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La Britannia in noi

Dai Clash a Dr. Who, la Brexit non può nulla contro certe connessioni

Mario Tuccio

Siamo cresciuti con troppa ispirazione inglese per smettere davvero ora

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Londra, 31 dicembre 2020. Lo scampanio festante del Big Ben annuncia l’arrivo del nuovo anno e contemporaneamente l’uscita definitiva dopo 47 anni del Regno Unito dall’Unione europea. Va bene ci siamo, stavolta è tutto vero. It’s Brexit time. Per almeno tre generazioni di italiani i suoni, i colori, le visioni, le suggestioni e perfino gli odori provenienti dall’infinita massa di produzioni che hanno investito tutto l’universo della cultura Pop contemporanea provenienti dalle isole al di là della Manica sono stati un magico portale verso nuove idee, aspirazioni, suggestioni se non veri e propri stili di vita spesso confliggenti o addirittura alternativi alla cultura del proprio paese di origine.

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Londra, 31 dicembre 2020. Lo scampanio festante del Big Ben annuncia l’arrivo del nuovo anno e contemporaneamente l’uscita definitiva dopo 47 anni del Regno Unito dall’Unione europea. Va bene ci siamo, stavolta è tutto vero. It’s Brexit time. Per almeno tre generazioni di italiani i suoni, i colori, le visioni, le suggestioni e perfino gli odori provenienti dall’infinita massa di produzioni che hanno investito tutto l’universo della cultura Pop contemporanea provenienti dalle isole al di là della Manica sono stati un magico portale verso nuove idee, aspirazioni, suggestioni se non veri e propri stili di vita spesso confliggenti o addirittura alternativi alla cultura del proprio paese di origine.

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Penso al 1965, quando mia zia e le sue amiche partirono tra i malumori dei genitori conservatori per la scintillante Swinging London che seppe offrirgli oltre che un viaggio epocale che avrebbe segnato per sempre le loro vite anche una vasta gamma di esempi di emancipazione che diventarono nel tempo il loro essenziale bagaglio culturale e metro di paragone con quanto le avrebbe aspettate all’inevitabile ritorno nell’Italia del boom di allora, spensierata e vogliosa di futuro come non mai ma ancora molto bigotta e noiosamente provinciale.

 

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La valigia colma di collant dai colori estremamente vivaci, i vestiti optical a tubo, le minigonne di Mary Quant (o chi per essa, il tema è controverso), i grandi occhiali da sole delle dive di Hollywood che sfrecciano guidando una Chevrolet Corvette sul Sunset Boulevard, le chitarre elettriche e i Club dove andare a ballare il Rock and roll, il Beat, lo Shake oppure essere introdotte all’affascinante esotismo dei ritmi Boogaloo o del sempre peccaminoso Jazz. Rapidamente questa vera e propria British Invasion dilaga in tutta Italia. I bar che popolano tutta la penisola si riempono di coloratissimi jukebox che con il loro meraviglioso design diventano i veri ambasciatori dei suoni ribelli che vengono dagli Stati Uniti ma soprattutto dal Regno Unito.

 

Sono i tempi dell’eterno derby tra un gruppo di quattro ragazzi dalle facce pulite e rassicuranti di Liverpool, The Beatles, e i teppisti, o raccontati come tali, The Rolling Stones, che con il loro sound a metà tra il rock e il blues raccontano ai ragazzi degli anni ’60 di un mondo fatto di sesso, droga, disordine sociale. Insomma il giusto mix per una miscela esplosiva che potrebbe essere la perfetta colonna sonora di una imminente Rivoluzione di cui si comincia a parlare e che vedrebbe addirittura, per la prima volta nella storia dell’umanità, i giovani come protagonisti assoluti. E poi anche tantissimi altri come i Kinks e soprattutto gli Who che furono protagonisti oltre che della scena Rock anche dell’immaginario visuale, in particolare cinematografico, avendo firmato la colonna sonora del film del 1979 tratto dalla loro Opera rock Quadrophenia (schizofrenia) che si dipana tra Londra e Brigthon nel 1965 che vede protagonista Jimmy un giovane appartenente a una banda di Mods, una delle tante sottoculture giovanili britanniche che si sarebbero diffuse in tutto il mondo influenzando ancora oggi il modo di vestire, parlare, ascoltare e suonare musica di decine di migliaia di persone.

   

  

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Chi non è stato parte oppure non ha conosciuto o indossato capi o ascoltato canzoni che facessero esplicito o indiretto riferimento a controculture spettacolari come Punk, Mods, Skins, Rockabilly, Teddy Boys, Hippies oppure New Romantic? E l’elenco potrebbe continuare a lungo arrivando fino ai Clubbers o ai Casuals che popolano gli stadi di oggi. Le influenze delle sottoculture nel mondo della moda poi sono ampiamente riconosciute, pensiamo alle campagne di alcuni noti brand di abbigliamento che utilizzano sistematicamente elementi stilistici che in origine appartenevano simbolicamente a questi movimenti e che ormai fanno parte ancora una volta del nostro patrimonio culturale consolidato. Così come il mondo delle arti visuali e del fantasy o dello sci-fi che ha indubbiamente un grande debito di riconoscenza nei confronti di serie come Doctor Who prodotta dalla Bbc nel 1963, Spazio 1999 creata da Gerry e Sylvia Anderson per la rete inglese Itc , The Prisoner del 1963 interpretata da Patrick McGoohan o The Avengers – Agente Speciale del 1961 un grande mix tra spy stories e fantascienza.

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Forse senza tutto questo immaginario musicale e stilistico proveniente dalla cara vecchia Inghilterra quello che sarebbe effettivamente avvenuto in tutto l’occidente e non solo sul finire degli anni ’60 sarebbe stato diverso o magari meno intenso. Sicuramente sarebbero stati diversi i genitori di chi ora ha 40/50 anni e di conseguenza anche i loro figli e forse nipoti. Insomma sarebbero diversi molti di noi. Probabilmente sarebbe cambiato qualcosa anche per me e per le molte amiche e amici che hanno attraversato la mia esistenza nelle sue varie fasi. Cresciuto con le musiche della beatlemania e soprattutto con le mille cover italiane dei successi inglesi e americani. Infatti prima della stagione dei cantautori, quindi fino ai tardi anni Sessanta, una larga fetta di canzoni che sono poi andate a comporre l’immaginario socio-culturale italiano erano produzioni artistiche che prendevano le mosse da una canzone straniera. Quindi in Italia abbiamo un immaginario che deriva dalle cover? Assolutamente no. Il testo straniero originario veniva infatti ripreso, riscritto e reinterpretato, a volte completamente stravolto dal significato originario. Questo processo ha allevato una generazione di autori, per fare un nome su tutti Mogol, che così facendo ha involontariamente segnato una “terza via”, diversa dalla composizione inedita e dalla sopra citata cover. Non ci furono dunque solo cover, ma anche versioni nuove in lingua italiana. “Con le mie lacrime così/ As tears go by”, i Rolling Stones in italiano, “Senza luce/A whiter shade of pale”, Camaleonti e Procol Harum , “Quel che ti ho dato/Tell me”, Equipe 84 e Rolling Stones. Cose così.

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Poi a 14 anni vacanza-studio a Londra, al secondo giorno decido di scappare con una compagna di corso a Camden Town il quartiere alternativo dove ci sono i negozi di gadget musicali, vestiti usati e ogni genere di follia che un giovane curioso e affamato di novità a buon mercato possa desiderare. Ed ecco esplodere da una cassa di uno shop dentro il vecchio edificio del mercato, poi andato a fuoco e ristrutturato qualche anno fa, il riff ipnotico e suadente di un canzone e di un gruppo che sarebbero stati un evergreen della colonna sonora della mia vita: Rock the Casbah dei Clash. Curiosamente l’uscita del loro album più famoso, London Calling, è datata 14 dicembre 1979, 41 anni esatti prima della Brexit, una pietra miliare della musica che saprà unire generi e comunità che fino a quel momento non pensavano di avere molto in comune, anche all’interno dello stesso paese. Punk e Reggae per esempio scoprirono di stare a meraviglia insieme e di avere molte più affinità di quanto si credesse prima. La hit omonima è diventata nel corso del tempo simbolo di parecchie cose. Spesso, come accade ai capolavori di qualsiasi genere essi siano, anche molto distanti e contraddittorie tra di loro. Dalle rivolte di strada (i riot) e le occupazioni di case sfitte o abbandonate (gli squat) dei Punk nel 1977 fino alle Olimpiadi di Londra del 2012.

 

Anche se la mitologia del gruppo di Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Nick “Topper” Headon ci insegna che la canzone, diventata ormai una sorta di inno della città, nasce con intenti diversi: ricordarci l’imminente fine del mondo conosciuto fino a quel momento, riecheggiando le paure delle tensioni sociali dell’epoca e dell’ondata di panico scatenata dall’incidente nucleare di Three Mile Island avvenuto nella centrale dell’omonima isola in Pennsylvania il 28 marzo del 1979. Ma anche la fine dell’immagine da cartolina fatta di stereotipi. “London calling to the faraway towns, now that war is declared and battle come down”. Certo. Una chiamata a tutti i giovani, e non solo, del mondo che negli anni contribuiranno a rendere questa città così speciale e ricca di opportunità culturali, lavorative e di vita in generale. Un viaggio che spesso partiva dal programma Erasmus per poi prendere infinite strade differenti, ma dove ciascuno sentiva di poterci perlomeno provare.

 

Uno dei frutti più avvelenati della Brexit si annuncia essere proprio questo. La fine o quantomeno il brusco rallentamento dell’idea di città multiculturale aperta al mondo in favore di un’autarchia sovranista desueta e perdente anche dal punto di vista economico. Chi ha vissuto gli anni ’90 della Cool Britannia e del Britpop, Oasis vs Blur in una riedizione della vecchia rivalità tra band culto, non può non ricordare con nostalgia cosa significava partecipare a un Festival come quello di Glastonbury nel ’94 o passare interi pomeriggi in un negozio di dischi parlando di musica e serate con la massima empatia e confidenza conversando con dei perfetti sconosciuti dei quali statisticamente solo uno su quattro era nativo inglese.

  

 

E poi sua maestà il Calcio o meglio il Football. Il vero linguaggio universale del secolo passato e di questo appena iniziato. Un gioco che va al di là della sola dimensione sportiva investendo anche la dimensione sentimentale, passionale, emotiva, quasi religiosa in molti casi. Un affare di cuore e ovviamente anche di business che coinvolge miliardi di appassionati in tutto il mondo. Ancora una volta. Da passatempo preferito della classe operaia inglese a riferimento obbligatorio delle discussioni, della pratica e delle visioni reali e spesso metafisiche di un sempre crescente pubblico che travalica confini di classe, età e finalmente di genere. Il brivido di sentire cantare dal vivo “You’ll never walk alone” la canzone di Gerry and the Pacemakers poi divenuta un coro da stadio reso celebre dalla Kop, la curva dei tifosi più appassionati del Liverpool Football Club , ma ormai patrimonio di infinite tifoserie vale sempre il prezzo del biglietto. Se poi il tutto viene innaffiato da una buona birra, l’esperienza sensoriale diventa totale. Ancora una volta quindi calcio, musica, moda, stili di vita, immaginario, passioni, cultura, idee, visioni, suggestioni, colori, sapori, esperienze, vissuto, storie personali, relazioni ed emozioni renderanno ancora a lungo saldo e percorribile il ponte ideale tra EU e UK. Definitely Maybe.

 

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