L'intervista della domenica

Timido molto audace

Simonetta Sciandivasci

Ferito e contento, il rap, l'Rnb, i capelli, i cappotti, Twitter, Milano, la buona educazione, Rocco Tanica. Conversazione con Ghemon 

Ghemon sa fare tutte le cose che si possono fare con le parole. Le canzoni, i libri, i monologhi, le battute, le poesie, i tweet, la pace, i giochi, l’amore, il cambiamento. È un migrante, viaggia incessantemente, anche da fermo: esplora. È un attore: ha tutte le vite possibili, molte di più di quelle dei gatti. Gli dicono sempre che è sofisticato. E che è educato, il primo rapper educato d’Europa. Qualcuno ha scritto che, adesso, è il re dell’RnB e “della salute psicofisica”.

Il suo ultimo disco si chiama “Feriti e contenti”, inizia come una fiaba, ma finisce come un disco: senza morale. Quest’anno è salito sul palco di Sanremo con i capelli lunghi e ricci, e le giacche fluorescenti, e il corpo ben in vista, e un incarnato da vacanze in montagna, e un fare da crooner. Era irriconoscibile. Ed era impossibile non tifare per lui perché aveva fatto una miniserie di video per Instagram in cui chiamava parenti in Australia, ex fidanzate, ex negozianti di fiducia per chiedere di votarlo. Di rappresentazioni del sud che mi porto dentro e che trovo irresistibile ne ho viste parecchie, e questa la metto sul podio delle migliori.

A Sanremo ha cantato una canzone, “Momento perfetto”, che ho capito e amato lentamente, al contrario di quella di due anni fa, “Rose viola”, che era molto più diretta, anche se lui la cantava da un involucro, dentro cappotti enormi e bislacchi. Questo doppio movimento è una costante della sua carriera: da un lato l’esposizione, dall’altra la stratificazione.

L’altro giorno, su Twitter, ha scritto: “Momento perfetto inizialmente diceva: ‘Ho aspettato in silenzio e con calma e però sono cinquanta minuti che ho ordinato. La signora è arrivata dopo di me ed è già al secondo’. Ma al tempo c’erano i locali chiusi, la gente non si sarebbe rivista. E poi non stava bene a tempo”.

 

Lei è simpatico.

Grazie!

 

E pudico.

So and so.

 

Nelle sue canzoni c’è tantissimo pudore.

Non so se sia pudore. So che mi piace il lato poetico della scrittura. Nonostante io faccia un genere dove le cose si dicono in molto schietto, spesso anche duro, a me interessa fare il giro largo, trovare perifrasi per dire la stessa cosa in un altro modo, allungarla, allargarla, arricchirla. A me piace la poesia.

 

Patrizia Cavalli ha detto una volta (ad Annalena Benini su questo giornale) che non esistono sinonimi.

Mi piacciono le posizioni forti e questa mi piace e la capisco, ma non so se sono d’accordo. Non sono certo che esista un solo modo di dire una cosa, né che esista una e una sola parola per dirla.

 

Come mai fa così tante cose con le parole, proprio lei che è un musicista e con la musica può dire tutto quello che le parole non possono?

Sa che, invece, ci sono parti di me che non riesco a raccontare con la musica? Non riuscirei mai a fare una canzone comica, ma la comicità è una forma espressiva che mi intriga e allora faccio la stand up, o almeno ci provo, ogni tanto. La prima volta che sono andato a fare un microfono aperto di stand up, essendomi peraltro preparato pochissimo, mi sono reso conto che ero riuscito a dire cose che con la musica non ero stato mai capace di nominare o che proprio non avevo voluto nominare o raccontare.

 

Ha anche scritto per alcuni giornali, che non sono propriamente liberatori, o forse sì?

Mi è capitato di collaborare a qualche rivista di settore. Anni fa lavoravo per Superfly, un paio di volte ho scritto per Undici. La ragione per cui l’ho fatto è che mi piace l’idea di poter trasmettere la mia passione a qualcuno, poter dire quanto e perché un disco mi è piaciuto. Non posso scrivere una canzone su un disco di Lauryn Hill, ma un articolo sì.

 

Una volta Federico Dragogna dei Ministri mi ha detto: sarebbe bello se esistesse ancora la critica musicale, quella seria, magari così riusciremmo a dire, di un disco, qualcosa di più di “brutto/bello”.

Concordo. Penso che la musica, come qualsiasi altro prodotto culturale, abbia bisogno di essere spiegata e decodificata. Tra l’ascoltatore e il musicista è necessario che si ponga un terzo, qualcuno che mostri e dispieghi le cose che, magari, a chi non è del mestiere sfuggono. A me capita spesso di leggere articoli di critica cinematografica e mi piace l’idea che qualcuno mi spieghi un film che non mi ha convinto: spesso, semplicemente, non l’ho capito, quindi sono grato a chi me lo chiarisce. Un ruolo che mi piace e che vorrei ritagliarmi è proprio questo: dare alle persone tutti gli strumenti per cogliere qualcosa che ho amato. Pormi come traduttore, come freccia, dire: in questo disco di Drake si entra da questa porta qui.

 

È una bella responsabilità.

Non mi fa paura. È votata a cose che amo e in cui, soprattutto, credo.

 

Quando c’erano le riviste musicali di riferimento, le Bibbie di settore, diciamo così, la musica era un fatto politico e sociale, era il vocabolario del mondo nuovo. Leggevi il Rolling Stone e sapevi che direzione stava prendendo la musica e quindi, in fondo, il mondo. Se lo immagina adesso?

Adesso non esiste un punto di riferimento unico da nessuna parte, men che meno nella musica. Magari per i ragazzi di oggi esiste uno Youtuber che è come erano i Beatles e io non lo so, ma non credo. Di certo, nella musica c’è sempre qualcuno che apre una breccia, ma è difficile notarlo perché lo scenario è molto ampio e frammentato. Oggi se fai una canzone, domani la pubblichi: non devi convincere nessuno, non devi conquistare un discografico. E così la ricerca la mandano avanti i grandi ma pure i piccini, ciascuno rivolgendosi a una propria fanbase, solitamente molto fedele. La ragione per la quale i dischi sono pieni di featuring è questa: quando due artisti lavorano insieme, raddoppiano il pubblico, ciascuno attinge dai fan dell’altro. Non sempre ci si unisce perché ci si riconosce complementari: spesso, è un calcolo di convenienza. Unendo gli eserciti, però, oltre a raddoppiare il proprio seguito, si raddoppiano le possibilità di mostrare una nuova scoperta, di compiere quindi un salto collettivo.

 

Non la vedo entusiasta.

È un processo che ha del buono e del cattivo, ovviamente.

 

Mi dica il buono.

La musica è anche comunione. Gli artisti spesso lo dimenticano, perché per forza di cose lavorano da soli e questo li spinge a restare nel certo, li porta a ripetersi. Andare incontro agli altri, invece, indipendentemente da quanto furbi o nobili siano le ragioni per cui lo si fa, fa sempre bene. Dalle collaborazioni più bislacche vengono fuori le soluzioni discografiche più interessanti, inedite, forse persino esotiche. Naturalmente, quando due musicisti lavorano insieme per ragioni del tutto estranee alla suggestione artistica, il pubblico lo avverte e si scoccia.

 

È mai stato tanto fortunato da creare un sodalizio artistico con qualcuno?

Sì, ma ne aspetto sempre un altro. Nei miei ultimi quattro dischi non c’è nemmeno un featuring perché finora ho avuto bisogno di dire cose mie e soltanto mie. Ma sarei felice di incontrare qualcuno che mi veda diversamente da come mi vedo io e che magari mi tiri fuori qualcosa che, altrimenti, da solo, neppure saprei di poter cercare. Il ragazzo con cui ho fatto questo disco, Simone Privitera, è un mio sodale. Ci siamo ritrovati per caso e abbiamo deciso di provare a lavorare insieme, trovandoci benissimo. Lui ha 12 anni meno di me e con nessuno come con lui mi sono sentito felice di andare in studio solo per andare in studio: comodo, libero, sicuro. Ho accettato e compreso tutti i suoi no senza mai pensare che me li opponesse perché ce l’aveva con me. E poi c’è Rocco Tanica, che è una delle persone con cui sento maggiore sintonia al mondo, ed è qualcosa che va ben oltre il legame artistico, infatti non abbiamo mai lavorato insieme, sebbene io creda che lui sia dotato di una sensibilità musicale straordinaria.

 

Si sente in competizione con altri musicisti?

No. E mi piacerebbe che per gli altri fosse lo stesso. Sarò tremendamente noioso, ma io faccio sempre il tifo per gli altri. Mi sono sentito spesso solo nella mia carriera, non nego che mi capita ancora e in fondo tutto il mio lavoro non è che un tentativo di essere accettato. Sono un bambino che vuole giocare a pallone con gli altri, anche se lo fa in un modo molto diverso dagli altri. Ovviamente sono ambizioso e voglio arrivare primo. Sempre. Anche perché non ci arrivo spesso. Ma è una competizione con me stesso.

 

È molto esigente?

Io da me pretendo il massimo. E cerco di aspettarmi sempre un riscontro commisurato all’impegno che ci metto. Di certo, ho imparato che i risultati si raggiungono con il tempo.

 

Per esempio?

So benissimo che non posso aspettarmi ancora che i miei salti, le mie scelte, i rischi, i cambiamenti vengano capiti. So benissimo che prima di arrivare a liberarmi dalle etichette e poter essere semplicemente Ghemon, devo fare ancora molta strada. Io so che seguo sempre un fil rouge, ma so anche che non posso pretendere che sia chiaro a tutti. Ultimamente ho letto un libro su Lucio Dalla, uscito per Il Saggiatore, e mi sono reso conto che anche lui è arrivato a essere soltanto Dalla dopo molti anni, molte prove, anche moltissimi fraintendimenti.

 

La fa arrabbiare quando non la capiscono?

Mi intristisce quando mi riconducono sempre a una definizione, così che il giudizio su di me consiste essenzialmente nel misurare quanto sono vicino o lontano da quella etichetta. E i paralleli, e i paragoni, e poi l’obbligo di rassicurare gli ascoltatori e dire loro che possono ascoltarmi, se amano quello ameranno anche me, perché tra me e quello c’è un terreno comune. Invece, mai come adesso mi sento fluido, libero, aperto. E la sola cosa che mi interessa è raccontare questa apertura e questa libertà. Credo di aver trovato la mia voce, non sa quanto ci ho messo, quanto è stata dura, e quanto possa essere bello ma spaventoso trovare la propria voce.

 

Mi spieghi meglio.

La maniera in cui canto e interpreto, adesso, dice tutto di me, è mia e basta, mi rende riconoscibile e, prima ancora, consente a me di capire chi sono, dove mi sto muovendo. Prima era un progetto aperto, specie nella transizione dal rap, anche se io mi ci riconosco ancora, mi sento un rapper.

 

Ma perché dice che è spaventoso?

Perché la tua voce dice anche cose che non sapevi, e devi prenderci familiarità, le devi accogliere, non puoi nasconderle, ti ribaltano.

 

Cos’è la voce?

Nel canto, è uno strumento. Impari a usarlo, ovviamente, ma una volta che hai imparato, una volta che sai come essere intonato, devi renderlo unico, tuo, devi farne il tuo tramite, il tuo traduttore. Ai miei musicisti dico sempre che loro quando sbagliano possono prendersela con la chitarra, io invece devo prendermela con la mia voce, e capisce bene che è un fatto molto più intimo, invadente, e ovviamente bellissimo.

 

Quanto c’entra la disinibizione nel buon uso della propria voce?

Credo che, più che altro, c’entri la conoscenza che hai di te.

 

Quando una canzone è riuscita?

Quando senti che ti rappresenta al cento per cento. Io sento di aver fatto il mio lavoro quando riesco a fare qualcosa di nuovo che prima non avrei scritto, quando mi confronto con quello che, prima, non sapevo fare.

 

A cosa serve il successo, ammesso che le interessi?

Spesso, i numeri ti danno il lasciapassare per continuare a essere te stesso.

 

Lei in questo disco parla di mostri, e mi sembra che ci abbia fatto la pace. Quanto dura questa pace?

Temo non per sempre. Di sicuro so che non tutti i mostri e le ferite sono superabili, ma si può imparare a conviverci. Io non volevo fare un disco che dicesse che va tutto bene o che andrà tutto bene o che non è successo niente. Ho fatto un disco che speravo potesse sollevare le persone, che potesse aiutarle a guardare una cosa, anche una catastrofe, e respirare. In un altro momento della mia vita, una canzone come “Momento perfetto”, che anche se sembra allegra è piena di passaggi amarissimi, e parla molto della delusione delle aspettative, sarebbe stata forse piena di sofferenza e lamentele. Ora però io sento che è più importante vedere il momento perfetto anche dove non è, avere una prospettiva, lasciarsi aperti alla possibilità.

 

Le aspettative se le crea o sono indotte?

Me le creo. Ma viviamo anche un tempo nel quale appena apri Instagram vedi qualcuno che sta facendo qualcosa di più di te. Sei più insoddisfatto e frustrato dopo mezz’ora di IG che dopo un colloquio di lavoro andato male.

 

Come fa un artista a mantenersi indipendente da questo meccanismo?

Ricordandosi di avere a che fare con le persone, per strada. E stando lontani dal telefono il più possibile. Mi rendo conto di essere banale, ma le assicuro che funziona. Quando lavoravo al disco, non guardavo il telefono per sette, otto ore e ogni volta che lo realizzavo, provavo un enorme benessere. Le cose che ci coinvolgono più dei social network esistono: basta andarle a prendere.

 

La pandemia l’ha cambiata?

In modo gargantuesco. Mi ha fatto vedere tutte le cose che non andavano e mi ha fatto capire che quando un meccanismo proprio non funziona, è il caso di arrabbiarmi con me stesso e con la mia incapacità di farlo funzionare, cambiandolo. Allora, ho capito quanto è importante affrontare le cose, anche quando si è certi di non poterle risolvere.

 

Perché si chiama Ghemon?

Tutti i miei amici avevano un soprannome. Scelsi Ghemon perché quando tornavo a casa da scuola, vedevo ogni giorno un suo ritratto su un muro. Ghemon mi piaceva, poi, e mi piace ancora: di lui mi affascina la capacità di intervenire solo quando è necessario, e di dire sempre la cosa impeccabile, perfetta, giusta e tagliente. Soprattutto, di lui mi piace l’attitudine pacifica e serafica.

 

Ma lei non mi sembra serafico.

È vero, io sono un inquieto. Lo sono perché non ho ancora trovato il mio posto, e non sono sicuro che lo troverò mai. Oppure lo troverò e non sarò in grado di riconoscerlo. Mi dispiace comunque che lei abbia notato la mia inquietudine: faccio di tutto per dissimularla!

 

E perché?

Perché detesto l’idea di trasmetterla a chi mi ascolta.

 

Distingue l’uomo dall’artista?

Certo.

 

Quindi esiste Gianluca ed esiste Ghemon?

Sì.

 

E litigano?

Diciamo che Gianluca è in difficoltà, a volte vorrebbe essere visto anche lui, vorrebbe essere soltanto Gianluca. E per me è importante che questa sua insofferenza rimanga, perché mi aiuta a non pretendere di saltare la fila alle Poste.

 

A Milano si sente a casa?

Più che altrove. Mi ha accolto immediatamente, mi ha fatto sentire subito milanese, in mezzo a tante altre persone che non sono milanesi ma che, come me, si sono adattate senza difficoltà ai ritmi della città, che con loro è stata gentile e ospitale. Ho vissuto a Roma dieci anni e, pur amandola moltissimo, mi sono sempre sentito un ospite. A Milano, appena sono arrivato, ho avuto la sensazione che la città mi dicesse: benvenuto, per te c’è posto. Sono entrato immediatamente nel suo flusso e ne sono diventato parte.

 

Che bambino era quello che scelse Ghemon?

Curioso e innamorato delle parole. Lo sono ancora, forse anche di più.

 

Timido?

Non così tanto. Mi dicono che mi imbarazzava farmi fotografare.

 

E adesso?

Ho imparato il gioco, ma se potessi lo eviterei.

 

Ha mai fatto una serenata?

Che? No! Schiatterei di vergogna.

 

Lo vede che è timido?

Ho fatto altre follie per amore. Più concrete.

 

Piange?

Non per sfogo. Mi commuovono i risultati, la fatica: lo sport, per questo, è per me sicura fonte di lacrime.

 

La canzone che avrebbe voluto scrivere?

"Anima" di Pino Daniele. In verità, una qualsiasi di Pino Daniele.

 

Pensa davvero che il rap sia democratico? Lo ha detto qualche anno fa e secondo me si sbaglia. Se uno non è abilissimo con le parole, non può fare rap.

E invece sbaglia lei. Il punto, nel rap, è l’attitudine. Le assicuro che ho ascolto rapper pessimi con le parole ma comunque eccezionali. C’entra la fantasia. In più, il rap è democratico perché è facilissimo cimentarcisi: lo può fare davvero chiunque, senza bisogno di niente.

 

Lei è coerente?

Sì. Non granitico, però. Cambio idea ma cerco di mantenere intatto il mio codice. Quando succede, mi sento sempre in dovere di spiegarlo a chi mi ascolta e di solito le persone questo processo lo rispettano.

 

Cos’è la fedeltà?

La base della costruzione. Una forza che ti permette di non desiderare altro senza reprimere niente.

 

C’è una sua canzone d’amore bellissima, “Infinito”, dove lei dice a un certo punto: “da maschio pecco d’ingenuità”. È un’ammissione di colpa o una giustificazione?

Non mi tenda tranelli, la prego. Diciamo che, pur avendo una parte femminile molto sveglia e attiva, laddove io vedo una strada e mezza, mi accorgo sempre che le donne ne vedono cinque. A volte, anzi, di strade non ne vedo più di una, non mi accorgo dei riverberi dei comportamenti, non guardo dietro alle cose che faccio, sono molto pragmatico: insomma, sono un uomo. L’universo femminile resta per me un grandioso mistero: tutte le volte che non lo capisco, mi è chiaro che sono un uomo.

 

Facciamo che le credo. Si trova bello?

A volte, al mattino, sì.

 

Conta di più l’amore o la musica?

Non si possono scindere. Se non ci fosse la musica, smetterei di amare.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.