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il foglio del weekend

Requiem per le biblioteche

Giuseppe Marcenaro

Un volume celebra il funerale dei libri. I due autori hanno visitato ottanta templi della nostra conoscenza

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Proprio adesso, tempo in cui le biblioteche stanno per perdere senso e ragion d’essere, riappare, pubblicato nella collana Saggi Einaudi, “La Biblioteca, Una storia mondiale” di James W.P. Campbell e Will Pryce (552 pp., € 48 euro). In realtà l’odierna edizione è la ristampa, ridotta nel formato, d’identico tomo, la cui prima fu pubblicata nel 2013 in dimensione fuori misura come sono certi libri d’arte, diciamo in folio, secondo classica definizione: per consultarla più agevolmente avrebbe dovuta esser posta, tipo antifonario, su un leggio. Per realizzare questo gigantismo cartaceo i due autori avevano visitato più di ottanta biblioteche in giro per il mondo: Pryce fotografava gli scenografici e preziosi interni; mentre Campbell, autore dei testi, si slargava per genesi e sviluppo sugli edifici costruiti intorno ai libri. Divagando un poco per il mutevole rapporto dell’umanità con la parola scritta ma soprattutto sul perché le biblioteche, in quanto edifici, siano sempre state, oltre che depositi di libri, simboli di civiltà: lo studio della scatola che trascura il contenuto. Opera certo di un autore autentico specialista che vanta nella personale bibliografia titoli di alta divulgazione tipo “Il mattone e la sua storia”. E il libro? L’oggetto per cui le biblioteche esistono? Il reale fine di “La Biblioteca. Una storia mondiale” si comprende subito: per mezzo delle voluttuose figure, esaltare il voyeurismo per architettonici sacrali luoghi, più simbolici che reali, trasfigurandoli: “ambienti” che signoreggiano l’esibita esteriore personalità dei più solenni depositi di ammassi libreschi sorti per l’universo mondo dall’antichità ai tempi nostri.

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Proprio adesso, tempo in cui le biblioteche stanno per perdere senso e ragion d’essere, riappare, pubblicato nella collana Saggi Einaudi, “La Biblioteca, Una storia mondiale” di James W.P. Campbell e Will Pryce (552 pp., € 48 euro). In realtà l’odierna edizione è la ristampa, ridotta nel formato, d’identico tomo, la cui prima fu pubblicata nel 2013 in dimensione fuori misura come sono certi libri d’arte, diciamo in folio, secondo classica definizione: per consultarla più agevolmente avrebbe dovuta esser posta, tipo antifonario, su un leggio. Per realizzare questo gigantismo cartaceo i due autori avevano visitato più di ottanta biblioteche in giro per il mondo: Pryce fotografava gli scenografici e preziosi interni; mentre Campbell, autore dei testi, si slargava per genesi e sviluppo sugli edifici costruiti intorno ai libri. Divagando un poco per il mutevole rapporto dell’umanità con la parola scritta ma soprattutto sul perché le biblioteche, in quanto edifici, siano sempre state, oltre che depositi di libri, simboli di civiltà: lo studio della scatola che trascura il contenuto. Opera certo di un autore autentico specialista che vanta nella personale bibliografia titoli di alta divulgazione tipo “Il mattone e la sua storia”. E il libro? L’oggetto per cui le biblioteche esistono? Il reale fine di “La Biblioteca. Una storia mondiale” si comprende subito: per mezzo delle voluttuose figure, esaltare il voyeurismo per architettonici sacrali luoghi, più simbolici che reali, trasfigurandoli: “ambienti” che signoreggiano l’esibita esteriore personalità dei più solenni depositi di ammassi libreschi sorti per l’universo mondo dall’antichità ai tempi nostri.

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I più celebrabili “contenitori” sorti per i continenti, raffigurati in queste pagine, se non ci si ricordasse la ragione del loro esistere, preservare la sapienza traverso i libri, somiglierebbero a lussuose camere ardenti. Certo, si parte ovviamente dall’antico dove vestigia archeologiche dirute, denti cariati in plein air, suscitano un immaginario vagheggiante che cerca di capire quale fosse l’aspetto della biblioteca di Pergamo o in qual maniera venissero conservate e catalogate le tavolette di Ebla, passabilmente il primo archivio documental-libresco del mondo. E non sorprendono certo i libri incatenati agli scranni di lettura della Malatestiana di Cesena, né il rigore solenne, ecclesiale, della Laurenziana di Firenze, il silenzio della Bodleian Library di Oxford, né il metafisico distacco per chi si trovi a gettare lo sguardo nella sala teologica del monastero di Strahov a Praga, il mutismo spontaneo che affiora in chi entri nella gran sala di lettura della Sainte Genevieve e due passi dal Pantheon a Parigi. Con un caso aulicissimo almeno scenograficamente festoso, sia pur congelato, come il salone libresco dell’abazia di San Gallo in Svizzera... che solletica la voglia di ambientarvi una rappresentazione del “Flauto magico” o delle “Nozze di Figaro”.

 

La predominanza delle immagini sul tema centrale del volume di questa eccentrica storia degli edifici-biblioteche, in un angolo di pagina seminascosto sembra voglia “spiegare” il senso dei diversi cambiamenti nella forma delle case dei libri. Ma è ancora un riferimento all’involucro che sembra far passare in secondo piano le ragioni del contenuto. E’, come subito si intuisce, la “giustificazione” di un architetto cui interessano più le strutture di un edificio e non ciò che l’edificio stesso è destinato a contenere. Leggiamo: “I vari elementi – struttura portante, riscaldamento, illuminazione, aspetti iconografici dell’edificio e [ultimo riguardo!] necessità di proteggere i libri da eventuali danni – hanno condizionato in varia misura la forma delle biblioteche in tutti i paesi del mondo e in ogni epoca storica. Si è tentati di vedere in tutto questo una semplice evoluzione lineare. Perché una biblioteca è costruita in un certo modo. La biblioteca è un’idea in continua evoluzione. Nel corso della storia sono apparse e scomparse di continuo forme diverse, pur esistendo in ogni fase alcuni temi ricorrenti. Prima di intraprendere un nuovo progetto di costruzione, gli architetti hanno spesso visitato le grandi biblioteche già esistenti: prima di preparare i progetti della Biblioteca civica di Stoccolma l’architetto Gunnar Asplund, per esempio, viaggiò a lungo in Inghilterra, Germania e Stati Uniti. Allo stesso modo Wiel Arets  ha scritto sulle lezioni apprese visitando a Parigi la Bibliothèque Nationale di Dominique Perrault e a Berlino la Staatsbibliothek di Hans Scharoun prima di accingersi a progettare la Biblioteca dell’ Universiteitsbibliotheek di Utrecht. Esplorare le ragioni che portarono a determinati tipi di costruzione è il primo passo per capire come, o perché, potremmo avvertire in futuro il desiderio di fare le cose diversamente”.

 

La spettacolarità di saloni reali e conventuali dal delirante decor delle biblioteche antiche, così come vengono interpretati fotograficamente nel volumone sommo, fanno dimenticare, all’impatto, di trovarsi al cospetto d’un luogo deputato allo studio di oggetti in forma di libro. Insomma ambienti che impongono rispetto non perché custodiscono la memoria del mondo in forma di volumi ma invero declinati stilisticamente secondo moda ed estetica del momento in cui la biblioteca fu fondata. Sale a perdifiato con svolacchiature di angeli, affreschi fin al più finitimo angolino e immancabili porte segrete che ovviamente non si vedono ma si intuiscono.

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Ma andiamo... Il gran libro delle biblioteche è assimilabile a una guida per intraprendere un tour del mondo attraverso l’estetica degli edifici-biblioteca che oggi, data la vicenda “esistenziale” del libro, sembrano ineluttabilmente destinati a trasformarsi in cimiteri abbandonati. Sembra proprio che il suono emesso dallo  sfogliacchiamento del catafalchico volume evochi i bassi toni di un requiem. E più che la glorificazione di ambiti dell’ideale sia assimilabile a un superlussuoso necrologio.

 

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Qualcuno, in un futuro neppure troppo lontano, racconterà d’essersi da tempo  “barricato” dentro a una biblioteca. Giustificherà la sua scelta dicendo: “Dopo la calata dei barbari, e dopo uno strenuo, drammatico e soccombente tentativo di difesa, sono stato costretto a chiudermi dentro a una biblioteca. E qui starò, custode e guardiano, fin quando sarà passata la diffusa isteria che vorrebbe distruggere i libri. L’amabilissimo oggetto, il libro di carta, che per secoli ha surrogato la nostra memoria, a un certo punto era “andato fuori moda”. Destinato all’infungibilità venne progressivamente sostituito da elettronici congegni e le biblioteche corsero il pericolo d’essere abbandonate e poi distrutte. S’era diffusa l’idea che le raccolte di volumi fossero perniciose, una malattia per l’umana esistenza. D’altra parte, più di duemila anni fa, Giulio Cesare, assistendo all’incendio dell’antica Biblioteca d’Alessandria, a chi lo implorava di salvarla, aveva impietosamente risposto: “Lasciatela bruciare, non è che memoria di infamie”. E, ancora, confesserà quel qualcuno, “barricato” nella biblioteca: “Per quanto mi è consentito dalla sorte, tale a un monaco d’una sperduta abbazia del profondo medio evo, per beneficio di chi verrà dopo di noi, starò qui a preservare la scrittura di cui si sta perdendo l’uso, a custodire l’onore della lingua ormai franta in balbettii… Starò qui per salvaguardare il libro nella sua sublime imperturbabilità, mentre ‘fuori’, il mondo ‘civile’ è ormai preda della svagatezza, della disattenzione, della trascuratezza, delle folgori elettroniche”.

 

E la domanda corre spontanea. Ma cos’è una biblioteca? All’amoroso sguardo dell’appassionato esploratore, le biblioteche, più di luoghi dove sotto forma cartacea si è sedimentato il sapere, appaiono in specie di vere e proprie vestigia archeologiche. Un catalogo di luoghi estranei di cui salvare almeno l’aspetto “visivo” prima che si trasformino in qualche desolata Pompei addormentata. E allora, oggi, cosa è una biblioteca? “L’universo, che altri chiama biblioteca, si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie, con vasti pozzi…”. L’incipit che ne celebra il mito, un edificio destinato a contenere libri, è un fin troppo scoperto omaggio al sommo tra i bibliotecari, Jorge Luis Borges. “L’universo che altri chiama biblioteca” – avvio del suo iperbolico “La Biblioteca di Babele” – è un luogo non luogo, fuori del tempo. Null’altro che una collezione di volumi. Borges che era diventato cieco, sapeva tuttavia e perfettamente cosa stesse dentro a tutti i libri. Aveva percezione della memoria della storia universale che si è voluta tramandare prima su tavolette d’argilla, poi su rotoli di pergamena e infine con quell’oggetto di definita essenza, pensato e realizzato nella sua compiuta forma fin dall’attimo della sua invenzione. Una struttura perfetta, mai mutata. Un libro può essere “confezionato” con eccezionalità di lussi. Impreziosito con legature regali, stampato su carte di ineffabile rarità. Può essere prodotto in totale economia, tipo un tascabile. Libro è. Sempre e comunque un certo numero di pagine assemblate, da sfogliare. Ed è il libro con l’immutata sua forma che da sempre ha determinato la struttura degli ambienti ove viene custodito. Cercato. Trovato. Scrutato. Dimenticato. Tra i corridoi formati da fittissime pareti di tomi sovrapposti e muti, “passa la scala a spirale che s’inabissa e ascende al remoto”. Conturbante l’ordine-disordinato dei libri. Una biblioteca pretende somigliare alla cartografia del razionale. In realtà altro non è che la rifrazione sulla terra della perfettissima scompaginazione del cosmo. Un controtipo disordinato, anche se tutti i volumi che compongono una ideale e incomparabile raccolta, perfettamente giustapposti, sembrerebbero richiamare l’ineccepibile  forma di un teorema euclideo. Cioè un ordine che fa del metodo di “costruire” una biblioteca, una “scienza” a mezzo tra la burocrazia borbonica e la maniacalità. L’uomo aduna libri secondo schemi per trovare illusoria conferma della sua ostinazione: comporre il disordine universale.

 

In realtà, nella loro apparenti immutabili sequenze, i libri  tendono sempre a scombinarsi. Ed è soltanto l’uomo, testardo, che volendo far quadrare i conti con il caos, si affida fideisticamente alla capricciosità dell’ordine. E per memento dei proprio ghirigori esistenziali, affinché “gli eredi” e “i posteri” s’affannino nel labirinto delle eterne incertezze, consegna la memoria di sé, declinata su ogni paradigma dello scibile, alla totale fragilità  di uno oggetto che teme l’acqua, il fuoco, l’aria. Una roba in perenne pericolo di infungibilità. Il libro. L’oggetto fondante di ogni biblioteca del mondo. Superbe macchine del pensiero che funzionano nutrendosi di carta. Luoghi dove, sfogliando appena un po’ di pagine “giuste”, si può contemplare nettamente la luce che si effonde, inondando… Si vedono gli sterminati deserti, i poli, e dietro ai poli altri continenti, e dietro ai continenti le città, e oltre le città le coste.  Si vedono le navi che solcano gli oceani, poi le foreste, savane, catene montuose.  E dove, con i sensi alti, per un attimo, si può percepire l’inconcepibile segreto, il cui nome usurpano gli uomini. E’ questa una sunteggiatura maccheronica dall’Aleph (per continuare a riesumare il sommo Borges). Ma come si può comunicare la sensazione di esaltazione quando, nel sovrano silenzio di una sala di lettura, il fruscio delle pagine voltate s’effonde nell’animo con messaggi universali?

 

Adesso, fuori da ogni sgangherata metafisica d’accatto, si deve pur trattare dei luoghi dove tutto questo avviene. Occorre anche dar conto della casa dei libri, come i cinesi chiamano le biblioteche, che, sulla terra, uomini volenterosi hanno agglutinato sotto i loro tetti, da che mondo è mondo. Uno sprofondo di volumi. Dai plutei e dalle scansie che sorreggono i cartacei impassibili e vivacissimi testimoni della memoria nostra, l’attenzione si sposta allora sulle strutture che adunano miliardi di memorie sparpagliate tra le pagine. Accumuli che esaltano il delirio della conoscenza. Lo splendore dell’intelligenza.
Le grandi scaffalature nelle biblioteche hanno certo l’aspetto di superbi colombari. Il nome degli autori impresso sul dorso d’ogni libro muta nel paradigma immaginario delle epigrafi di un cinerario. Dietro a ogni dorso, in polvere cartacea, ostinatamente, nonostanti le possibili lussuosità delle legature o delle raffinate edizioni, fin all’ultimo tascabile, persiste la memoria di esistenze. Silenziose. In attesa del miracolo. Tanto le biblioteche ospitate in ambiti occasionali, come in quelle dalle architettoniche solennità, sono luoghi che esistono soltanto in funzione del loro contenuto. Qui si è indotti a bisbigliare qualcosa che potrebbe somigliare a una preghiera: beato l’uomo capace di risvegliare un testo. Che equivale a resuscitare un morto. Che equivale a “vedere” le umanità che ci ha preceduti, facendoci partecipi di un’etica universale. La conoscenza di se stessi. In un libro.

 

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