975: “Signor Censore che fai lezioni di morale, / tu che hai l’appalto per separare / il bene e il male, sei tu che dici / quello che si deve e non si deve dire. / Signor Censore, nessuno ormai ti fermerà, / e tu cancelli in nome della libertà. / La tua crociata / per il bene dell’umanità. / Signor Censore, da chi ricevi le istruzioni / per compilare gli elenchi dei cattivi e buoni? / Lo so è un segreto, / lo so che non me lo puoi dire”. “E così mentre la gente continua / ad emigrare, tu sfogli i libri / e passi il tempo a cancellare / le frasi sconce, e qualche nudo un po’ volgare”. 


Il festival di Sanremo dell’epoca dà effettivamente l’idea di cosa potesse accadere nel mondo della canzone. Nel 1971, ad esempio, Lucio Dalla dovette modificare il testo della sua “4 marzo 1943”, terza in classifica e campione di vendite: da “e ancora adesso che gioco e rubo e bevo vino / per i ladri e le puttane io sono Gesù Bambino”, in “e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino / per la gente del porto io sono Gesù Bambino”. E l’anno dopo Nicola Di Bari vince con “I giorni dell’arcobaleno”, ma dopo aver emendato un “vivi la vita di donna importante / perché a 13 anni hai già avuto un amante” in un “perché a 16 anni ti senti già grande”. E nella hit parade allora trasmessa dalla Rai furono menzionate, ma non riprodotte, non solo l’orgasmatica “Je t’aime, moi non plus” di Jane Birkin e Serge Gainsbourg ma anche “Dio mio no” di Lucio Battisti e “Bellissima” di Loredana Bertè. Per testi in realtà non troppo più spinti di cose che invece andavano senza problemi, come “Bella senz’anima” di Riccardo Cocciante col suo “adesso spogliati!”, o “Nuda” di Mina. E che dire di “Dio è morto” di Francesco Guccini? Censura politica in Rai, ma la davano in Radio Vaticana e la cantavano in chiesa. Per dire che in realtà non sempre era “colpa dei preti”… Storica anche l’esecuzione in Rai di Gabriella Ferri per un “Tutti ar mare, / a mostrà le chiappe chiare”, trasfigurato in “a vedè che se po’ fare”. Altri tempi, sicuramente, se si pensa al  “vi conviene toccarvi i coglioni” e “parla non sa di che cazzo parla” con cui i Måneskin hanno realizzato una storica accoppiata Sanremo-Eurovision Festival.


Attenzione, però. Una storia puntigliosa del tema della censura in campo letterario in Italia dal 1945 a oggi l’ha scritta nel 2013 Antonio Armano per Aragno in “Maledizioni”, che nel sottotitolo dettagliava: “Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi, anzi domani”. Un tomo di ben 517 pagine, che arrivava a oltre mille con l’aggiunta di altre 532: materiali giudiziari in pdf pubblicati nel cd allegato. Un lavoro certosino fatto non solo su archivi di stato, emeroteche e biblioteche, ma anche per bancarelle di libri usati e perfino su eMule. Una sua scoperta era che gran parte di queste memorie difensive e requisitorie rappresentavano a loro volta materiale letterario e critico notevole. Le 65 pagine con cui il pm Ottavio Benedicti il 3 luglio 1947 dispone l’archiviazione della denuncia per oscenità nei confronti del “Muro” di Sartre, ad esempio, rappresentano un’analisi singolarmente accurata della filosofia e della poetica esistenzialista. La requisitoria con cui il 24 settembre 1962 la procura della Repubblica di Verona dichiara impromuovibile l’azione penale contro l’“Ulisse” di Joyce lo definisce “capolavoro della letteratura moderna” che “dibatte i problemi della conoscenza moderna, del disorientamento della storia e della società”: “Si direbbe che il cammino di Leopold Bloom è quello tormentato dell’uomo nel mondo”. Il procuratore della Repubblica di Milano il 28 marzo 1963 cita l’“Estetica” di Benedetto Croce, pagina 55: “Gli artisti non possono ispirarsi se non a ciò che ha fatto su di loro impressione; a promuovere invece dei mutamenti nella natura circostante e nella società perché quelle impressioni non abbiano più luogo”, oltre a altri noti critici, per respingere l’azione penale contro “La noia” di Alberto Moravia.


Insomma, mole e titolo sembravano indulgere allo stereotipo per cui il nostro è un paese bacchettone e retrogrado in cui codici fascisti e invadenza della Chiesa hanno reso difficile la vita dei letterati. Ma già nell’introduzione Armano avvertiva che le cose sono andate in modo ben diverso. In Italia, anzi, “L’amante di Lady Chatterley” di D. H. Lawrence ebbe via libera nel 1947, con ben 12 anni di anticipo sul Regno Unito. Piuttosto, in Italia c’è stata una gran quantità di censure editoriali e politiche, quasi più da sinistra che dal mondo clerico-moderato. La “Paga del sabato” di Beppe Fenoglio, ad esempio, uscito postumo perché Italo Calvino lo giudicava “pornografico”. Guido Morselli suicida perché non gli pubblicavano niente. I tentativi peraltro inutili del Pci, per conto dell’Urss, di far pressione su Feltrinelli per bloccare il “Dottor Zivago”.  Arnoldo Mondadori che decise spontaneamente di ritirare il numero di Urania con “L’alba delle tenebre” di Fritz Leiber appena stampato, quando gli segnalarono che il carattere violentemente anticlericale di quel romanzo di fantascienza avrebbe potuto procurargli qualche grana. La “messa al bando morale” votata all’unanimità dal Consiglio comunale di Napoli il 15 febbraio 1950 contro “La pelle” di Curzio Malaparte: quasi in contemporanea alla sua messa all’Indice da parte della Chiesa. 


Se tantissime furono le denunce, però, in tribunale le condanne furono poi pochissime. E quasi nessuna dopo gli anni Cinquanta. Proprio Alfredo Rocco, l’autore del codice penale “fascistissimo”, aveva voluto a favore dei letterati norme particolarmente liberali, spiegando che “per non cadere negli eccessi d’un bigottismo incompatibile con lo spirito della civiltà moderna, la legge penale deve, nel tutelare il pudore, non obliterare o conculcare le supreme necessità della scienza e le insopprimibili aspirazioni dello spirito umano verso la bellezza dell’arte”. Per cui, appunto, basta dimostrare davanti al giudice la finalità artistica, e ogni oscenità viene perdonata.


Al cinema si andò oltre gli anni Cinquanta, se si pensa alla sentenza della Cassazione che il 29 gennaio 1976 condannò al rogo “Ultimo tango a Parigi”, mentre il regista Bernardo Bertolucci per offesa al comune senso del pudore era privato dei diritti politici per cinque anni e condannato a quattro mesi con la condizionale. Furono però salvate alcune copie come corpo del reato: nel 1982 un tentativo di riproiettare il film a Roma durante una rassegna cinematografica portò a una nuova denuncia, e dal processo venne la riabilitazione. Tra 1946 e 2021, comunque, i film colpiti dalla censura in Italia sono stati appena una dozzina: tra essi “Nodo alla gola” di Alfred Hitchcock, “Gola profonda” di Gerard Damiano, “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini, “Sesso nero” di Joe D’Amato, “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato e “Totò che visse due volte” di Ciprì e Maresco. Ma alla fine quello vietato più a lungo è stato “Il leone del deserto”: film storico del 1981 voluto da Gheddafi per celebrare la rivolta anti-italiana di Omar al-Mukhtar, che fu bloccato 28 anni per offese al nostro esercito. La censura cinematografica è stata infine abolita proprio il 5 aprile scorso.


Lo stesso Bertolucci, riabilitato dalla magistratura per la vecchia censura, ha però fatto in tempo a essere vituperato dalle femministe con l’accusa di stupro, quando saltò fuori che Maria Schneider aveva subito a sorpresa la famigerata scena del burro. E siamo ormai arrivati all’epoca del “Me too” e della cancel culture: la censura viene non più dai giudici ma dal basso, a colpi di statue abbattute. O da commissioni scolastiche e universitarie, a colpi di programmi massacrati. O nella pubblicità, dove criteri vecchi e nuovi si sovrappongono. No al porca puttena; no alle “patatine” che Rocco Siffredi si vantava di aver assaggiato anche “tre alla volta”; e tempesta contro la Molisana per la denominazione “coloniale” dei formati di pasta come Abissine, Tripoline, Assabesi, Africanini o Zuarini: salvo poi rientrare subito quando si  è scoperto che Tripolini e Bengasini li vendevano anche le rosse Coop, e che la Molisana era stata una storica finanziatrice delle feste dell’Unità locali.


Ma la cosa più radicale è oggi l’algoritmo di Facebook, che scatta in automatico per certe parole proibite, e a quel punto non c’è più appello. Anche l’autore di queste note ne è stato colpito un po’ di tempo fa, proprio per aver fatto un’osservazione in un dibattito a colpi di post sul tema “censura su Facebook”. Concetto espresso: “Facebook non fa vere e proprie censure sulle idee, ma sarebbe capace di sospendermi se scrivessi che mia moglie è negra”. Come ogni tanto ho avuto modo di spiegare ai lettori del Foglio, la donna con cui sono sposato da 28 anni e con cui ho fatto due figli ha effettivamente la pelle scura. Afro-colombiana. Manco a dirlo, subito è arrivato il fulmine di Zuckerberg: “Sospeso per 24 ore per uso di termini razzisti”. Tentativo disperato di ragionare con l’algoritmo: “Ma ho usato il termine negra proprio nel contesto di un ragionamento sull’uso del termine negro, come faccio a essere razzista se la mia famiglia è multietnica?”. Risposta sbagliata. “Hai detto negra. Sospeso per 24 ore”.  Per insegnarmi a non essere razzista, Facebook mi ha così impedito di spammare un articolo in cui spiegavo un festival di cultura rom e sinti. Così imparo.

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