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COME USCIRE DALL'ANNO NERO

Aspettando il Rinascimento

Francesco Palmieri

Non basterà il vaccino nè il recovery, per curare i danni della pandemia servirà il “contagio emotivo della gioia” e recuperare l’inventiva perduta dalla “società signorile di massa” 

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“Non so proprio come fanno i Babbani a cavarsela senza magia”.

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“Non so proprio come fanno i Babbani a cavarsela senza magia”.

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J.K. Rowling, "Harry Potter e la pietra filosofale".

 

I Te Deum li recitammo già, convinti e compunti. Poi arrivò la “seconda ondata” della pandemia di Covid-19 e ce ne facemmo, chi più chi meno, una ragione o una rassegnazione. L’anno bisestile 2020 volse alla fine ma alcuni di noi, con un occhio all’Oriente, furono meno sollevati calcolando angosce e attese più sui cicli lunari che sul sole e mai come stavolta – superfluo ribadirci il perché – col calendario dei cinesi. Bisognerà dunque aspettare l’11 febbraio, quando finirà l’Anno del Topo. Infido messaggero dei nostri immaginari più gotici di peste e terrori farà spazio in cielo al bufalo (o bue), che con pazienza e imponenza si caricherà i fardelli (ma forse anche le gioie) di ogni Recovery o auspicata ripresa, che ripromette persino nel suo nomen (omen) bovino con la parola “vaccino”. Iniettando negli uomini il virus delle vacche tornò la salute nelle città flagellate dal vaiolo, grazie all’intuizione del medico di campagna inglese Edward Jenner. Perdonino i lettori laici chi di noi sopporta il peso della storia da trasgressore dell’illuminismo. Perdonino chi cerca di trarre valore mantico e simbolico dalla connessione fra le congiunzioni astrali. Come quella Giove-Saturno del 21 dicembre scorso, esaltata sui media soltanto negli spazi delle curiosità, e la medesima del 1484, altro anno bisestile, quando furono gettati i semi della spietata censura del Rinascimento e di un pensiero che con sprezzo sarebbe stato definito “magico”.

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E se riemergesse adesso? Forse rifornirebbe d’inventiva e sorprese la nostra umanità sfibrata dalla pandemia, con un’inversione di ciclo per redimere – finalmente c’è la grande occasione – quell’ingresso dell’Europa nell’epoca fosca della Riforma e della Controriforma. Che il 1484 da lontano preannunciò. Il 5 dicembre di quell’anno, Innocenzo VIII promulgò la bolla Summis desiderantes affectibus, che fu il segnale della successiva, grande caccia alle streghe e incoraggiò l’Inquisizione (una ferocia attribuita dalla vulgata, con persistente errore, al solo Medio Evo); fu quello il papa, in quell’anno asceso al soglio, che avrebbe bruciato l’opera di Pico della Mirandola; e fu quello l’anno della nascita di Martin Lutero, il più infaticato persecutore del pensiero eterodosso, capace persino di oscurare l’opera del domenicano Henricus Institor, coautore del Malleus maleficarum, pubblicato due anni dopo la bolla di Innocenzo quale manuale di riferimento per i torturatori della Chiesa. La civiltà spossata dalla pandemia è la stessa che può e deve affrontarla fino in fondo con la possente battaglia sanitaria, purché sappia che non basterà una panoplia di vaccini. Che non basteranno i progetti del Next Generation Eu. Perché il 2020 anno del topo pestifero non ha messo allo scoperto i soli fili della salute e dell’economia, ma la fragilità della secolare censura del Rinascimento, prima cristiana poi laicizzata, che non è stata compensata dalla scienza e dalla tecnologia moderne, come Internet non ha sostituito l’audacia visionaria di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, di Giordano Bruno e Tommaso Campanella né gli algoritmi hanno soppiantato le arti mnemotecniche e la conoscenza della filosofia naturale.

  

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Alla cruciale congiunzione del 1484 è lecito sognare che si contrapponga quella del 2020, perché il pensiero magico si è riaffacciato da sé, prescindendo dalle volontà governative e individuali. Però s’è riaffacciato pericolosamente: secondo Bernard-Henri Lévy con “l’idea che il virus ci parli, che abbia un messaggio da consegnarci” a nome della natura offesa. “Come se un virus pensasse! Come se un virus sapesse! Come se un virus volesse!”. Eppure, questo hanno adombrato eterogenei oppositori della globalizzazione, ecologisti, sovranisti, complottisti e marxisti delusi. Coloro insomma che l’intellettuale francese chiama “i signori velavevodetto”. Menti di insospettabile formato razionalista hanno svelato d’improvviso la labilità del proprio immaginario atrofizzato dall’antica repressione del Rinascimento operata dalle Chiese, dall’Illuminismo, dal marxismo, dalla psicoanalisi. E’ bastato un nemico invisibile e insidioso per soffiare sul castello e farlo a pezzi: “Non c’è situazione più pericolosa che una epidemia per scatenare comportamenti collettivi olisticamente irriflessivi”, osserva l’economista Giulio Sapelli. “Tanto più questo è vero in un contesto ormai totalizzante di universi immaginari creati dai vari social media che hanno assunto via via sempre in questo ultimo fatale ventennio un potere condizionante dei comportamenti sociali prima inimmaginabile”. Non erano in molti, ma c’erano, a intravedere in anticipo le crepe che il coronavirus avrebbe allargato in quel “contesto ormai totalizzante” con cui il web ha illuso di sostituirsi a un immaginario rimosso.

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Lo aveva compreso Roberto Calasso, scrivendo ne L’innominabile attuale che “la rete ha obbligato chiunque a gravarsi di un immane sapere che non sa, come se ciascuno fosse avvolto da un ronzio ininterrotto e istruttivo in qualsiasi direzione. Un Google Earth esteso al tempo soffoca qualsiasi percezione dell’ignoto, che viene inevitabilmente attenuata e depotenziata – o finalmente neutralizzata”. Lo diceva nel 2017 e sarebbe avvenuto con massima evidenza nel 2020, quando navigando, cliccando e twittando da casa ciascuno ha sparso in rete la farina leggera delle proprie (in)competenze virologiche, politologiche, sociologiche tanto “uno vale uno” perché – è sempre Calasso – sin dagli albori del mondo digitale “si profilò un termine fascinoso: disintermediazione. Ora bastava digitare certe parole, in sequenza, e chiunque aveva l’impressione di agire in prima persona, senza ricorrere ai soliti fastidiosi intermediari”. E se questo valeva per una prenotazione alberghiera, per l’acquisto o la recensione di un viaggio, perché non doveva valere anche per dire la propria sulla pandemia? Non basterà perciò l’intero armamentario dei vaccini, dal Pfizer al Moderna all’AstraZeneca e persino allo Sputnik russo, non basteranno i progetti del Next Generation EU perché il virtuoso bufalo celeste del 2021 schiacci il topo malefico del 2020. Come è anche vero che la cattiva magia del virus “pensante” e la disintermediazione non hanno fatto di nessuno un nuovo Giordano Bruno o un Tommaso Campanella né ripareranno le screpolature dell’illuminismo estenuato da secoli di onorato servizio. Il recupero del vero immaginario, della buona magia che non confligge con la scienza ma le trasfonde forza va operato sulle menti, ripartendo da una congiunzione astrale che faccia del bisesto 2020 redenzione del bisesto 1484. Non si può chiederlo solo ai governi. Non si può agire per decreto. Tantomeno con un programma scolastico. Bisogna confidare nel vento, in un rinnovato spirito del tempo che metta assieme chi non si conosce sotto un comune auspicio astrale (che i laici, nuovamente, perdonino la trasgressione di chi scrive).

 

Nacque forse per uno sbaglio della natura, ma s’adattò e prosperò grazie ai forti venti delle Galapagos, che impedivano il volo, una mosca senz’ali, la mosca aptera, una creatura senza l’ambizione dell’aria che sarebbe stata destinata, in altre condizioni, all’estinzione subitanea. Come la scienza moderna che, spogliata dei “fantasmi” rinascimentali, sfuggì ai roghi e all’indice di una civiltà la quale volle liquidare i conti con quell’enorme patrimonio immaginale visibile tuttora nei musei, nelle biblioteche e nelle architetture di un Paese, l’Italia, che più di ogni altro lo magnificò. Un nuovo Rinascimento è nell’ambizione del volo. Rammenta Ferruccio de Bortoli nel suo ultimo libro (un giorno si compilerà, o sarà dimenticata per migliori lunari, la rapida letteratura della pandemia?), Le cose che non ci diciamo, che il benessere non è un diritto. O meglio, lo ricorda a quella “società signorile di massa”, come l’ha chiamata Luca Ricolfi, di cui uno dei pilastri è la ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti, un altro l’abbassamento dell’istruzione e il terzo è l’impiego “paraschiavistico” degli immigrati (di cui tuttavia ci si premura di sostenere i diritti con magnifici post meditati sull’iPhone dal proprio sofà). Il coronavirus ha messo a nudo la precarietà, e la meschinità, di questi pilastri che non potranno reggere alcun Rinascimento malgrado le iniezioni di cemento dell’immunità vaccinale e del Recovery plan. Perché è una società che non potrà simulare forza e fantasia se non produrrà reddito anziché erodere residua rendita, se il livello del sapere sarà sostenuto soltanto da quella “digitazione” esecrata da Calasso, e se proseguirà in uno stile da decadente tardo impero che sugge la forza servile giunta da Paesi molto più poveri o disperati.

 


E’ fatto di studi matti e disperatissimi un nuovo Rinascimento, non di nozioni rubacchiate a Wikipedia. E’ fatto di allenamenti matti e disperatissimi il Rinascimento, anche fisico, di un Paese dove tutti corricchiano e nessuno corre davvero, perché a stuoli di amateurs sportivi corrisponde un medagliere atletico penoso, perché certi Paolo Rossi non compaiono più; perché la società signorile delle mezze maratone ha sostituito nel giro di pochi decenni i poveri del Sud, quei negri bianchi come Pietro Mennea che s’allenava contro il proprio fisico correndo dietro a una lambretta, o come i fratelli Abbagnale che prima di prendere servizio in banca per assicurarsi uno stipendio fisso remavano nelle acque di Castellammare e dominarono, malgrado tutto, il canottaggio mondiale. Nella società signorile, dove s’aspettano le più recensite scarpette da jogging nel pacco di Amazon per una sgroppatina serale, quei fanatici della gloria per sé e per la nazione sono sempre più rari e bisogna importarne dall’estero, vestendoli di tricolore, per appropriarsi di un decente risultato. E’ che solo nella grande simulazione del web si può fingere di credere all’uno vale uno. Né le opere dell’ingegno né le imprese sportive passano il bluff, e se succede presto o poi viene scoperto l’inganno. Eppure il bufalo celeste che sta (troppo) lentamente arrivando, ma febbraio è già domani, arerà il campo per dodici mesi e non dovrà trovare sabbia anziché fertili zolle. Il contrario del Rinascimento sarebbe, mai come questa volta, un Rimorimento insufficiente a compensare la soddisfazione per l’immunità sanitaria. Forse a qualcuno converrà ricordarlo più spesso che la salute non è un fine, ma un mezzo per agire, pensare, sognare, osare. L’elisir di lunga vita degli alchimisti fu strumento piuttosto che obiettivo.

 

Alla corsa, come al Rinascimento, dedicò attenzione la straordinaria mente romena di Ioan Petru Culianu, studioso delle religioni e del pensiero che s’interrogò profondamente sul volo delle mosche e sulla censura dell’immaginario di cui s’è detto qui. E molto più ne avrebbe detto lui se non fosse stato ucciso, nel 1991 a 41 anni, da una mano misteriosa (forse l’ex Securitate, ma non si capì mai) che gli sparò un colpo preciso di pistola mentre era seduto in un bagno dell’università di Chicago, quasi a volerlo doppiamente punire con un’ignominiosa morte da “gnostico”. Perché chi rievoca Giordano Bruno, e ne rivendica l’inventiva, tuttora rischia gli effetti di quelle implacabili censure senza scadenza alla libertà della mente. Culianu scrisse fra le ultime cose un racconto intitolato Il corridore tibetano, dove spiegava che chi adempie alla sacra mansione di recapitare i messaggi dei lama da un luogo all’altro, senza mai fermarsi fino alla fine della missione, ne reca due con sé: il primo messaggio, di cui egli stesso è a conoscenza, costituisce lo scopo apparente del suo viaggio, perciò potrebbero anche estorcerglielo con le buone o le cattive se lo intercettassero; il secondo è un messaggio segreto, quello autentico, calato nel suo cuore e che nemmeno lui conosce, ma che si svelerà al destinatario al momento dell’arrivo. E’ questo il messaggio individuale che fece scegliere il rogo a Giordano Bruno pur di consegnarlo, o a Culianu la morte in quel bagno e forse a ciascuno di noi costerà qualcosa ma darà più senso a una vita che non si può fermare al karma apparente. Sfuggire al Covid non può essere lo scopo del 2021, ma il mezzo per ambire a correre e volare (o per cominciare a farlo, perché il benessere non è un diritto, perché la società signorile non dura per sempre, perché l’immaginario sanzionato da quel lontano 1484 va sciolto rammentando che la congiunzione dei due grandi pianeti offre ancora un simbolismo attivo).

 

Ha qualche ragione il sociologo Massimo Cerulo, che ha fatto una significativa riflessione occasionata dalla morte di Diego Armando Maradona: “C’è una grave carenza nella società italiana: mancano soggetti dotati di carisma e di competenza, che possano donare speranza, guidare gli altri verso un futuro meno oscuro e nebuloso di quanto appaia oggi”. Secondo lui, “l’atavica mancanza di leader che caratterizza la nostra società degli ultimi due lustri può essere direttamente collegata al principale risultato che accomuna le più recenti ricerche di sociologia delle emozioni: la presenza di un surplus di emozioni negative nel corpo della società, che spinge gli individui verso un crollo della fiducia interpersonale, in un delirio di individualismo solipsistico che considera l’altro come un ‘con-corrente’ e non come un simile verso cui mostrare solidarietà e altruismo soprattutto se rischia di trovarsi in difficoltà”. C’è il contagio della pandemia però manca il “contagio emotivo della gioia”, quello che promana dai leader positivi. “Siamo di fronte a una regressione a una società hobbesiana in cui – si domanda Cerulo – l’homo homini lupus tornerà regola dirimente?”. La risposta è calata nell’incertezza dell’auspicio: “Nel burrascoso mare in cui si naviga, nuovi leader dotati di intelligenza e passione nei confronti della comunità e del bene comune potrebbero rappresentare i porti in cui trovare ricovero in attesa che passi l’attuale lunga nottata. E, magari, facendo sì che l’alba arrivi più in fretta”.

 

Non sono, quelli di cui si ha bisogno adesso, gli universi immaginari delle avanguardie artistiche e letterarie di fine Ottocento né le tensioni ribellistiche degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, che attirarono verso l’occultismo nella speranza di una renovatio fantasmagorica ma destinata a infrangersi sulle scogliere del 2000. E’ piuttosto il recupero di quel più autentico Rinascimento che vaccini – il rischio è apparso nitido quest’anno – dai pericoli di tristi distopie con cui l’immaginario verrebbe addirittura dissolto in una società dove “tutti sono felici adesso” e “ognuno appartiene a tutti gli altri”: cento ripetizioni di queste frasi tre notti a settimana per quattro anni, per un totale di 62.400 volte, fanno una verità. Lo insegnò Aldous Huxley ne Il mondo nuovo, che è stato meno citato del 1984 di Orwell ma è forse ancora più calzante nel momento. Lo studioso rinascimentale aveva un’idea “generale” delle cose, mentre nella distopia di Huxley era meglio che gli uomini “ne avessero il meno possibile, se dovevano riuscire più tardi buoni e felici membri della società” dove si tolleravano solo “i particolari”. “Non i filosofi, ma i taglialegna e i collezionisti di francobolli compongono l’ossatura della società”. Nel 2020 ci abbiamo incluso anche i virologi, cui troppi uomini politici incapaci di un pensiero “generale” delle cose hanno delegato il loro visus. Sulla scuola. Sull’università. Sulle attività di imprese e di negozi. Sulla vita sociale. Continuerà così se prevarrà la distopia rispetto alla possibilità di un nuovo Rinascimento. Continuerà peggio, come nell’incubo di Huxley (e sarà un incubo di tutti, benché costretti a ripetere che in questo modo “tutti sono felici adesso”). E’ nei momenti di infelicità che lampeggiano le soluzioni, inaspettate e semplici quindi difficili da individuare a mente fredda e con umor contento.

 

Ne offrì una, di soluzione ora spendibile e meravigliosa, uno scrittore largamente dimenticato che pure fu candidato al premio Nobel per la letteratura (lo propose Mircea Eliade e i nomi dei papabili al riconoscimento, sebbene l’ufficialità imponga un’attesa di cinquant’anni, possono circolare anche da subito). Piero Scanziani lavorava, durante la Seconda guerra mondiale, alla radio svizzera di Berna, “caporedattore di radiogiornali ascoltati nel mondo perché neutrali e quindi vicini al vero. Ma quale era il vero nel turbine delle propagande sfrontate? Notizie tutte tendenziose e menzognere: i belligeranti diffondevano valanghe di parole per nascondere le loro realtà” (alle fake news mancava il nome ma pullulavano, come e più di quest’anno di pandemia). Un mattino, lasciata la redazione dopo il servizio notturno, “perduto ormai il sonno, stracco e scontento”, Scanziani riattraversa come sempre il ponte sul fiume Aar per tornare a casa. E’ qui che ha la rivelazione (e ce la presta): “Affacciato a una ringhiera guardavo giù giù l’Aar in torbida piena e trasportava rabbioso ogni sorta di detriti, perfino carogne di bestie irriconoscibili ed ecco un grande albero intero, le foglie verdi sommerse a fil d’acqua, invece le grosse radici nere emergenti in gesti disperati. Tutto era tristizia, tutto uno scappare d’acque e di giorni inafferrabili: il fiume e il tempo sono perenni ed effimeri insieme. Quanta vita mi resterà?”. Disgustato, lascia la ringhiera e si sposta verso quella dirimpetto per vedere se ha già aperto il bar dove bere un caffè. Ecco che qui finalmente un guizzo di gioia gli tocca l’anima: “M’avvedo che dall’opposta ringhiera la corrente non scappa, invece m’arriva, viene, viene”. Non aveva mai pensato di osservare il fiume rivolto da quel lato. Ora, semplicemente girando su se stesso, tutto gli appare diverso: “Il fiume non è fugace anzi è ben fermo con le sue sponde e gli alberi, gli uccelli, i pesci. E’ solo l’acqua che va via via, ma insieme arriva arriva. Fino ad ora avevo voltato le spalle alla fonte guardando con orrore la foce. Mi dico: anche il mio tempo arriva e arriva. Nulla scorre, tutto è qui adesso”.

 

Chi alla mezzanotte del 31 dicembre, nella sua Italia nuovamente zona rossa, s’è affacciato alla finestra ripensando alle genti e alle cose trascinate via nell’anno, agli incontri mancati, ai sorrisi scemati, a tutte le proprie forzate assenze, proverà un senso d’orrore e avvilimento come Scanziani sporto dalla ringhiera sbagliata dell’Aar, troppo spesso quella più frequentata dai tanti di noi che spossati e distratti tornano verso casa al termine della rispettiva notte. Ma chi in qualunque altra notte, fosse pur questa, in attesa del fatidico e simbolico 12 febbraio lunare voglia riaffacciarsi, guardi invece a tutto quanto è da venire con l’anno nuovo. Scruti verso la fonte del tempo. Proverà forse la stessa gioia del quasi dimenticato Scanziani nell’alba sua di guerra. E potrà dirsi come si disse lui: il mio tempo arriva e arriva. Tutto è qui adesso. “Mi accorgo – lui aggiungeva – d’aver sempre vissuto solo nel presente: per dar vita ai ricordi, devo portarli nel presente, per prevedere il futuro devo portarlo nel presente. Se tutto sta al presente, il tempo dov’è? Mi balena la verità: il presente non dura niente, ma non finisce mai”. Il Rinascimento, in fondo, comincia sempre da questioni di prospettiva. Bisogna scegliere dove e come guardare. Giove e Saturno si sono nuovamente congiunti però stavolta nessuna bolla papale, nessun inquisitore possa censurare l’immaginazione di un futuro che non gli appartiene come non gli apparteneva allora. Se poi malauguratamente il vento spirerà troppo forte per volare, prospera sarà ancora l’altra mosca che mancando d’ali s’ostina a camminare – con il suo passo implacabile – da minuscola signora della Terra.

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