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Addio Milano bella

La Versione di Vichi

Festa è un QAnonista onorario, ma di quelli che tengono i piedi in terra

Giuliano Ferrara

Il terzo stadio della trilogia di Lodovico Festa è un testo felicemente scorretto sul tempo nostro, dei nostri padri e madri

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La trilogia di Lodovico Festa (La provvidenza rossa, La confusione morale, Addio Milano bella) è arrivata al terzo stadio con un racconto-saggio sulla Milano in cui si avvia il ciclo arrivato fino a oggi, la distruzione dei partiti repubblicani classici per mano delle inchieste sulla corruzione. Festa è dei nostri, gli anniversari lo fanno sorridere, sono una scansione pigra del tempo. Il nuovo libro, come i precedenti ma stavolta partendo dalla fine, è il ritratto della variante italiana del virus comunista internazionalista, attecchito in Russia nel 1917, quattro anni prima del fatale contagio al Congresso di Livorno, appena rievocato tra le polemiche. E’ la Versione di Vichi, dal nome amicale dell’Autore, una riscrittura e ricostruzione di un tratto pertinente, ma aspro e ingarbugliato, della storia italiana del Novecento, dipinta e concettualizzata nel vasto mondo. E’ un testo felicemente scorretto sul tempo nostro e dei nostri padri e madri, afferrato nel momento in cui si esauriva.

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La trilogia di Lodovico Festa (La provvidenza rossa, La confusione morale, Addio Milano bella) è arrivata al terzo stadio con un racconto-saggio sulla Milano in cui si avvia il ciclo arrivato fino a oggi, la distruzione dei partiti repubblicani classici per mano delle inchieste sulla corruzione. Festa è dei nostri, gli anniversari lo fanno sorridere, sono una scansione pigra del tempo. Il nuovo libro, come i precedenti ma stavolta partendo dalla fine, è il ritratto della variante italiana del virus comunista internazionalista, attecchito in Russia nel 1917, quattro anni prima del fatale contagio al Congresso di Livorno, appena rievocato tra le polemiche. E’ la Versione di Vichi, dal nome amicale dell’Autore, una riscrittura e ricostruzione di un tratto pertinente, ma aspro e ingarbugliato, della storia italiana del Novecento, dipinta e concettualizzata nel vasto mondo. E’ un testo felicemente scorretto sul tempo nostro e dei nostri padri e madri, afferrato nel momento in cui si esauriva.

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Il protagonista dei tre gialli politico-morali è l’ingegner Mario Cavenaghi, la stilizzazione letteraria, asciutta e sapiente, di un antieroe, l’uomo dei probiviri della Federazione del Pci appostato sul viale del tramonto. Chi ha letto Sciascia sa tutto del barocco siciliano e di Stendhal, chi legge Festa e capisce Cavenaghi impara tutto del moderno manzonismo milanese, prezioso impasto di realtà e destino, di razionalismo e senso storico, di umanità civile e di politica. Molti sciasciani sono della combriccola radical-liberale, in sostanza sono quelli che hanno buone idee e solidi princìpi ma non hanno letto o capito Benedetto Croce, sono fuori dalla dimensione tragica e religiosa del suo liberalesimo, e quanto a Manzoni si sono limitati alla parafrasi letterale del sublime racconto sulla Colonna infame. Pensano che il Pci con la sua storia sia l’idealismo di Gramsci e il moralismo di Berlinguer contraddetti e traditi dai “delitti” in Russia, Cina e Cambogia, complice lo stalinismo di Togliatti. Il tutto risulta una favoletta per gonzi o una lezioncina da pomeriggio di Rai 3. Il compagno Mario Cavenaghi è lì con le sue sofisticate e parche avventure di togliattiano di ferro, con la sua immensa e ricca città smarrita e incurvata sotto il peso della magistratura militante, con la sua comunità intellettuale e politica in dissoluzione, per spiegare questa mia rude e saccente conclusione: rinuncia a intuire il mondo chi pensa che la storia sia un delitto riscattato da fremiti di idealismo e di rigorismo o addirittura di perbenismo.

       

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Eroi e antieroi sono rari in un teatro letterario affollato di volgari supereroi o di gentucola da tinello dedita a quella che Franzen definì genialmente l’impollinazione culturale. Eroi e antieroi si segnalano per le loro gesta o al contrario per i loro dinieghi verso l’esistenza; preferirei di no, I would prefer not to, è il motto dei secondi. Festa, che è scrittore perfino quando non lo sa o non se ne cura, deve molto a Bartleby e a Melville, perché Cavenaghi risolve delitti nella confusione morale o scova chi ha rubato dal patrimonio collettivo del partito nella Milano ex bella, ma tutto sommato al risultato preferisce il percorso che ti ci porta, preferisce prendere un tram, incontrare qualcuno in libreria o al caffè, fare una pennica in casa di un amico, guardare le notizie dai canali ticinesi, telefonare a una splendida figura di moglie più consapevole di lui, convocare una ennesima riunione, frequentare storici, critici, architetti e popolani alla Fruttero&Lucentini della Milano industriale e operaia affinché la realtà, la plausibilità, il senso di un passaggio emergano con calma razionale e spirito dalle solite, ordinarie quattro chiacchiere. L’investigazione dell’esiliato di Lugano che dà l’addio alla sua Milano non è un trucchetto per buttare giù un blockbuster, è un modo di fare e di essere che si mette al servizio di uno snobismo curioso e inquieto, senza alcuna supponenza.

       

Cent’anni prima della nascita del Pci di Cavenaghi, don Lisander cominciava a scrivere il suo romanzo sulla provvidenza cattolica, I promessi sposi. Cent’anni dopo, in mezzo alla peste, costretto in un ideale Lazzaretto al centro di una città ancora bella e esigente ma con aspetti mortificati e avviliti da un trentennio di popolo dei fax, una genia che non poteva sostituire avanguardie intellettuali e popolo industriale, capitali e sapere, sviluppo e buona amministrazione, Festa licenzia per Guerini e Associati un racconto lungo che ha una trama esile, intermittente, al servizio di un profluvio di sguardi, ammiccamenti, indizi ritrovati, idee perdute e spaesate, e funambolici pregiudizi, sulla morte di un partito e della “sua” Repubblica, di un sistema e delle “sue” istituzioni. Una scelta antiletteraria consapevole compie e illumina una trilogia piena di ombre e risvolti impensati. La Versione di Vichi è sempre riscattata dall’ironia, niente di bonario o di generico, uno strumento di comprensione della realtà. Festa è un QAnonista onorario, ma di quelli che per guardare le congiure in faccia tengono i piedi in terra e la testa attaccata al collo, al contrario di certi suoi laudatori fin troppo entusiasti. E’ convinto, arciconvinto, che ci deve essere lo zampino di forze internazionali oblique nella caduta da pappamolla di una nazione e di un sistema che avevano una loro storia. Ma la testa ha una funzione delicata nell’atto di comprensione, sa contraddirsi, almeno ironicamente. E il culmine di questo romanzo breve di idee e situazioni, un libro aperto, fresco, nuovo e molto bello, è nella domanda che Cavenaghi rivolge all’alto ufficiale dei servizi segreti nel corso della sua inchiesta prodigiosa sull’anno del Terrore che avanza. Mi scusi se glielo domando ma, se non è lei ad averla organizzata, può dirmi qualcosa di questa congiura?

   

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