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Due scrittori, due Sicilie

Da Sciascia a Bufalino. L'orgoglio di essere provinciali

Nadia Terranova

Da Comiso a Racalmuto: lì c’è una vita che arricchisce la curiosità culturale. Il comune denominatore è l’isolamento e la distanza dai centri del potere. Si può viaggiare o restare sull’isola, ma tutto resta com’è

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"Io vengo da una provincia lontana, da un’altra Sicilia forse; e tuttavia nei ritratti che ho visto ora, ma nei vostri visi, amici, e nel dialetto che voi parlate, quante radici comuni ritrovo intatte”, scrive Gesualdo Bufalino nello storico giornale di Racalmuto, ancora oggi esistente ed evocativo già dal nome, Malgrado tutto. Bufalino interviene nella primavera del 1984, invitato a commentare una mostra di ritratti racalmutesi dell’Ottocento; il testo si trova in una raccolta fuori commercio di qualche anno fa riservata agli abbonati del giornale, con l’introduzione di Antonio Di Grado, e le parole di Bufalino sono l’unico ponte che serve alla Sicilia, l’unico di cui bisognerebbe discutere, un ponte che unisce, senza snaturarle, le due anime dell’isola, le due gigantesche province che contengono tutte le altre come sottoinsiemi: l’una orientale ellenica e l’altra occidentale punica. Se le province siciliane sono cento, per parafrasare il titolo dell’antologia di scrittori isolani curata da Bufalino insieme a Nunzio Zago, loro due soltanto sono i mondi entro i quali tutte confluiscono, e sono separate da un muro. Gli isolani di est e di ovest quel muro lo vedono appena nati e da allora lo riconoscono senza scampo a tavola e nei dialetti, nelle metamorfosi del vocabolario e delle spezie, invisibile e altissimo, invalicabile. Poi, qualche volta, lo valicano.

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"Io vengo da una provincia lontana, da un’altra Sicilia forse; e tuttavia nei ritratti che ho visto ora, ma nei vostri visi, amici, e nel dialetto che voi parlate, quante radici comuni ritrovo intatte”, scrive Gesualdo Bufalino nello storico giornale di Racalmuto, ancora oggi esistente ed evocativo già dal nome, Malgrado tutto. Bufalino interviene nella primavera del 1984, invitato a commentare una mostra di ritratti racalmutesi dell’Ottocento; il testo si trova in una raccolta fuori commercio di qualche anno fa riservata agli abbonati del giornale, con l’introduzione di Antonio Di Grado, e le parole di Bufalino sono l’unico ponte che serve alla Sicilia, l’unico di cui bisognerebbe discutere, un ponte che unisce, senza snaturarle, le due anime dell’isola, le due gigantesche province che contengono tutte le altre come sottoinsiemi: l’una orientale ellenica e l’altra occidentale punica. Se le province siciliane sono cento, per parafrasare il titolo dell’antologia di scrittori isolani curata da Bufalino insieme a Nunzio Zago, loro due soltanto sono i mondi entro i quali tutte confluiscono, e sono separate da un muro. Gli isolani di est e di ovest quel muro lo vedono appena nati e da allora lo riconoscono senza scampo a tavola e nei dialetti, nelle metamorfosi del vocabolario e delle spezie, invisibile e altissimo, invalicabile. Poi, qualche volta, lo valicano.

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Gesualdo Bufalino e Malgrado tutto è un piccolo volume prezioso per noi che guardiamo al microscopio oriente e occidente, un rammendo di parole fra i due mondi. E’ un libro di grande importanza affettiva e di intenzione affettuosa, è il modo in cui si omaggia una relazione fra intellettuali che avevano fatto della nascita in provincia un osservatorio privilegiato. Il loro dialogo non si interruppe con la morte di Sciascia, perché in Sicilia non esiste niente che si interrompa con la morte. Nel novembre 1989, Malgrado tutto pubblicò un testo intitolato Addio, Leonardo, nel quale, per dire il dolore della perdita dell’amico, Bufalino non rinunciava alla sua congenita ironia: “Per questa cerimonia di addio sono sicuro che Leonardo avrebbe preferito il silenzio più totale. Se dunque disobbedisco a una sua sottintesa volontà e gli uso la scortesia di scrivere di lui è per una spinta di commozione irresistibile, e anche per punirlo, per così dire, di averci lasciati soli. Tante volte, io che sono più vecchio di lui di appena tre mesi, mi son visto cedere il passo quando dovevamo varcare una porta, con la scusa scherzosa della mia anzianità. Stavolta è lui che si è arrogato il diritto di precedermi nel buio”. Anche dopo la morte di Sciascia, Bufalino continuò a inviare i suoi scritti da Comiso a Racalmuto e a maggio del 1995, un mese prima dell’incidente in cui sarebbe morto, Malgrado tutto pubblicò il suo ultimo testo.

 

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Prima e dopo la morte di Sciascia, dunque, i due costruivano attraverso la ricerca di una radice comune un ponte fra la provincia orientale e quella occidentale. Ancora a proposito della mostra di visi racalmutesi: “Certo è che questi ritratti somigliano abbastanza a ritratti ottocenteschi dei paesi miei”, scrive Bufalino, e, cercando il motivo di quel sentimento di familiarità lo fa risalire agli autori, molti dei quali anonimi. “Probabilmente una specie di schiera di pittori vaganti che andavano di paese in paese a dipingere dietro commissione”. Non sappiamo se esistevano davvero questi pittori mercenari che sull’isola erano migrati da est a ovest, dal paese di Dino a quello di Nanà, dal Museo d’ombre che consegnava Comiso alla storia della letteratura alle Parrocchie di Regalpetra che faceva lo stesso con Racalmuto, però, in quelle parole, queste figure mitiche andavano a formare l’immagine perfetta di una segreta connessione tra due mondi. Bufalino trovava una parentela tra gli sguardi. Il comune denominatore era l’isolamento, una distanza assoluta dai centri del potere e una sensazione di abbandono che, faceva sì che, ai lati opposti della Sicilia, a soli tre mesi di distanza, fossero nati due tra gli intellettuali del Novecento che più l’avrebbero emblematizzata. Bufalino scrive che la formazione di Sciascia avvenne in anni densi “di esplorazioni e scoperte, anni di turbamento, con occhi e orecchie aperti al cataclisma che devastava il mondo, ma attenti soprattutto alla realtà siciliana, dove l’invasione alleata aveva scatenato un gioco di tragicomiche passioni, fra rancori, doppi giochi, borie nuove e antiche, delazioni, trasformismi, rivalse” e li definisce positivamente “anni di latenza provinciale.” In provincia tutto è deformato, o forse ce lo raccontiamo per dirci che stare di fianco alle cose permette di comprenderle in modo più completo.

 

Il fascismo che Leonardo Sciascia aveva osservato, vissuto e introiettato da bambino non avrebbe agito allo stesso modo sulla sua formazione se la casa della sua infanzia non si fosse trovata nel cuore di Racalmuto, ma a Roma, a due passi da piazza Venezia: la periferia era stata determinante e modificante, producendo passione, rigore e posizionamento radicalizzato. Nelle prime pagine della Sicilia come metafora, Sciascia racconta del suo primo apprendistato antifascista, vissuto tutto in famiglia e grazie alle donne: una zia chiamava Mussolini “musso-di-porco” (“musso” = muso) e un’altra teneva il ritratto di Matteotti nascosto in fondo al paniere, ma racconta anche di essere stato portato alla stazione di Racalmuto per veder passare Roberto Farinacci, allora segretario del Partito fascista, e di aver sentito chiaramente qualcuno accanto a lui mormorare, indicandolo, un soprannome indelebile: “L’onorevole Tettoia”. Farinacci era capostazione e poi, vendutosi alla politica, era diventato avvocato, ma l’epiteto lo inchiodava, lo riportava alla sua origine, all’ombra delle tettoie ferroviarie: la provincia è disposta a tutto ma non a dimenticare, sciagura e marchi sono per sempre. Ho sempre avuto l’impressione che, fuori dai luoghi dove la grande storia si è svolta, la percezione di una dittatura confluisca in questo aneddoto. E’ un’immagine di inconsapevole autocombustione: uno squadrista attraversa per propaganda una terra, ignaro che la consistenza della sua scia coincida con il ghigno di un appellativo, e che quel ghigno sia più feroce della sua fama. La provincia polverizza l’autoritarismo, e non per sovversione, anzi: di solito è il teatro assonnato della compiacenza, della replica grottesca e svuotata dei meccanismi del potere. Semplicemente, la provincia, e quella siciliana in particolare, non tollera di essere schiacciata da un corpo estraneo e di passaggio, per orgoglio gli si oppone con tutte le forze, e siccome non ne ha, non è allenata, non si è mai formata per guardare verso una direzione ma solo per pachidermici e stratificati consolidamenti, allora la provincia ride, e ride forte. Non sa ridere di sé da sola e ride di sé nell’altro: la Sicilia “fascista fino al midollo” spernacchiava il fascista Tettoia esorcizzando solo in superficie il regime che in profondità lasciava attecchire.

 

L’amplificazione cui tutto è sottoposto in provincia non è solo rovinosa. Quando si dirige sui sentimenti positivi, su ciò che ci rende felici, allora riesce a nobilitare ciò che altrove è greve e banale: “In provincia conosco ammirazioni intransigenti e irriflessive come un amore”, ha scritto Bufalino, lasciando intravedere il ritratto di certe infanzie dense di letture solitarie e mitizzanti: le ammirazioni di chi non ha niente a parte i propri confini possono durare tutta la vita senza avere a che fare né con la coppia né con il matrimonio. A proposito: sposando la sua Giovanna, dopo vent’anni di tormentato fidanzamento, Bufalino raccolse i suoi aforismi preferiti sul tema in un volume, Il matrimonio illustrato, che venne distribuito agli sposi in forma di colta bomboniera – i matrimoni giù da noi non sono solo grossi e grassi, e la provincia può sempre sorprendere. Che Gesualdo Bufalino fosse un eccentrico bibliofilo è noto a tutti, ma solo chi va a Comiso, a piazza delle Erbe, e si prende la briga di visitare la fondazione che porta il suo nome, cui è stata devoluta la sua biblioteca, curiosando tra i suoi libri non potrà fare a meno di essere sorpreso da due dettagli inattesi: la prevalenza di edizioni economiche di opere capitali e il poliglottismo europeo delle stesse. Nella provincia remota da cui non si allontanò quasi mai, Bufalino, figlio di una casalinga e di un fabbro, fu fin da bambino lettore famelico, e per saziarsi si procurava tutto quello che la provincia ragusana poteva offrigli. Nell’isolamento tradusse dall’italiano al francese I fiori del male di Baudelaire, per provare a sentire come dovevano suonare nell’originale, che non riusciva a procurarsi, e anni dopo li ritradusse dal francese all’italiano. Vivere in provincia, prima che internet la collegasse al resto del mondo (non direi snaturandola, direi più: estremizzandola), significava poter scegliere anche questo: trovarsi un poeta per amico, patire la sua assenza, frequentarlo per tutta la vita pure senza poterlo leggere. Quanto alle lingue parlate dalla biblioteca bufaliniana – spagnolo, inglese, francese, tedesco – confermano ancora una volta che si può essere siciliani europei viaggiando molto, come Tomasi di Lampedusa, oppure non mettendo mai davvero a rischio il proprio ricco isolamento, come Gesualdo Bufalino o Lucio Piccolo. Oppure si può essere europei nell’andirivieni di Sciascia, che dal treno che da Roma così di frequente lo riportava in Sicilia, negli anni in cui era parlamentare, trasse ispirazione per uno dei suoi racconti più belli, Il mare colore del vino, o da quello di Stefano D’Arrigo, che tra Alì Terme, in provincia di Messina, e Altipiani di Arcinazzo, in Ciociaria, scrisse il suo capolavoro Horcynus Orca, la lunga storia di una traghettata dall’isola al continente. Quello che ogni volta mi chiedo, quando leggo uno scrittore siciliano del Novecento, è in che modo sta esprimendo la sua provincia, pure se la nasconde, pure se non si vede; e mentre me lo chiedo non posso fare a meno di immaginarlo negli anni più deserti, nella silenziosa e conflittuale costruzione di un rapporto con i confini della sua nascita. Penso ai libri che amava e a come riusciva a trovarli, ma anche a certi cinematografi dove si coltivavano il gusto e il sentimento. L’enfant du paradis (Salarchi editore) è un volume che raccoglie tutto il materiale su Bufalino cinefilo: “Costava una lira, nel 1935, un biglietto di loggione nel cinema Vona, a Comiso, dove io consumavo quasi ogni sera i miei primi tremanti commerci amorosi col cinema. Una lira, cioè venti soldi, che non era facile mettere insieme. Tuttavia, a costo di chiedere un prestito a un amico più squattrinato o di sfilare la somma con mani notturne dal borsellino paterno, finivo sempre col racimolarla e porgerla nel palmo aperto – obolo e sesamo di un’Ade dalle bellissime larve – alle unghie non sempre nette dell’operatore cassiere. Me ne venivano in cambio estasi di cui non mi sono scordato”. In uno degli scritti raccolti in questo libro, Bufalino racconta di una cena alla tenuta della Noce, a casa di Sciascia (la Noce: la periferia della provincia, la sua campagna, il suo eremo). Quella sera, insieme a Maria Sciascia, i due discussero della possibilità che gli intellettuali cambino il corso della storia, possibilità di fronte alla quale Leonardo si mostrò scettico; Bufalino parte da quel ricordo per una disamina sull’apparente freddezza con cui l’amico seguiva gli adattamenti cinematografici dei suoi libri, una freddezza che invece non mostrava quando si trattava di abbandonarsi alla gioia pura della settima arte: “Ben maggiore entusiasmo mostrava, viceversa, Sciascia, quando si trattava di opere che non lo toccassero direttamente ma si riconnettessero al nostro comune patrimonio di memorie cinematografiche, al nostro remoto noviziato di spettatori. Allora la lingua gli si scioglieva, era come tornare a braccetto nell’eden dell’infanzia perduta. Ricordo una sera a Roma, a casa di Lina Wertmuller e di Enrico Job, davanti ai begli occhi sbarrati di Piera Degli Esposti, come facemmo a gara, noi due, a chi poteva meglio citare un frammento di scena, il tic d’una comparsa dimenticata. Parlo dei film americani e francesi degli anni Trenta”. Che prendere dalla provincia tutto ciò che la provincia poteva dare, in quegli anni, sia stato fondamentale per Sciascia, Bufalino lo sa bene, perché conosce quel movimento innanzitutto su di sé: “Ora io non voglio dire che quelle esperienze di spettatore abbiano avuto un peso esclusivo sulla sua formazione culturale. Ci furono i libri, questo va da sé. E tuttavia esse servirono a sbloccare, a sprigionare il ragazzo dalla triplice clausura in cui viveva: della dittatura, dell’isola, della provincia. Furono, quei film, la lima nella pagnotta che permise a lui e a tanti altri la fuga dalla quarantena italiana e l’ingresso nell’Europa”. Fra quei tanti altri ragazzi si può annoverare anche lui, Gesualdo. Confrontandosi sugli anni dell’adolescenza e della giovinezza, Sciascia e Bufalino scoprirono di avere avuto la stessa abitudine, annotare su un quadernetto tutti i film che vedevano.

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E’ così che si può tracciare, tra due scrittori diversissimi, un filo rosso, immaginandoli sotto il fascismo a respirare “a stissa aria”, formarsi nelle scuole e nelle letture private, entrare in cinema gemelli, insegnare per vivere, sentire crescere lo stesso desiderio di restare siciliani, sì, ma con l’obbligo di trovare chiavi straniere e aria nuova per raccontare l’isola, per meglio comprenderla. Per poter procedere con quello che in Museo d’ombre, il libro dedicato alle figure scomparse della sua Comiso, e dedicato al padre, ha fatto Bufalino: “il catasto affettivo e il ritratto fantastico-storico di una comunità”. Di contro, e marcando ciò che li rende due intellettuali così diversi, a proposito delle Parrocchie di Regalpetra, Sciascia scrive: “Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione”. Quella verità che Sciascia legge in modo etico e Bufalino immaginifico risiede però per entrambi nella memoria. Curiosamente, nella storpiatura del fantastico Gesualdo chiama il suo paese con il nome proprio, mentre nella sua aderenza alla storia Sciascia ha bisogno di inventare Regalpetra, che non è del tutto Racalmuto, non soltanto, quantomeno. Anche lui sapeva che le cento province siciliane si somigliano sempre, contro la loro volontà. Che in ogni città, sull’isola, c’è un proverbio che ricorda lo sconforto e il pessimismo: dalle mie parti è la definizione stessa dello Stretto: “Sciroccu, piscistocco e malanova” (vento di scirocco, il pescestocco tipico della nostra cucina e la malanova, cioè la cattiva novella). A Comiso, dice Bufalino, sulla bocca delle madri fioriva questo adagio desolato: “Chistu è ‘u paisi d’o scunfuortu: o cadi acqua o tira ventu o sona u mortu.” (questo è il paese dello sconforto, o piove o tira vento o suonano le campane a morto). Ovunque, in provincia, bisogna che un motteggiare livido ricordi la malasorte e la malagrazia, affinché chi ci vive abbia la sua bestemmia e parole chiare cui aggrapparsi. Col proprio paese bisogna soprattutto litigarci forte: “Si sa come vanno queste cose”, scrive Bufalino, “Uno abita a lungo in un posto, ventre materno, scoglio di Acitrezza, cella di Regina Coeli. E a un certo punto si stufa. Allora scalcia contro l’addome, va sulla spiaggia a guardare le navi che passano al largo, cerca lime nelle pagnotte. L’avevo fatto anch’io a più riprese, ma troppo debolmente per riuscire ad andarmene senza ritornare.” Scrive però che un giorno fece pace con il paese, dopo averlo a lungo odiato. “Pace?”, si chiede, e allora si sente in dovere di precisare: “Un armistizio, piuttosto, uno dei molti. Essendo il dilemma paese-città – per chi nasce in una profonda provincia, e la provincia è un’isola, e l’isola è sul parallelo di Tunisi – uno di quelli sui cui corni non si finisce mai di ferirsi le dita. Vecchia storia: si vuol bene al villaggio che, come dice il filosofo greco, si può abbracciare con un’occhiata, ma si sognano i ventruti Leviatani di pietra chissà dove. Si vorrebbe discorrere sotto un olmo con un barbiere o un curato, ma si lucida ogni mattina la staffa di Ronzinante”.

 

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Qualche tempo fa una persona, per offendermi, mi definì una provinciale. Rimasi stupita, come se mi avessero detto ingiuriosamente che ero bruna o avevo l’età che avevo o altre ovvietà. Pensai al posto da cui veniva quella persona e mi dissi che era una provincia più piccola della mia, deducendone che solo i provinciali usano “provinciale” come insulto. Ma non è vero neppure questo, essendolo io stessa e non avendolo mai adoperato così: mi trovo così davanti a un’aporia, sento che avrò compagnia per i prossimi giorni, e anche questo è molto siciliano.

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