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L'intervista

L’ottimismo della ragione, adesso

Lo psicologo cognitivo è in rotta con una parte dell’accademia (minoritaria ma rumorosa). La fiducia nel progresso, anche se “non è una magia", e il "peccato di ingratitudine”

Francesco Chiamulera

Liberal e alfiere del progresso, l’autore del “Declino della violenza” è accusato di essere un criptoconservatore da una parte della sinistra Usa. Due chiacchiere con Steven Pinker, che critica Trump e resta fiducioso nella natura aperta delle giovani generazioni

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È solo un grande incompreso, Steven Pinker, quando le sue parole che dovrebbero suonare così cristalline e rincuoranti, così chiare e sollevanti nel riflettere dati e cifre apparentemente incontrovertibili sulle sorti magnifiche e progressive del genere umano nei tempi spesso bui in cui viviamo, vengono accolte dal fastidio e dall’insofferenza di chi ci si aspettava che le apprezzasse? (“Just rejoice!”, come disse Margaret Thatcher alla stampa britannica all’indomani della vittoria nelle Falkland)? O c’è qualcosa di più complesso e oscuro nei suoi vivaci detrattori, in quella parte di American Left che nel suo paese, gli Stati Uniti, gli sta intentando una specie di processo per deviazionismo centrista, eccessivo ottimismo e lesa inclusività, accusandolo non troppo velatamente di essere un trumpiano mascherato?

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È solo un grande incompreso, Steven Pinker, quando le sue parole che dovrebbero suonare così cristalline e rincuoranti, così chiare e sollevanti nel riflettere dati e cifre apparentemente incontrovertibili sulle sorti magnifiche e progressive del genere umano nei tempi spesso bui in cui viviamo, vengono accolte dal fastidio e dall’insofferenza di chi ci si aspettava che le apprezzasse? (“Just rejoice!”, come disse Margaret Thatcher alla stampa britannica all’indomani della vittoria nelle Falkland)? O c’è qualcosa di più complesso e oscuro nei suoi vivaci detrattori, in quella parte di American Left che nel suo paese, gli Stati Uniti, gli sta intentando una specie di processo per deviazionismo centrista, eccessivo ottimismo e lesa inclusività, accusandolo non troppo velatamente di essere un trumpiano mascherato?

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Un bel paradosso, quello che coinvolge uno dei più noti psicologi cognitivi americani, docente ad Harvard, autore di libri apprezzatissimi e vendutissimi – in L’istinto del linguaggio e Fatti di parole argomenta su disposizione innata e apprendimento negli esseri umani per la comunicazione verbale, in Il declino della violenza dimostra con una mole clamorosa di grafici e statistiche come la nostra sia l’epoca tecnicamente più nonviolenta di sempre –, alfiere dichiarato del progresso e liberal altrettanto deciso, eppure in rotta di collisione proprio con una parte dell’accademia statunitense, probabilmente minoritaria, ma assai vocale. O forse è solo il beffardo destino riservato a chi, come Simon nel Signore delle mosche di Golding, scende dalla montagna per annunciare la lieta novella, quella verità lampante che pochi hanno davvero voglia di sentire.

 

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Per dire al resto del mondo che le cose non vanno poi così male come si credeva, che quel mostro di cui tutti parlano in realtà non è che un fantasma innocuo; che la pandemia è terribile, ma è infinitamente meno terribile di quella precedente, la Spagnola; che la globalizzazione avrà fatto qualche danno, ma ha portato benefici incomparabilmente maggiori a tutti – e non solo agli indiani e ai cinesi, ma perfino, udite udite, ai lavoratori del manifatturiero del Wisconsin, del West Virginia, del Nord Italia, della Baviera che adesso possono comprare i mobili all’Ikea, accedere a Wikipedia dallo smartphone e prendere aerei low cost per le Canarie. Eppure, e qui sta la natura del paradosso-Pinker, a rivoltarsi in modo più veemente contro il suo messaggio stabilmente voltairiano, fieramente cosmopolita, allegramente speranzoso, tutto teso a sottolineare come il mondo di oggi sia migliore di quello di ieri, non sono oggi i sovranisti né la Alt-right. Anzi, mentre Trump imperversa, i democratici si preparano alle più incerte e combattute presidenziali della storia recente, l’Europa fatica a contenere la spinta dei populismi e metà del pianeta affronta la piaga dei nuovi leader autoritari, non è sul fianco destro che Pinker deve guardarsi dai colpi bassi.

 

“L’uomo più insopportabile del mondo”, lo ha definito l’intellettuale leftist Nathan J. Robinson, fondatore e direttore di Current Affairs, osservando che Pinker è “una di quelle persone che dicono costantemente che loro Sono-Semplicemente-Ragionevoli, e ti chiedono come mai tu ti stia comportando in modo così pazzo e irrazionale, quando sono loro in realtà a comportarsi in modo così dannatamente, estremamente irragionevole”. Un’antipatia epidermica, quella di Robinson, verso colui che ha ricordato nel suo ultimo libro, il bestseller Illuminismo adesso, come appena il 10 per cento della popolazione umana viva sotto la soglia della povertà estrema, quando ancora nel 1981 era ben il 40 per cento. Poi Robinson un po’ si tradisce quando scende sul personale: “Lo spettacolo di un professore di Harvard che guadagna milioni di dollari con i propri libri e che ha amici nel jet set della élite globale che dice ai Rohingya di stare su col morale, e agli afroamericani di essere più grati per l’arrivo dell’iPhone, è grottesco”.

 

Ma è tutt’altro che solo. Gli ha fatto eco la femminista Kate Manne, filosofa alla Cornell University, considerata una delle ideologhe del MeToo in seno all’accademia. Che non si è accontentata del fatto che in Il declino della violenza (che nell’edizione originale si intitola The Better Angels Of Our Nature, splendida citazione lincolniana) Pinker abbia dedicato intere pagine piene di approvazione alla femminilizzazione della società, considerata cruciale nella riduzione del tasso di violenza e nell’avanzamento della civiltà, e che in esse la figura peggiore la facciano i maschi, per secoli dominatori del mondo e responsabili della quasi totalità dei conflitti che si sono susseguiti nella Storia. “Pinker è un paternalista e un antifemminista”, ha scritto Manne riferendosi a un tweet di Pinker, che nel 2014, dopo il massacro di Isla Vista in cui il giovane Elliot Rodger aveva ucciso sei persone e poi si era tolto la vita dichiarando di volersi vendicare con il mondo perché a ventitré anni era ancora vergine, aveva commentato: “L’idea che il massacro sia parte di uno schema di odio verso le donne è statisticamente ottusa”. Forse Pinker si riferiva al fatto che quattro delle sei vittime di Rodger erano maschi, forse no. Fatto sta che questa è solo una piccola frazione di una lunga serie di critiche e attacchi al professore dichiarato ammiratore di Spinoza e di Voltaire, che con gli uomini del Secolo dei Lumi non ha in comune solo il look ricciolino, whig e capellone, ma l’urgenza confessa di spargere buone notizie.

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Curiosamente, però, le accuse contro di lui vengono molto più spesso dalla citazione di tweet e frammenti di conversazioni social che dalla lettura organica dei suoi libri. L’ultima a colpire Pinker è una lettera indirizzata da alcune centinaia di studiosi (ben pochi dei quali sono nomi noti dell’università americana, a dire il vero) alla Linguistic Society of America, la principale organizzazione di ricerca e studio per studi linguistici. Che chiede che il nome di Pinker venga rimosso dall’elenco dei membri di rilievo della società. Confortata da soli cinque tweet “incriminati” di Pinker degli ultimi sei anni. In uno, il professore scriveva che il problema con la polizia in America era che la polizia sparava troppo, in generale, e non solo e necessariamente agli afroamericani. In un altro, che Pinker ora non esita a definire una “catena di contaminazione”, ironizzando sulla facilità con cui i suoi accusatori allargano il biasimo ai diversi livelli di chi entra in contatto con la fonte originaria della “colpa”, l’autore di Illuminismo adesso aveva ritwittato un editoriale di David Brooks, columnist del New York Times, che a sua volta aveva difeso un autore di Google che era stato licenziato per una nota interna che aveva circolato nella compagnia, in cui, in modo articolato, aveva scritto agli altri dipendenti istruzioni su come ridurre le differenze di genere, impiegando argomentazioni forse discutibili ma non necessariamente sessiste: come ad esempio, “uomini e donne differiscono anche geneticamente”, “le donne tendono a mostrare più interesse per le persone, gli uomini per le cose”, “le donne di media tendono a essere più cooperative, gli uomini più competitivi”, eccetera. Tutto dibattibile, appunto, peccato che queste cose non le aveva comunque scritte Pinker, il quale, ripetiamo, si era limitato a condividere l’opinione di Brooks, che dissentiva sulle ragioni di quel licenziamento...

 

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Vi è venuto mal di testa? Non siete i soli. Il tenore delle critiche al prof., accusato più o meno di essere un criptoconservatore, è mediamente tutto costruito così, per contaminazione appunto, come un’arringa di un pm che cominci dicendo: “è vero o no che lei è stato visto discorrere pubblicamente con il noto mafioso...”, più che entrando nel merito dei suoi argomenti, come da vecchia tradizione del dibattito delle idee. Perfino Robinson, tra un attacco e l’altro, ammette di essere d’accordo “con l’80 per cento di quanto Pinker sostiene”, neanche fosse un dettaglio. Ostentatamente incurante di tutto questo, Pinker va avanti. Col suo stile piano, chiaro, a volte caustico (“le idee e i valori occidentali possono fluire verso l’esterno con risultati sorprendenti: Osama bin Laden, per esempio, possedeva un libro di Noam Chomsky”, è una delle tipiche stilettate che si possono trovare nei suoi libri). Soprattutto col suo vangelo laico. Continua a sfornare numeri: sulle guerre (“se nel 1950 il numero degli uomini morti su un campo di battaglia era di 23 su 100.000, la cifra era scesa a 10 nel 1970; a 4 su 100.000 nel 1987. Da allora si è assestata tra 1 e 2 morti”); sull’aspettativa di vita (“non è mai stata così alta. Nel Regno Unito era di 35 anni nel 1860, di 45 anni nel 1900, di 65 anni nel 1940, di 74 nel 1980; di circa 81 nel 2020; i paesi ex satelliti del Patto di Varsavia dal 1989 hanno visto un’impennata nella propria aspettativa di vita, che in alcuni ha superato i dieci, i dodici anni”); sulla spesa sociale in relazione alle diseguaglianze (“in crescita ovunque, anche in occidente, dove mediamente raggiunge oggi il 22 per cento del pil degli stati”).

 

Ha co-firmato il clamoroso appello di luglio di scrittori e intellettuali liberal – tra gli altri J.K. Rowling, Salman Rushdie, Martin Amis, Paul Berman, Anne Applebaum, Margaret Atwood, David Brooks, Ian Buruma, Jeffrey Eugenides, Francis Fukuyama e sì, anche Noam Chomsky – che lamentano il “clima opprimente per il libero pensiero” in occidente. E “non solo per via di Donald Trump, una minaccia per la democrazia”, ma anche a causa dei nuovi zeloti, che mostrano “intolleranza per le opinioni contrarie, facilità all’ostracismo e alla gogna pubblica, alla censura verso autori e opere citate dagli studiosi, e la tendenza a risolvere complesse questioni di politica in cieche certezze morali”.

 

Ora, parlando con il Foglio, Pinker critica apertamente Trump per la gestione della pandemia, tiene dritta la barra della sua difesa dell’illuminismo dai reazionari di ogni segno, e resta assai fiducioso sulla natura inerentemente aperta e globale delle giovani generazioni. “La reazione americana alla pandemia è stata assolutamente inadeguata. Gli Stati Uniti amano pensare a sé stessi come alla nazione più avanzata scientificamente, ma hanno avuto uno dei peggiori risultati nel combattere il Covid, calcolando i casi e i decessi pro capite. E non è una coincidenza. Abbiamo un presidente che è famigerato nella sua ostilità alla scienza e alla competenza. Dalle sue stesse dichiarazioni dei primi tempi è possibile constatare come avesse cercato, con l’insorgere dei contagi, di fare finta che non stesse succedendo niente. Ha promosso idee deliranti, rifiutate dalla comunità scientifica, come usare la candeggina, o esporsi ai raggi ultravioletti”, dice.

 

“Agli occhi di un virus o di un batterio, noi non siamo che grosse succulente porzioni di proteine e grassi: siamo cibo. Possiamo però essere più intelligenti dei patogeni. Magari non istantaneamente, all’inizio possiamo sbagliarci, e questo perché la nostra condizione iniziale è ignoranza. Proviamo e riproviamo, e facciamo esperimenti, e proviamo di nuovo, finché non troviamo le soluzioni. Distanziamento e confinamento sono state alcune delle iniziali risposte che hanno funzionato meglio, come dimostrano i casi di quelle nazioni che le hanno applicate fin da subito. Al contrario degli Stati Uniti, che proprio perché non lo hanno fatto hanno avuto una pessima performance. Certo, sono simpatetico con quelli che dicono che dovremmo cercare di imporre misure che causino il minore danno economico e personale possibile, che non dovremmo sottovalutare le preoccupazioni per le durezze economiche e umane. Ma resto convinto che se la pandemia continua, come sembra fare negli Stati Uniti, minimizzare i rischi per la salute dovrebbe essere la priorità: perché alla fine questo avrà salvato sia le vite che le economie”.

 

Il problema, nota Pinker ora come nei suoi libri, è che il progresso “non è una magia. Cioè non significa automaticamente che tutti stiano meglio ovunque e sempre. Non dà garanzie che le cose migliorino sempre. Tuttavia, la riduzione della estrema povertà, il declino nelle guerre, nei crimini violenti, nell’ineguaglianza di genere e di razza, nell’analfabetismo, sono fatti statistici enormi. E incontrovertibili. E anche se nuove malattie sono all’orizzonte, abbiamo ragionevoli probabilità di fare molto meglio delle pandemie precedenti, come l’influenza spagnola della prima metà del Novecento. Possiamo sviluppare i vaccini molto più velocemente di allora, tanto per dire”.

 

Compulsando Illuminismo adesso, edito in Italia da Mondadori, si scopre che le scoperte di soli cento scienziati e delle loro équipe hanno salvato intorno a cinque miliardi di vite umane (stima prudente). Pausa ammirata. Cinque miliardi. Eppure, lamenta Pinker con il piglio di un viaggiatore del tempo che piombasse con la sua astronave da metà Novecento al Ventunesimo secolo, “diagnosticare ogni contrattempo nel progresso come un sintomo di una società malata è un modo a buon mercato per darsi un’aria di gravitas”. Soprattutto, i no-vax sono ora molti più di prima. “Il peccato di ingratitudine può non fare parte dei sette peccati capitali, ma secondo Dante consegna chi se ne macchia al nono girone dell’Inferno, e quello è il posto dove la cultura intellettuale dei decenni successivi agli anni Sessanta potrebbe ritrovarsi a causa della sua amnesia nei confronti dei vincitori della malattia”.

 

A proposito. “Peccato di ingratitudine” è un’espressione che Pinker sembra rivolgere anche ai propri rumorosi detrattori. Che probabilmente non riusciranno a farlo estirpare dalla lista degli esponenti illustri della Linguistic Society of America. Ma che animano una guerra culturale che divide il campo liberal ben oltre la singola vicenda di un docente di Harvard. Più profonda dell’opposizione oleografica progressives versus centrists, più sfaccettata della sola questione generazionale millennials versus maturi. Nella sinistra intellettuale americana è forse la fiducia stessa di quelli come Pinker nell’esistenza di una cosa chiamata progresso che, ancor prima di tutto il resto, fa da vero spartiacque. E se anche tra le parti fosse tregua armata nei mesi della campagna elettorale, in funzione anti Trump (e non è detto), la battaglia ha tutta l’aria di riprendere alla grande, dalla mattina di mercoledì 4 novembre.

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