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il foglio del weekend

Beethoven il rivoluzionario

Stefano Picciano

Duecentocinquant’anni fa Beethoven cambiava per sempre la storia della musica. La sua sordità fu l’elemento chiave per aprire nuovi mondi

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"Così deve essere? Così deve essere!” La suggestiva, enigmatica annotazione, scritta a margine del pentagramma, nel manoscritto dell’ultimo quartetto per archi, pare efficacemente definire le sembianze di un itinerario creativo che portò la musica verso orizzonti inediti e mai esplorati. Siamo a una svolta epocale della storia musicale, in cui muta la concezione stessa dell’artista, che non è più, ormai, al servizio di un’autorità e alle sue dipendenze, ma si afferma nella sua individualità e concepisce la propria creatività come necessità autonoma, svincolata dai rapporti del mecenatismo: “Perché scrivo? Perché tutto quello che ho nel cuore deve uscire, ecco perché”, scrive Beethoven.

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"Così deve essere? Così deve essere!” La suggestiva, enigmatica annotazione, scritta a margine del pentagramma, nel manoscritto dell’ultimo quartetto per archi, pare efficacemente definire le sembianze di un itinerario creativo che portò la musica verso orizzonti inediti e mai esplorati. Siamo a una svolta epocale della storia musicale, in cui muta la concezione stessa dell’artista, che non è più, ormai, al servizio di un’autorità e alle sue dipendenze, ma si afferma nella sua individualità e concepisce la propria creatività come necessità autonoma, svincolata dai rapporti del mecenatismo: “Perché scrivo? Perché tutto quello che ho nel cuore deve uscire, ecco perché”, scrive Beethoven.

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La bibliografia sull’autore più eseguito nella storia occidentale è sterminata, e non sempre ciò che fu scritto dai testimoni diretti è privo di falsificazioni; ma è bastata la rilettura dei non molti volumi disponibili in lingua italiana per appassionarci nuovamente e convincerci a scriverne, quasi a invitare il lettore che in queste righe s’imbatte a rivolgersi – che ciò gli sia familiare o meno – alla bellezza che qui di seguito si indaga. Una bellezza dai tratti misteriosi, carica dello stupore a più riprese espresso dai contemporanei, talora perplessi o sbalorditi per il sorgere di un’opera che spalancava alla storia della musica gli orizzonti di una rivoluzione estetica.

Se ne accorse bene il sommo Mozart, che alcune fonti affermano aver ascoltato il sedicenne Beethoven appena giunto a Vienna dalla nativa Bonn, nel 1787: “Tenete d’occhio questo giovane; avrà qualcosa da dirvi”, avrebbe detto. Se ne avvide poi il grande Haydn, indiscusso sovrano del panorama musicale coevo, che accolse il giovane aspirante trasferitosi a Vienna proprio per ricevere le sue lezioni (il quale tuttavia si mostrò, secondo alcuni, didatta poco attento, così da indurlo a rivolgersi ad altri). Dibattuti sono i tratti della circostanza in cui vennero eseguiti i tre Trii (op.1) con cui l’allievo si presentava alla società: pare che Haydn – pur elogiando i primi due – sconsigliasse la pubblicazione del terzo lavoro, in do minore, nel quale infatti già si intravedono – e non solo nella inusuale tonalità d’impianto – i primi, embrionali elementi innovativi che preludono a una rivoluzione ormai imminente.

I primi tempi vedono l’affermazione del pianista virtuoso, che viene accolto con entusiasmo negli ambienti aristocratici della capitale e – nonostante atteggiamenti eccentrici tesi a evidenziare la sua presunta indipendenza dalle dinamiche del mecenatismo – si guadagna il favore e la protezione di vari esponenti della nobiltà viennese. Temperamento irascibile e dai modi rozzi (“personalità assolutamente indomabile”, riferì Goethe), non esitava a entrare in conflitto con i propri amici e protettori, che tuttavia – conoscendone le problematicità caratteriali – gli perdonavano sbalzi d’umore e improvvisi moti d’ira che lo portavano, per esempio, ad abbandonare d’un tratto saloni pieni di nobiltà radunata per ascoltarlo, o a scagliare sui camerieri portate ritenute inadeguate. “Eppure – scrisse un amico – con tutte le sue bizzarrie, che (…) spesso diventavano quasi offensive, vi era in lui qualcosa di inesprimibile, così commovente e nobile che chiunque non poteva far altro che stimarlo e sentirsi attratto da lui”.

  

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La capitale della musica, negli stessi anni in cui Haydn porta il classicismo alle sue massime vette, si accorge che un nuovo protagonista intraprende un sentiero inesplorato. Lo stesso Haydn, interrogato sulle capacità dell’allievo, avrebbe lasciato un commento di straordinario interesse: “Le prime opere mi sono piaciute molto, ma confesso di non comprendere quelle successive. Mi sembra che egli stia componendo in modo sempre più fantasioso”. E’ il fulcro della vicenda di Beethoven: quello stupore per una scrittura del tutto inedita, che determina una cesura senza precedenti nella storia della musica. La critica non esita a descrivere “una tendenza innaturale verso strane modulazioni, un’avversione ai tradizionali rapporti di tonalità, un continuo accumularsi di difficoltà” nelle pagine del giovane compositore. Non che egli avesse rinnegato i contenuti dell’estetica di Haydn e Mozart, che anzi aveva assorbito con ammirazione negli studi giovanili (in riferimento a un concerto per pianoforte di Mozart, Beethoven dice a un amico: “Noi non saremo mai capaci di fare qualcosa di simile!”). Piuttosto, forse, egli avvertì – per usare le efficaci parole di Maynard Solomon – “la futilità di inseguire una perfezione che era già stata raggiunta”; “il senso classico della forma gli appariva come andato in rovina, e ciò lo spronava a ricercare un nuovo sistema espressivo”, con la “necessità di trovare nuove strade e nuove forme per le proprie energie creative”.

Innumerevoli, così, sono le voci che documentano la sorpresa, la perplessità, talora l’aperto dissenso che la sua musica suscitò nel pubblico dell’epoca, già molto prima che la sordità – drammatico elemento che in seguito avrebbe influenzato ulteriormente la sua opera – ne segnasse la biografia. Mentre persino i suoi amici, con un affetto capace di sopportare pazientemente un carattere scontroso e impossibile a gestirsi, gli confidarono i loro dubbi (“La vostra musica nondimeno rimane per noi del tutto incomprensibile”), proprio alla sordità ci si riferirà, in più d’una occasione, per giustificare con amara compassione una scrittura così ardita.

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Ecco che l’opera non è più destinata a un committente o a un’occasione particolare, ma all’umanità intera, e risponde solo ai dettami di un’interiorità tormentata e imperativa, titanicamente tesa all’espressione di sé e ad essa solo obbediente. Quando al maestro si riferiscono i commenti negativi di un pubblico del tutto impreparato a queste sonorità, egli risponde: “Non piace, ma piacerà”; quando, di fronte all’insuccesso dell’opera Fidelio, gli si propone di ridurne alcune parti, egli afferra il manoscritto e grida: “Nemmeno una nota!”. E quando un violinista, dall’orchestra, si rivolge al maestro sul podio per lamentare le difficoltà esecutive di quanto scritto, Beethoven prorompe: “E crede lei che io pensi al suo miserabile violino, quando lo Spirito mi parla?”.

 

  

Nel 1801, accortosi di una sordità ormai inevitabile, Beethoven confida a un amico: “Da quasi due anni ho smesso di prender parte a qualsiasi attività sociale, appunto perché mi è impossibile dire alla gente: sono sordo”; e ancora: “E’ sorprendente che certuni non abbiano mai notato la mia sordità; ma dato che sono sempre stato soggetto a eccessi di distrazione, attribuiscono a ciò la mia debolezza d’udito. (…) Ti prego di non dir nulla del mio stato ad alcuno”. Ma già pochi anni dopo, al margine di un manoscritto pone la breve annotazione: “Fa’ che la tua sordità non sia più un segreto. Neppure nell’arte”. Così – si potrebbe dire – inizia a sospingersi verso orizzonti inesplorati: “Sono solo parzialmente soddisfatto di ciò che ho scritto finora; d’ora in avanti batterò una nuova via”. Ecco che la scrittura di Beethoven assume un carattere totalmente nuovo, inoltrandosi nella fase centrale della sua attività. Come scrisse Richard Wagner, “quanto più egli perdeva il contatto con il mondo esteriore, tanto più chiaramente il suo occhio penetrava nell’intimo del suo mondo interiore. (...) Da quel momento l’occhio del musicista si illumina dal di dentro” e Beethoven, “non disturbato dal frastuono della vita, ascolta solo interiori armonie (...). Allora parla a lui di nuovo l’essenza delle cose”. Analogamente annotò Julien Green: “Forse la sordità di Beethoven ha liberato la musica. (…) Ci voleva un sordo per farci sentire qualche cosa di diverso”.

La Sinfonia Eroica, scritta tra il 1802 e il 1804, sconvolge e stupisce. Giudicata “troppo lunga, elaborata, incomprensibile, e fin troppo rumorosa”, viene eseguita per la prima volta l’anno seguente, ottenendo recensioni dalla stampa che accennano a “eccessive stravaganze e novità”. Come scrive Lewis Lockwood “buona parte degli ascoltatori (…) furono sconcertati dalla sua lunghezza e dalla sua energia (…)” e alcuni critici “nella maniera più assoluta negavano che il lavoro avesse un valore artistico”. Troppe, per il pubblico dell’epoca, le novità, tra cui la famosa entrata dissonante dei corni nel primo movimento, subito prima della ripresa, che generò un divertente incidente con l’amico Ries: “Alla prima prova di questa sinfonia, che fu disastrosa, ero vicino a Beethoven e quando il cornista eseguì la sua entrata com’era scritta, credendo che si fosse sbagliato, dissi: ‘Dannato cornista! Non è capace di contare? E’ orrendamente stonato’. Credo di essere stato molto vicino a ricevere uno schiaffo. Beethoven non me lo perdonò per lungo tempo”. Qualcosa di analogo avvenne per i tre Quartetti op. 59 Razumovsky, che non piacquero affatto (Thayer, il maggior biografo del maestro, scrive che “nessun’altra opera di Beethoven ebbe un’accoglienza tanto scoraggiante”): una prima esecuzione è segnata dal racconto del divertito sconcerto del pubblico, da cui provengono risate (“Erano convinti – racconta l’allievo Czerny – che Beethoven si burlasse di loro, che scherzasse”), così come significativa è l’affermazione di un pianista italiano: “Beethoven, come tutti dicono (…), è un pazzo musicale, perché questa non è musica”. Sarà proprio l’autore, tuttavia a rispondergli a tono: “Oh, ma questa non è roba per Lei, bensì per un tempo futuro!”.

La Quinta Sinfonial’opera più celebre – viene completata nel 1807. Con il tratto più identificativo – il ritmico motivo iniziale di quattro note – viene considerata, per così dire, la sinfonia beethoveniana per eccellenza – sebbene Louis Spohr, riferendosi all’ultimo tempo, parlasse di “una babele priva di senso” – e pare collocarsi come uno dei più alti, ineffabili vertici espressivi della cultura occidentale. La Settima Sinfonia, ultimata nel 1812 ed eseguita all’indomani della vittoria militare su Napoleone, contiene – nel celebre secondo movimento – la rappresentazione forse più profonda di che cosa sia la malinconia, con la sua reiterata figurazione ritmica di dattilo e spondeo, che “fin dalla prima esecuzione è stato uno dei pezzi preferiti da tutti gli amatori e gli intenditori”.

  

  

L’itinerario creativo del compositore, tuttavia, non si sarebbe soffermato a questa fase già estremamente innovativa, per spingersi ancora più in là. Nel 1815, la morte del fratello e la conseguente vicenda dell’affidamento del nipote Karl – con diatribe familiari e tribunali – aprono un capitolo tormentato della biografia di Beethoven: i drammi personali legati alla definitiva sordità e alle difficili vicende attraversate sono intimamente legati a una ulteriore evoluzione creativa: una continua sperimentazione oltre i limiti di ogni estetica allora concepibile gli apre la strada verso orizzonti nuovi.

Le opere tarde sono spesso accolte con freddezza e non comprese, viene ancora una volta accampata la scusa della sordità che gli avrebbe impedito di comporre correttamente; qualcuno, però, ricorda di aver visto Beethoven, negli ultimi anni, improvvisare al pianoforte gettando la mano sinistra aperta e piatta sulla tastiera a premere vari tasti contigui, creando volontariamente dissonanze clamorose, “e così sommergere, in un rumore discordante, la musica a cui la sua destra stava sensibilmente dando vita”. Un giorno, passeggiando con un amico, Beethoven esclamò: “Mi è venuto in mente qualcosa di nuovo”. Vennero così i due Quartetti del 1826 (op. 131 e op. 135), che portano a uno dei capitoli più straordinari dell’opera di Beethoven, con il Quartetto op. 130 e la sua Fuga finale che poi, su insistenza degli editori, venne pubblicata autonomamente come op. 133 (l’ascolti, il lettore, per avere un saggio chiaro del punto a cui la scrittura dell’autore giunse): alla prima esecuzione, nel marzo del 1826, il pubblico rimase “attonito e perplesso” e un critico definì l’opera “incomprensibile come il cinese”. “Beethoven – conclude Solomon – aveva cercato di trasportare con sé i propri ascoltatori in un regno in cui la loro preparazione e la loro sensibilità non avrebbe permesso loro di entrare”.

Il compositore si ostina a dirigere le prove, nonostante le evidenti difficoltà: nel 1822 una prova di Fidelio fallisce miseramente per l’impossibilità di sentire l’orchestra, che deve interrompere più volte l’esecuzione; dopo vari tentativi, il maestro si avvede dell’imbarazzo generale e, infuriato, lascia il teatro e corre a casa. Due anni dopo, però, la prima esecuzione della Nona Sinfonia è un clamoroso successo: il pubblico si accorge di assistere a una circostanza d’enorme valore storico e indirizza all’autore applausi scroscianti che tuttavia egli non sente, rimanendo voltato verso l’orchestra; una delle cantanti, prendendolo per mano, lo fa voltare verso il pubblico, che inizia allora ad aggiungere agli applausi un frenetico sventolio di cappelli e fazzoletti.

Ringraziavano colui che, proprio attraverso quell’ultimo periodo particolarmente sofferto, aveva portato la storia della musica su una strada inedita. Così, mentre c’è stato chi ha visto nelle tormentate vicende dell’ultimo periodo un ostacolo ad una creatività che si fece più rada, altri hanno sostenuto l’idea che in tali eventi vada invece individuato il fattore scatenante delle novità verso cui la scrittura beethoveniana si indirizza: è proprio nella concretezza delle circostanze biografiche che l’arte continua il suo corso. Per quanto misterioso rimanga il rapporto tra dimensione biografica e genesi delle opere, è difficile non cogliere questo legame, che aprì la strada ad una rivoluzione estetica senza precedenti, “ponendo le basi per un avanzamento della sua creatività in territori mai fino ad allora esplorati”.

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