Una marcia in memoria di Samuel Paty, a Parigi, lo scorso ottobre (LaPresse)

Terroristes en réseaux

“La fabbrica delle menzogne”, un documentario da vedere

Mauro Zanon

L’economia dell’attenzione, ovvero la ragione per cui i social non eliminano i discorsi d’odio

Abdoullakh Anzorov, l’islamista ceceno che il 16 ottobre scorso ha decapitato in Francia l’insegnante di Storia e Geografia Samuel Paty, era ossessionato dal jihad e manifestava sui social network le sue intenzioni violente. Aveva un account su Twitter e due su Instagram, ma era attivo anche su Telegram e Snapchat nel condividere video cruenti e inneggiare al martirio. Eppure, nonostante l’intensa e inequivocabile attività di propaganda islamista, non è mai stato interrogato dalle autorità francesi, né bloccato dai giganti del web. Come si spiega l’impotenza da parte del governo e dei social in un’epoca di sorveglianza rafforzata come la nostra? “La filosofia delle piattaforme è di moderare il meno possibile. Il business model dei social è l’economia dell’attenzione. Più reazioni di indignazione e di rabbia ci sono, più sono alti il numero di clic e l’attenzione. E ciò è un bene per le piattaforme perché attira pubblicità”, ha risposto al Figaro Guillaume Auda, autore assieme a Etienne Mélou di una video-inchiesta sui social come principale fucina di radicalizzazione: “La fabrique du mensonge: terroristes en réseaux”

 

Trasmesso domenica sera su France 2, il documentario ricostruisce le origini della tragedia del collège du Bois d’Aulne, la scuola in cui  Paty insegnava la libertà di espressione con le vignette di Charlie Hebdo.  Affronta anche la strage del suprematista bianco Brenton Tarrant del 15 marzo 2019 a Christchurch, in Nuova Zelanda, costata la vita a 51 musulmani. I due attacchi sono legati da un punto in comune: entrambi gli attentatori, da estremità opposte, si sono radicalizzati sui social e non hanno mai fatto nulla per nascondere il loro odio. “L’inchiesta mi ha permesso di scoprire che tra l’8 giugno 2020, quando ha creato il suo account Twitter, fino all’inizio del processo Charlie (settembre 2020, ndr), Anzorov ha postato 1.700 messaggi su ciò che deve essere l’islam puro. Superava molto spesso la linea rossa dei segnali classici del jihadismo: denuncia degli ‘infedeli’, antisemitismo, omofobia, misoginia. La Licra (Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo, ndr) lo ha segnalato alla piattaforma del governo Faros”, ha raccontato Auda. 

 

La prima parte del documentario dei due giornalisti si focalizza sulla concatenazione di eventi che ha portato alla morte del professor Paty, con un’analisi del percorso familiare e psicologico del suo assassino, ma è anche una denuncia delle falle nei protocolli di sicurezza dei social e delle mancanze dell’intelligence di Parigi. Quali lezioni sono state tratte da allora? “Alcune cose sono cambiate”, ha detto al Figaro Auda, evocando il caso di Didier Lemaire, professore di Trappes minacciato di morte dagli islamisti, cui lo stato francese ha garantito una scorta ventiquattro ore su ventiquattro. In attesa dell’approvazione della legge contro i separatismi promossa dal ministro dell’Interno Gérald Darmanin, che “obbligherà le piattaforme a dimostrare di investire risorse nella lotta contro l’odio sul web”, ha precisato Auda. 

 

Tarrant, l’attentatore di Christchurch, oggetto della seconda parte dell’inchiesta, frequentava forum suprematisti e visionava compulsivamente video cospirazionisti che annunciavano un presunto “genocidio bianco”. Il video dei primi diciassette minuti dell’attacco trasmesso in diretta su Facebook fu visto da migliaia di persone e condiviso alla velocità della luce. Il social americano non poté nulla per contenere la valanga di condivisioni. Per gli autori del documentario, fu “il più grande fallimento della storia della moderazione sui social”. 

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